The Winefully Magazine

MAZZON E IL PINOT NERO IN ALTO ADIGE

Parlando di Pinot Nero è interessante provare a capire perché sia così amato, ricercato, e in qualche modo venerato dagli appassionati di tutto il mondo. Parte del fascino nasce dal fatto che si tratta di un vitigno particolarmente difficile da coltivare. È una varietà delicata, precoce, tutt’altro che versatile, anzi, adatta soltanto ad alcuni particolari luoghi e climi. Il punto è che quando sussistono le giuste condizioni, compresa la mano di uomini capaci di valorizzare il vitigno, i risultati possono raggiungere livelli straordinari. Il Pinot Nero ha inoltre la particolare capacità di restituire le caratteristiche di zone anche molto piccole, e delle micro-differenze che esistono tra loro, in maniera precisa e sfaccettata. Basta un dislivello di pochi metri, o una minima discrepanza a livello di suoli, e due parcelle anche molto vicine possono portare nel bicchiere vini essenzialmente diversi.

La patria di questo vitigno è la Francia e in particolare la Borgogna, dove arriva a esprimere i livelli qualitativi più elevati. Lo si può trovare poi in diverse altre zone del mondo caratterizzate da climi freschi ed escursioni termiche importanti. Tra queste la Germania, l’Austria, il Sud Africa, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti, soprattutto in Oregon e California. Anche in Italia si può trovare in diverse regioni. Nell’Oltrepò Pavese, dove storicamente viene utilizzato per produrre gli spumanti, così come in Franciacorta. In Friuli, in Toscana, in Umbria, Marche e Abruzzo. Ultimamente si è diffuso anche al sud, in Campania, Basilicata e Sicilia, nella zona dell’Etna. E poi si trova un po’ ovunque sull’arco alpino: in Alto Adige, in particolare, dove viene chiamato anche Blauburgunder, diversi produttori hanno saputo dare vita a etichette che spiccano per stoffa ed espressività.

Il Pinot Nero è una presenza storica in Alto Adige, dove viene coltivato da oltre due secoli. Per descrivere i picchi qualitativi che è in grado di raggiungere in questa regione bisogna esplorare la zona dei borghi di Egna e di Montagna, e in particolare l’altopiano di Mazzon. Qui, a un’altitudine compresa tra i 250 e i 450 metri circa, si trova il Vigneto Mazzon, dove verso la metà del Novecento alcuni produttori hanno iniziato a concentrarsi proprio su questo vitigno. Stiamo parlando di un vigneto
che si estende per circa 60 ettari e vanta una posizione particolarmente felice per la coltivazione del Pinot Nero. Mazzon è esposto a ovest. Le montagne a nord svolgono una funzione importantissima, perché nelle prime ore del giorno proteggono dai raggi solari evitando che il calore sia eccessivo. Inoltre, riparano il vigneto dai venti più rigidi che provengono da nord e da est, lasciando campo invece all’Ora, la brezza mite che soffia dal Lago di Garda. Il vigneto gode poi di un’ottima quantità di luce, che si estende a lungo nel pomeriggio. Quando il sole cala le temperature si abbassano bruscamente, determinando quell’escursione termica fondamentale per la qualità del Pinot Nero.

Mazzon vede protagonisti circa una decina di produttori altoatesini, che riescono a ottenere risultati di notevole interesse. I vini dei diversi artigiani che lavorano il vigneto mostrano alcuni tratti comuni. Tra questi un frutto nitido, fresco e sprizzante, spesso intrecciato a note speziate, per un profilo complessivo in grado di dare soddisfazioni già dopo pochi anni, e al tempo stesso di moltiplicarle con il passare del tempo. Tra i nomi di queste realtà spicca Gottardi, oggi guidata da Elisabeth Gottardi, che negli anni Ottanta ha iniziato un lavoro specifico sul Pinot Nero, e nell’arco di una decade è riuscita a ottenere livelli di eccellenza assoluta.

Riserva Mazzon” viene prodotto dall’azienda esclusivamente nelle migliori annate, lavorando le uve dei vigneti più vecchi. 100% Pinot Nero, matura un anno in barriques nuove e 14 mesi in botti grandi, per poi affinare 6 mesi in bottiglia. Ne nasce un rosso complesso, tratto tipico dei vini che nascono da questo importante vigneto. Si presenta alla vista con un rosso brillante, lucente. Al naso profuma di frutti di bosco, con una particolare inclinazione verso la fragolina; sullo sfondo, spezie ed erbe officinali. In bocca articola una struttura ricca, con un tannino leggiadro, elegante, integrato a un profilo aromatico di grande ampiezza. Lungo, persistente, rintocchi freschi e sapidi di rincorrono e prolungano le sensazioni piacevoli al palato. Intrigante da subito, ha le caratteristiche giuste anche per restare in cantina ed evolvere nel tempo il proprio profilo.

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

Parlando di Pinot Nero è interessante provare a capire perché sia così amato, ricercato, e in qualche modo venerato dagli appassionati di tutto il mondo. Parte del fascino nasce dal fatto che si tratta di un vitigno particolarmente difficile da coltivare. È una varietà delicata, precoce, tutt’altro che versatile, anzi, adatta soltanto ad alcuni particolari luoghi e climi. Il punto è che quando sussistono le giuste condizioni, compresa la mano di uomini capaci di valorizzare il vitigno, i risultati possono raggiungere livelli straordinari. Il Pinot Nero ha inoltre la particolare capacità di restituire le caratteristiche di zone anche molto piccole, e delle micro-differenze che esistono tra loro, in maniera precisa e sfaccettata. Basta un dislivello di pochi metri, o una minima discrepanza a livello di suoli, e due parcelle anche molto vicine possono portare nel bicchiere vini essenzialmente diversi.

La patria di questo vitigno è la Francia e in particolare la Borgogna, dove arriva a esprimere i livelli qualitativi più elevati. Lo si può trovare poi in diverse altre zone del mondo caratterizzate da climi freschi ed escursioni termiche importanti. Tra queste la Germania, l’Austria, il Sud Africa, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti, soprattutto in Oregon e California. Anche in Italia si può trovare in diverse regioni. Nell’Oltrepò Pavese, dove storicamente viene utilizzato per produrre gli spumanti, così come in Franciacorta. In Friuli, in Toscana, in Umbria, Marche e Abruzzo. Ultimamente si è diffuso anche al sud, in Campania, Basilicata e Sicilia, nella zona dell’Etna. E poi si trova un po’ ovunque sull’arco alpino: in Alto Adige, in particolare, dove viene chiamato anche Blauburgunder, diversi produttori hanno saputo dare vita a etichette che spiccano per stoffa ed espressività.

Il Pinot Nero è una presenza storica in Alto Adige, dove viene coltivato da oltre due secoli. Per descrivere i picchi qualitativi che è in grado di raggiungere in questa regione bisogna esplorare la zona dei borghi di Egna e di Montagna, e in particolare l’altopiano di Mazzon. Qui, a un’altitudine compresa tra i 250 e i 450 metri circa, si trova il Vigneto Mazzon, dove verso la metà del Novecento alcuni produttori hanno iniziato a concentrarsi proprio su questo vitigno. Stiamo parlando di un vigneto
che si estende per circa 60 ettari e vanta una posizione particolarmente felice per la coltivazione del Pinot Nero. Mazzon è esposto a ovest. Le montagne a nord svolgono una funzione importantissima, perché nelle prime ore del giorno proteggono dai raggi solari evitando che il calore sia eccessivo. Inoltre, riparano il vigneto dai venti più rigidi che provengono da nord e da est, lasciando campo invece all’Ora, la brezza mite che soffia dal Lago di Garda. Il vigneto gode poi di un’ottima quantità di luce, che si estende a lungo nel pomeriggio. Quando il sole cala le temperature si abbassano bruscamente, determinando quell’escursione termica fondamentale per la qualità del Pinot Nero.

Mazzon vede protagonisti circa una decina di produttori altoatesini, che riescono a ottenere risultati di notevole interesse. I vini dei diversi artigiani che lavorano il vigneto mostrano alcuni tratti comuni. Tra questi un frutto nitido, fresco e sprizzante, spesso intrecciato a note speziate, per un profilo complessivo in grado di dare soddisfazioni già dopo pochi anni, e al tempo stesso di moltiplicarle con il passare del tempo. Tra i nomi di queste realtà spicca Gottardi, oggi guidata da Elisabeth Gottardi, che negli anni Ottanta ha iniziato un lavoro specifico sul Pinot Nero, e nell’arco di una decade è riuscita a ottenere livelli di eccellenza assoluta.

Riserva Mazzon” viene prodotto dall’azienda esclusivamente nelle migliori annate, lavorando le uve dei vigneti più vecchi. 100% Pinot Nero, matura un anno in barriques nuove e 14 mesi in botti grandi, per poi affinare 6 mesi in bottiglia. Ne nasce un rosso complesso, tratto tipico dei vini che nascono da questo importante vigneto. Si presenta alla vista con un rosso brillante, lucente. Al naso profuma di frutti di bosco, con una particolare inclinazione verso la fragolina; sullo sfondo, spezie ed erbe officinali. In bocca articola una struttura ricca, con un tannino leggiadro, elegante, integrato a un profilo aromatico di grande ampiezza. Lungo, persistente, rintocchi freschi e sapidi di rincorrono e prolungano le sensazioni piacevoli al palato. Intrigante da subito, ha le caratteristiche giuste anche per restare in cantina ed evolvere nel tempo il proprio profilo.

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

MAZZON E IL PINOT NERO IN ALTO ADIGE

Parlando di Pinot Nero è interessante provare a capire perché sia così amato, ricercato, e in qualche modo venerato dagli appassionati di tutto il mondo. Parte del fascino nasce dal fatto che si tratta di un vitigno particolarmente difficile da coltivare. È una varietà delicata, precoce, tutt’altro che versatile, anzi, adatta soltanto ad alcuni particolari luoghi e climi. Il punto è che quando sussistono le giuste condizioni, compresa la mano di uomini capaci di valorizzare il vitigno, i risultati possono raggiungere livelli straordinari. Il Pinot Nero ha inoltre la particolare capacità di restituire le caratteristiche di zone anche molto piccole, e delle micro-differenze che esistono tra loro, in maniera precisa e sfaccettata. Basta un dislivello di pochi metri, o una minima discrepanza a livello di suoli, e due parcelle anche molto vicine possono portare nel bicchiere vini essenzialmente diversi.

La patria di questo vitigno è la Francia e in particolare la Borgogna, dove arriva a esprimere i livelli qualitativi più elevati. Lo si può trovare poi in diverse altre zone del mondo caratterizzate da climi freschi ed escursioni termiche importanti. Tra queste la Germania, l’Austria, il Sud Africa, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti, soprattutto in Oregon e California. Anche in Italia si può trovare in diverse regioni. Nell’Oltrepò Pavese, dove storicamente viene utilizzato per produrre gli spumanti, così come in Franciacorta. In Friuli, in Toscana, in Umbria, Marche e Abruzzo. Ultimamente si è diffuso anche al sud, in Campania, Basilicata e Sicilia, nella zona dell’Etna. E poi si trova un po’ ovunque sull’arco alpino: in Alto Adige, in particolare, dove viene chiamato anche Blauburgunder, diversi produttori hanno saputo dare vita a etichette che spiccano per stoffa ed espressività.

Il Pinot Nero è una presenza storica in Alto Adige, dove viene coltivato da oltre due secoli. Per descrivere i picchi qualitativi che è in grado di raggiungere in questa regione bisogna esplorare la zona dei borghi di Egna e di Montagna, e in particolare l’altopiano di Mazzon. Qui, a un’altitudine compresa tra i 250 e i 450 metri circa, si trova il Vigneto Mazzon, dove verso la metà del Novecento alcuni produttori hanno iniziato a concentrarsi proprio su questo vitigno. Stiamo parlando di un vigneto
che si estende per circa 60 ettari e vanta una posizione particolarmente felice per la coltivazione del Pinot Nero. Mazzon è esposto a ovest. Le montagne a nord svolgono una funzione importantissima, perché nelle prime ore del giorno proteggono dai raggi solari evitando che il calore sia eccessivo. Inoltre, riparano il vigneto dai venti più rigidi che provengono da nord e da est, lasciando campo invece all’Ora, la brezza mite che soffia dal Lago di Garda. Il vigneto gode poi di un’ottima quantità di luce, che si estende a lungo nel pomeriggio. Quando il sole cala le temperature si abbassano bruscamente, determinando quell’escursione termica fondamentale per la qualità del Pinot Nero.

Mazzon vede protagonisti circa una decina di produttori altoatesini, che riescono a ottenere risultati di notevole interesse. I vini dei diversi artigiani che lavorano il vigneto mostrano alcuni tratti comuni. Tra questi un frutto nitido, fresco e sprizzante, spesso intrecciato a note speziate, per un profilo complessivo in grado di dare soddisfazioni già dopo pochi anni, e al tempo stesso di moltiplicarle con il passare del tempo. Tra i nomi di queste realtà spicca Gottardi, oggi guidata da Elisabeth Gottardi, che negli anni Ottanta ha iniziato un lavoro specifico sul Pinot Nero, e nell’arco di una decade è riuscita a ottenere livelli di eccellenza assoluta.

Riserva Mazzon” viene prodotto dall’azienda esclusivamente nelle migliori annate, lavorando le uve dei vigneti più vecchi. 100% Pinot Nero, matura un anno in barriques nuove e 14 mesi in botti grandi, per poi affinare 6 mesi in bottiglia. Ne nasce un rosso complesso, tratto tipico dei vini che nascono da questo importante vigneto. Si presenta alla vista con un rosso brillante, lucente. Al naso profuma di frutti di bosco, con una particolare inclinazione verso la fragolina; sullo sfondo, spezie ed erbe officinali. In bocca articola una struttura ricca, con un tannino leggiadro, elegante, integrato a un profilo aromatico di grande ampiezza. Lungo, persistente, rintocchi freschi e sapidi di rincorrono e prolungano le sensazioni piacevoli al palato. Intrigante da subito, ha le caratteristiche giuste anche per restare in cantina ed evolvere nel tempo il proprio profilo.

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

SPUMANTI, DOSAGGIO ZERO ED EVOLUZIONE DEL GUSTO

Il mondo del gusto non è mai rimasto fermo, nel corso dei secoli ha vissuto un’evoluzione costante. Questi cambiamenti riguardano da sempre sia l’ambito del vino, sia quello del cibo in generale. Gualtiero Marchesi, ad esempio, sull’onda della Nouvelle Cuisine ha portato una grande rivoluzione nel nostro Paese. Fino a quel momento la lavorazione degli ingredienti, con preparazioni anche molto elaborate, aveva un ruolo centrale. È proprio Marchesi in Italia a dare nuova dignità alle materie prime e alla qualità che le contraddistingue, aprendo la strada a uno stile inedito dove le preparazioni si semplificano, e gli ingredienti emergono con le loro caratteristiche intrinseche.

Lo stesso vale per il vino. Intorno agli anni Ottanta e Novanta molti appassionati amavano rossi corposi e molto strutturati, prodotti utilizzando botti piccole per far sì che i sentori del legno incidessero significativamente sul vino stesso. Anche la critica valorizzava quel tipo di etichette, e il mercato di conseguenza faceva lo stesso. Nei decenni il quadro è cambiato parecchio e oggi ci troviamo in un periodo in cui si sta consolidando una tendenza differente, per certi versi quasi opposta. Per descriverla bisogna fare un passo indietro. Il mondo della degustazione, tra i vari approcci, ne utilizza uno che divide i sentori del vino in durezze e morbidezze. Nel primo gruppo ci sono l’acidità, la sapidità e i tannini; nel secondo si trovano zuccheri, alcol e polialcoli. Questi ultimi comprendono la glicerina, fondamentale per dare al vino viscosità, dunque densità e morbidezza. Un vino ben fatto, tra le varie caratteristiche, presenta un equilibrio tra questi aspetti, o comunque una proporzione ragionata a monte. Chiarite queste due dimensioni, possiamo dire che da qualche anno esiste una tendenza a valorizzare le durezze. Lasciamo da parte i tannini, che derivano dall’utilizzo delle bucce nella fase di lavorazione del vino, e riguardano principalmente i vini rossi e i cosiddetti orange wine. Nelle enoteche si trovano sempre più spesso vini con maggior acidità e freschezza di un tempo, più sferzanti. Anche la sapidità è valorizzata: si può riflettere ad esempio in sentori iodati sottili, appena percepibili, oppure in note saline più nette e marcate.

Il mondo degli spumanti non è escluso da questa nuova ondata. Anzi, se parliamo di Metodo Classico in particolare, il tema
assume grande centralità. Questi vini sappiamo infatti che vengono classificati in base alla quantità di zuccheri residui che si trovano in bottiglia. Extra-dry, brut ed extra-brut, ad esempio, sono diciture che identificano una specifica quantità di residuo zuccherino. Possiamo dire che, per un gioco di equilibri tra le diverse dimensioni che abbiamo visto, in uno spumante con più zuccheri emergerà maggiormente la componente morbida. Viceversa, una quantità minore di zuccheri lascerà più spazio ad acidità e sapidità, dunque alle durezze.

Oggi, coerentemente con la tendenza di cui sopra, c’è un’attenzione sempre più grande per gli spumanti con presenza di zuccheri molto bassa, o addirittura pari a zero. La categoria viene chiamata dosaggio zero, o pas dosé; il nome deriva dal dosaggio del liqueur d’expédition, quello che appunto determina la quantità di zuccheri che rimarranno in bottiglia. Durezze più evidenti significa vini taglienti, con l’acidità in primo piano e la sapidità che può esprimersi con note salmastre, o legate al mondo dei minerali, tra cui ad esempio la grafite.

I pas dosé sono vini versatili, in grado di accompagnare diverse occasioni. Ad esempio quella dell’aperitivo, dove la freschezza gioca un ruolo fondamentale per godere di bevute senza abbinamento, o al limite accompagnate da stuzzichini leggeri. Anche per quanto riguarda i possibili accostamenti a pranzo e cena, i dosaggio zero presentano grande adattabilità e lasciano aperte molte porte. Ecco una possibile direzione, che parte dall’assenza o quasi di zuccheri, e quindi da una loro caratteristica di essenzialità. In questo senso, può essere interessante un abbinamento con piatti altrettanto essenziali come i crudi di pesce, magari delle tartare, improntati sulla qualità e sulla purezza della materia prima, che non viene nemmeno cucinata, ma solo condita delicatamente.

Uno dei produttori più interessanti nel mondo dello Champagne è Tarlant. Il suo “Zero Brut Nature“, in particolare, è prodotto con un blend di uve che comprendono Chardonnay, Pinot Meunier, Pinot Noir e altri vitigni antichi. La conduzione è biologica, con un grande rispetto della natura e un approccio che prevede il minor intervento possibile da parte dell’uomo.
Prima fermentazione in acciaio e affinamento in barrique per sei mesi, poi seconda fermentazione e risposo sui lieviti di almeno sei anni, infine la sboccatura fatta a mano. I profumi giocano tra il mondo dei fiori e quello degli agrumi, insieme a richiami di sensazioni più avvolgenti, come quelle del miele. In bocca mostra un perlage finissimo. E, naturalmente, una presenza in primo piano della dimensione delle durezze: acidità rinfrescante, e trama salina a fare da contrappunto. Ha una grande persistenza, con gli aromi che accompagnano lungamente il palato lasciando un bellissimo ricordo di questa maison artigianale oggi sempre più ricercata.

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

GLI ORANGE WINE TRA SPIGOLI E SINTONIE

Se dovessimo raccontare in sintesi cosa sono gli orange wine, o macerati, potremmo dire che si tratta di vini prodotti partendo da uve bianche, ma utilizzando il processo produttivo dei rossi, ovvero tenendo le bucce a contatto con il mosto. Il tempo di questo contatto è variabile: può andare da alcune ore a diversi mesi

Da qualche anno c’è un interesse crescente per questa tipologia di vini, che a primo impatto possono far pensare a un fenomeno nuovo. In realtà gli orange wine hanno origini antichissime, si parla di migliaia di anni fa. Da sempre, in Georgia, vengono prodotti utilizzando i kvevri, tradizionali anfore in terracotta tipiche della regione. Non si tratta dell’unica zona che ha un legame storico con i macerati. Anche l’area che si sviluppa intorno al confine tra Friuli e Slovenia ha una stretta connessione con gli orange wine.Questa zona geografica, in particolare, ha avuto un ruolo fondamentale nella riscoperta di questo particolare metodo produttivo.

Bicchieri visti dall'alto

Negli ultimi anni si è detto molto sui macerati. Spesso sono stati inquadrati come vini estremi, come la scelta giusta quando si vuole provare qualcosa di audace, magari anche un po’ ostico. Come vini difficili, in poche parole. Da un lato questa prospettiva ha un fondo di verità. La presenza dei tannini, dovuta al contatto con le bucce, porta al vino una terza dimensione fatta di durezze e spigoli. Il connubio uve bianche e macerazione, inoltre, dà al vino sentori che per molti possono risultare selvaggi, o poco familiari. Altro punto: spesso i macerati, soprattutto nel caso di contatto con le bucce prolungato per mesi, risultano vini materici, di grande consistenza. Tanto che qualcuno, scherzosamente, a volte li chiama vini “mangia e bevi”.

Questa struttura importante, dall’altro lato, apre un tema ugualmente significativo e meno evidenziato: gli orange wine sono molto versatili, soprattutto quando si tratta di cibo e abbinamenti. Le ragioni di questa adattabilità sono molteplici. Una, appena citata, è certamente quella del corpo. Una struttura più presente rispetto a quella dei classici bianchi permette ai vini macerati di uscire dai perimetri di abbinamento più comuni, che li vogliono accostati principalmente a piatti delicati, spesso a base di pesce.

I tempi di macerazione, e la relativa intensità che ne deriva, sono determinanti per valutare precisamente gli abbinamenti più indicati. Possiamo dire, ad esempio, che spesso si tratta di una buona scelta per le carni bianche e i formaggi di media e lunga stagionatura. Andando più nello specifico dei vini caratterizzati da lunghe macerazioni, un punto fondamentale è l’intensità che ne deriva.

Proprio questa intensità apre svariate opportunità di abbinamento, che in alcune circostanzepuò risolvere casi di accostamenti complessi. È il caso, ad esempio, dei piatti speziati, tipici della cucina orientale. Un orange wine di buona intensità spesso ha le caratteristiche giuste per sostenere il confronto con un’altra intensità importante, quella delle spezie appunto. L’importante, in questo caso, è tenere d’occhio i tannini; se troppo accentuati, con i loro spigoli potrebbero entrare in conflitto con la personalità spiccata delle spezie

Cucina asiatica

Un tema importantissimo è poi quello della temperatura. Giocare con i gradi centigradi, nel mondo dei macerati, può dare risultati interessanti. Partendo dal presupposto che la temperatura di servizio di questi vini si aggira intorno ai 15 gradi, bisogna tener conto che temperature più basse enfatizzano le durezze, quindi acidità, sapidità e tannini, mentre temperature più elevate portano in evidenza le morbidezze, dunque gli zuccheri, l’alcol e la componente glicerica. Se questo accade per qualsiasi tipo di vino, con gli orange wine l’ampiezza dei sentori che di dischiudono alle diverse temperature a mio avviso è davvero notevole.

Tanto che mi capita spesso, al ristorante, di scegliere per l’intera cena un solo vino, un orange wine, caratterizzato da un tempo di macerazione significativo. Servito fresco, per iniziare, può accompagnare tanti tipi di antipasti, ad esempio delle polpette di vitello. Man mano che il vino sale di temperatura, è come se gradualmente si rendesse adattabile ad ogni passaggio della cena. Un po’ meno freddo per accompagnare un primo, ad esempio della pasta fresca con un sugo d’anatra. E poi, con una temperatura ancora un po’ più alta, un secondo piatto importante, magari una carne anche di grande intensità, ad esempio l’agnello.

Come già detto, tutto è relativo alla quantità di tempo che il vino ha trascorso sulle bucce, e conseguentemente alla sua intensità. Nel caso di macerazioni meno marcate, gli accostamenti vanno riconsiderati in modo proporzionale. Munjebel VA Bianco 2019 Di Frank Cornellissen può rappresentare un buon esempio. Nasce sulle pendici dell’Etna da un blend di uve autoctone a bacca bianca e la lavorazione prevede 4 giorni di macerazione. È un vino elegante, complesso, reso ancora più speciale dal fatto che la cuvée proviene interamente da vecchie viti a piede franco che hanno tra i 60 e i 90 anni. Il contatto con le bucce è un tocco garbato che va ad accentuare ulteriormente le caratteristiche di ampiezza e finezza. E in questo caso specifico, tornando a parlare di cibo, la scelta giusta può ricadere nel mondo delle carni bianche oppure in quello del pesce, ad esempio con una zuppa alla mediterranea.


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier Ais, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

ZUCCHERO CHIAMA ZUCCHERO: I VINI DA ABBINARE AI DOLCI DI NATALE.

Le feste natalizie sono uniche anche perché, per molti, è il momento giusto per concedersi qualcosa di speciale a tavola. Salumi particolari, magari quel caviale da gustare una volta ogni tanto, oppure un buon torrone lavorato a mano o un panettone artigianale. Il mondo dei dolci natalizi, in particolare, è decisamente ricco di alternative tra cui scegliere per chiudere un pranzo o una cena a casa.
A volte si tende a pensare che un Brut Metodo Classico, oltre a essere perfetto per aprire il pasto, può essere una buona alternativa anche da abbinare al dessert. La verità è che in questo caso uno spumante può funzionare solo se presenta una certa quantità di residuo zuccherino. Uno spumante demi-sec, ad esempio, ci può stare, perché i suoi zuccheri oscillano tra i 33 e i 50 grammi per litro; così come uno spumante dolce, dove si supera la soglia dei 50 gr/l.
Senza entrare negli aspetti tecnici, è sufficiente tenere a mente una formula molto semplice: dolce chiama dolce. Non si tratta di un principio assoluto ed esistono tante eccezioni, ad esempio quando si parla di cioccolato fondente, ma è una buona regola base. Non solo per evitare accostamenti poco riusciti, ma anche per non sprecare una bottiglia di pregio, magari quel Metodo Classico conservato mesi e mesi in attesa dell’occasione giusta. È un rischio tipico delle feste, e non accade solo con gli spumanti: abbiamo una bottiglia di valore da parte, aspettiamo da tempo l’occasione giusta per aprirla, e presi dall’entusiasmo del clima natalizio non pensiamo all’abbinamento, perdendo l’occasione di valorizzarla come merita. Dunque a fine pasto, per non sbagliare, ricordiamo che si può sempre assecondare la presenza dello zucchero con altro zucchero. Tecnicamente è quello che si chiama abbinamento per concordanza, alternativa all’accostamento per contrapposizione. La formula non riguarda solo gli spumanti, ma tutti i vini dolci. Tra questi, in particolare, ci sono i passiti, di cui l’Italia è ricchissima a tutte le latitudini, dall’Alto Adige a Pantelleria. Si tratta di vini realizzati attraverso la lavorazione di acini appassiti. L’appassimento può avvenire in pianta, con una vendemmia tardiva che innesca un processo di surmaturazione, oppure dopo la raccolta dell’uva, lasciando disidratare gli acini per un certo periodo di tempo. Quello che si cerca attraverso l’appassimento è una maggior concentrazione diaromi e zuccheri, che si ritroverà poi anche nel bicchiere dopo la lavorazione. Per accostare bene un vino a un dessert non basta scegliere un passito qualsiasi. Anche questo tipo di abbinamento richiede qualche considerazione e permette di giocare tra un ventaglio di opzioni e interpretazioni. Un fattore da tener presente è quello della struttura del dolce che andremo a mangiare. Una torta paradiso, ad esempio, ha una struttura molto diversa rispetto a quella di un panforte, decisamente più importante, dove abbiamo tra gli ingredienti il miele, le mandorle, la frutta candita e diverse spezie. Se nel primo caso possiamo optare per un vino delicato, ad esempio un Moscato d’Asti, nel secondo caso la scelta può andare su un prodotto più strutturato, come ad esempio un Vin Santo. Un altro punto da considerare riguarda il livello di dolcezza, ovvero la quantità di zuccheri presenti nella ricetta, perché c’è dolce e dolce. Un plumcake allo yogurt, in questo senso, è molto diverso da una crostata alla confettura di albicocche. Nel primo caso uno spumante leggero da uve Malvasia può essere una buona soluzione. Nel secondo caso invece si può optare per uno Zibibbo passito che arriva dalla Sicilia, dove il clima caldo favorisce la dolcezza degli acini, e conseguentemente del prodotto finale. Continuando con i fattori da tenere a mente quando cerchiamo l’abbinamento giusto per un dolce, possiamo considerare anche la sua aromaticità. Questa può derivare dalle erbe aromatiche previste dalla ricetta, oppure dal profumo intrinseco di uno specifico ingrediente. Un esempio può essere quello, inconfondibile, dei canditi nel panettone, caratterizzati appunto da spiccata aromaticità. In questo caso per l’abbinamento, sempre in una logica di concordanza, si può valutare un vino di
buona intensità. L’intensità, per intenderci, è quel parametro che descrive in termini quantitativi la forza con cui i sentori si esprimono al naso e al palato. Tipicamente presentano grande intensità diversi vini ottenuti da uve aromatiche come Moscato, Malvasia o Gewürztraminer. Proprio quest’ultima è alla base del passito Rechtenthaler Schlossleiten firmato dalla storica azienda altoatesina Hofstätter, ideale appunto da abbinare a un buon panettone. Un Gewürztraminer da vendemmia tardiva di grande spessore, che prende il nome da uno dei prestigiosi cru dei vigneti di proprietà. Caratteristica chiave è la sua sorprendente freschezza, decisamente sopra la media nella categoria dei vini dolci, e fondamentale per evitare di appesantire la fine di pasti che a Natale possono risultare già di per sé impegnativi. Anche il ridotto contenuto di alcol, intorno al 7%, aiuta a delineare un profilo snello ed elegante. Al naso miele ed erbe aromatiche, in bocca albicocche, pere e agrumi canditi. La lunghissima persistenza connota questo Gewürztraminer come la scelta giusta per chiudere in bellezza un pranzo o una cena natalizia, con l’idea di portare con sé il più a lungo possibile il sapore dolce delle feste.

VITICOLTURA IN VERTICALE: VIAGGIO TRA I VIGNETI PIÙ ALTI D’EUROPA

Quanto in alto ci si può spingere in Europa con la coltivazione della vite? La domanda è più che mai attuale, visti gli effetti del cambiamento climatico e gli esperimenti sempre più frequenti per trovare nell’altitudine una delle risposte decisive. Sono diversi i vigneti che rivendicano il primato di essere i più alti nel vecchio continente. Lo scopo qui non è tanto quello di decretare il vincitore dal punto di vista orografico, o compilare una lista esaustiva, quanto quello di citare alcuni di questi casi, e delineare alcuni tratti distintivi che caratterizzano le vigne in quota e i vini che ne derivano.
Il sud Spagna, con la catena montuosa de La Contraviesa, sembra quella che è riuscita a toccare le altitudini più elevate. Siamo vicino al Parco Nazionale della Sierra Nevada, a sud-est di Granada, all’impressionante quota di 1.368 metri sul livello del mare, mitigata dai venti caldi che provengono dal mare di Alboran. Qui l’azienda Barranco Oscuro coltiva 10 ettari di terreno, un’estensione non banale per condizioni tanto estreme. Tra i vitigni coltivati ci sono sia una serie di autoctoni, sia alcuni internazionali tra cui Pinot Nero e Merlot.
In Alto Adige, precisamente nell’alta Val Venosta, esiste un altro luogo che sfiora le quote dello spagnolo appena citato. Qui l’azienda Calvenschlössl cura diversi vigneti, tra cui uno molto speciale. Si chiama Marienberg, ed è stato l’omonimo monastero benedettino a concedere il terreno perché potesse essere coltivato.L’incredibile altitudine dove cresce il vitigno Solaris è quella di 1.340 metri sul livello del mare, davvero un soffio dal titolo di vigneto più alto d’Europa. Si tratta di luoghi di incredibile fascino, dove la storia millenaria del monastero benedettino si fonde con scenari scoscesi dalla bellezza folgorante, e il lago di Resia spicca con le sue acque cristalline.

Sempre in Italia, ma a tutt’altra latitudine, la viticoltura vola fino a 1.300 metri sul livello del mare. Siamo in Calabria, a Cava di Melis, un piccolo paese nel cuore del Parco Nazionale della Sila, nel comune di Longobucco. L’azienda si chiama Immacolata Pedace, coltiva diversi vitigni internazionali tra cui Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Pinot bianco e Chardonnay. La viticoltura ad altezze così proibitive, in questo caso, è resa possibile da un incrocio delicato di fattori, tra cui la presenza del lago Cecita, che con il suo influsso agisce da elemento mitigante, permettendo di superare i rigidi inverni in cui le temperature arrivano anche a 20 gradi sotto lo zero.Tornando a nord, anche la Valle D’Aosta è conosciuta per le altitudini impressionanti della sua viticoltura. Siamo a 1.210 metri, nella parte nord-ovest della regione, dove nasce il noto Blanc de Morgex et de La Salle, prodotto con uve Prié Blanc. La cantina si chiama Cave Mont Blanc, oggi conta circa 80 soci, ciascuno dei quali coltiva un piccolo vigneto ai piedi del Monte Bianco.Tornando in Alto Adige, e in particolare nella Valle di Non, una realtà davvero interessante è Vin de la Neu, guidata da Nicola Biasi, enologo conosciuto internazionalmente per la capacità di far crescere e affermare sul mercato diverse realtà italiane.

Nicola, oltre dieci anni fa, decide di impiantare a oltre 800 metri di altitudine la varietà resistente Johanniter: il 2013 è l’anno della prima vendemmia. Uno dei punti più interessanti del lavoro di Vin de la Neu è la sperimentazione che oggi, attraverso scienza e conoscenza, permette di produrre vini ad altitudini più elevate rispetto al passato. Uno dei tasselli fondamentali che consente di raggiungere questo obiettivo è lo studio delle varietà resistenti, come appunto la Johanniter. I risultati che danno dal punto di vista agronomico contro le malattie fungine, e non solo, sono davvero straordinari. Questo, naturalmente, permette una totale assenza di trattamenti in vigna, e dunque di portare avanti una viticoltura che davvero si può definire sostenibile e rispettosa del territorio che la accoglie.
Il risultato nel bicchiere è tangibile e inequivocabile. Quelli di Nicola sono vini di grandissima purezza e pulizia, caratterizzati da un’espressività che lascia il segno. L’annata 2017 di Vin de la Neu, in particolare, si caratterizza per il rigore e la freschezza che deriva dall’ambiente montano dove nasce. L’arancia, l’ananas e alcune interessanti sfumature erbacee, si uniscono a una gamma di sentori appartenenti al mondo minerale, come la grafite. A questi si aggiungono screziature di profumi terziari, tra cui si distinguono sfumature di idrocarburi e riverberi iodati. Un sorso teso, ricco e perfettamente a fuoco, che contiene in nuce l’anima di un progetto innovativo che fa dell’armonia con l’ambiente montano la propria cifra distintiva.

Georgia Dimitriou, l’anfitrione de Le Mortelle

L’enologa della tenuta maremmana dei Marchesi Antinori ci porta alla scoperta di questa splendida realtà parlando di identità, di terroir, di architettura e sostenibilità, temi perfettamente integrati all’interno di una delle più importanti aziende vinicole italiane.

Prima di tutto, ci vuole raccontare un po’ di sé, di come si è avvicinata al mondo del vino e del suo affascinante percorso professionale?

Per quanto affascinante può sembrare oggi il mio percorso, confesso che il mio avvicinamento è stato quasi casuale. Studiavo agronomia ad Atene, la mia città di origine, quando mi ha colpito la magia, come la chiamo, della viticoltura; il fatto che da una materia semplice com’è l’uva possa uscire un prodotto talmente complesso ed elegante come può essere il vino. Il ruolo dell’uomo nel centro di questa trasformazione mi ha intrigato cosi tanto da decidere di voler assolutamente fare questo lavoro. Quindi sono partita dalla Grecia per perseguire questa passione in giro per il mondo. Dopo il mio Master in Francia ho lavorato in varie regioni vitivinicole come Bordeaux, Napa Valley, Yarra Valley, Malborough per poi arrivare in Toscana esattamente sette anni fa.

Le Mortelle, come le altre splendide tenute dei Marchesi Antinori, presenta un contesto ambientale unico che, oltre ad essere di una bellezza speciale, è anche estremamente peculiare per quanto riguarda la composizione del terreno e l’esposizione delle vigne. Ce lo può descrivere e spiegare la personalità conferita ai vini della tenuta?

La tenuta, circondata da piccole colline che creano una sorta di anfiteatro, si trova nel sud della Toscana, in Maremma, a una distanza di circa 7 km dal mare. È proprio questa vicinanza al mare, insieme alle caratteristiche pedologiche, a rendere Le Mortelle un posto unico. I nostri terreni, di origine alluvionale/marina, sono ricchi di scheletro con percentuali elevate di sabbia e una piccola percentuale di argilla. La ricchezza di scheletro in superficie tende a mantenere il calore e, insieme alla sabbia, permette un buon drenaggio, limitando eventuali stress idrici estivi. Allo stesso tempo, le vigne hanno un’esposizione Est-Ovest così da sfruttare al meglio il Maestrale pomeridiano che mitiga le temperature. Queste condizioni favoriscono una maturazione lenta e ottimale, soprattutto per le nostre varietà tardive come il Cabernet Sauvignon e il Carménère, dando vita a vini di grande eleganza aromatica e raffinatezza tannica.

Come Winefully abbiamo imparato a conoscere Le Mortelle per mezzo del Poggio alle Nane e dell’Ampio, due rossi complessi e strutturati che sono ambasciatori della Tenuta: come ce li può descrivere e che similitudini (e differenze) troviamo nei due?

A entrambi i vini sono dedicate le migliori parcelle della tenuta e le cure più attente durante tutte le fasi della loro produzione, cominciando dalle operazioni nel vigneto.
Poggio alle Nane è un vino concepito su un’espressione molto elegante del Cabernet Franc della tenuta. La complessità aromatica ottenuta dalle nostre migliori uve di questa varietà, con note di pepe bianco, di mirtillo e di menta, unita alla fitta trama tannica conferita dal Cabernet Sauvignon e il carattere speziato e vellutato del Carménère, creano un vino complesso con un grande potenziale di invecchiamento. Un vino che può offrire soddisfazioni immediate ma che rivela ancora di più il suo carattere a chi ha la pazienza di aspettare.
Ampio invece è un’espressione del tutto particolare di Carménère. Una varietà della stessa famiglia del Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon con cui condivide molte similitudini, soprattutto a livello aromatico, con sfumature di ribes nero e di liquirizia, spesso predominanti. Il Carménère, vitigno di origine bordolese e faro dei vini cileni, viene spesso considerata una varietà meno elegante che però, come mi piace dire, ha trovato nel nostro territorio la sua grazia. L’uvaggio di Ampio, frutto di una conoscenza profonda dei nostri vigneti, ha un’identità più pronunciata e fortemente caratterizzata dalla varietà. Con un lungo affinamento in rovere francese 100% nuovo, ha un bouquet complesso di grande finezza, tannini setosi e una persistenza degustativa straordinaria.

Antinori ci ha abituato a confrontarci con vini straordinari che rappresentano oggi l’enologia italiana nel mondo e che si sono spesso spinti ben oltre le denominazioni locali: è il caso di Poggio alle Nane e di Ampio delle Mortelle. Da produttori come vengono visti i disciplinari odierni?

Storicamente in Italia, come anche in altri paesi tradizionali del vino, i disciplinari hanno spesso contribuito alla notorietà dei vini nel mondo e al miglioramento della qualità all’interno delle regioni viticole. Oggi giorno però, la forte competizione dei vini del Nuovo Mondo spinge ancora di più al superamento delle frontiere enologiche e il caso dei Supertuscans è più che mai attuale. In più, Le Mortelle fa parte di una zona vitivinicola molto giovane e allo stesso tempo molto variegata, di 8.700 ettari vitati. La Maremma ha indubbiamente un grande potenziale enologico ma deve ancora concretizzare la sua identità. Noi come azienda rispettiamo il nostro territorio creando vini rappresentativi e identitari di altissimo livello. Questo è il nostro contributo a tale obiettivo. Avere la flessibilità per farlo è altrettanto importante.

Le Mortelle, oltre ad essere una delle più belle realtà italiane dal punto di vista estetico ed architettonico, è anche all’avanguardia nelle pratiche di cantina: struttura interrata, processo produttivo per gravità, sfruttamento massimo delle condizioni ambientali sono solo alcuni degli aspetti più interessanti. 
Come si riflette tale complessità nei vini della tenuta?

La cura delle uve e la qualità di ciascun acino è un valore fondamentale per la produzione dei vini come Poggio alle Nane e Ampio. Al tempo stesso abbiamo la fortuna di essere in una zona vitivinicola dove la maturazione delle uve raggiunge un tale livello da renderli estremamente delicati. Tutte le operazioni in cantina hanno quindi come obiettivo quello di ottimizzare al massimo la precisione e diminuire al minimo le condizioni di stress per la materia prima. La vinificazione per gravità, i serbatoi troncoconici, le estrazioni con follatori pneumatici, la barricaia interrata sono solo alcuni degli strumenti che garantiscono una lavorazione delle uve meno traumatica, preservando i profumi varietali e facilitando l’estrazione di tannini setosi. Solo cosi riusciamo a esprimere al meglio il carattere del nostro territorio.

Oggi si parla sempre di sostenibilità nella filiera del vino e sappiamo che tale filosofia è fondamentale nel business model di Antinori: come viene interpretata la sostenibilità a Le Mortelle e cosa restituisce la cantina all’ambiente circostante?

Il progetto di costruzione della cantina de Le Mortelle è stato concepito fin dall’inizio come un progetto eco-sostenibile con sistemi innovativi come quello della fitodepurazione delle acque reflue, ma anche con semplici meccanismi che sfruttano la gravità, la luce naturale e la termoregolazione della roccia. Così Le Mortelle pone il rispetto per l’ambiente e il risparmio energetico al centro della sua attenzione.
 Il principio della sostenibilità si riflette quindi su ogni passaggio, cominciando dal vigneto e in tutte le fasi della produzione. Ad esempio, negli ultimi 10 anni abbiamo investito nella difesa integrata contro gli insetti, con l’uso si feromoni e lanci di insetti predatori, in modo tale da arrivare all’abbandono di insetticidi senza compromettere la qualità dei nostri vini.
 La sostenibilità è per Le Mortelle un approccio sano e rispettoso dell’ambiente, nella migliore tradizione agricola, unito alla ricerca e alla tecnologia.

Antinori è una delle realtà principali nel contesto italiano del vino, sia per la lunga storia che ha alle spalle, sia per il patrimonio enologico rappresentato dalle sue tenute. Cosa significa fare parte di una realtà di questo tipo, dove c’è una forte e coerente visione imprenditoriale d’insieme ma allo stesso tempo ogni tenuta ha una chiara e indiscutibile identità? Come si coniuga la singolarità di un progetto con la cornice d’insieme?

Immagino sia possibile perché l’obiettivo è comune e al centro del modello aziendale; produrre vino di qualità. Per quanto sembri banale è un obiettivo che talvolta viene trascurato dalle aziende. Il vino non può essere visto come un prodotto alimentare qualsiasi, è un prodotto agricolo, dipendente dalla Natura e da lei fortemente influenzato. Proprio per questo il vino di qualità non può essere standardizzato e l’uomo diventa il fattore chiave. La famiglia Antinori e Renzo Cotarella, CEO e capo enologo dell’azienda, sono nati nel mondo del vino e questo principio lo conoscono benissimo. Per questo hanno ritenuto fondamentale che ogni tenuta avesse la sua identità e la sua autonomia, ciascuna con la sua propria squadra.

Nel chiudere l’intervista ci piacerebbe, per quanto possibile, guardare al futuro: Georgia cosa aspettarci (o augurarci di aspettare) dal prossimo futuro di Le Mortelle?

Penso che il prossimo futuro de Le Mortelle sarà ancora più “green”. La famiglia Antinori è da sempre convinta che il rispetto per l’ambiente debba essere al centro delle attenzioni e sforzi. Per Le Mortelle la sfida è ancora più importante perché siamo in una zona di grande bellezza naturalistica, dove gran parte della Maremma costiera è considerata Riserva Naturale.
Quindi, nei prossimi anni vorremmo ulteriormente diminuire il nostro consumo energetico, aumentando l’uso di energie rinnovabili. Vorremmo sensibilizzare tutti i nostri dipendenti verso questa direzione, perché solo cambiando la nostra mentalità possiamo migliorare veramente le cose. Di una cosa sono certa, che il rispetto per l’ambiente e la sua biodiversità sia importante sia per motivi etici che per motivi tecnici; più lavoriamo in armonia con il nostro territorio, più saremo in grado di produrre dei vini di grande espressione.

Georgia Dimitriou Enologa de Le Mortelle

La forza dell’etichetta (e non solo)

Immaginiamo uno scaffale ben rifornito di vino o, in alternativa, la pagina web di un e-shop che preveda una chiara e facile navigazione oltre che una corretta prospettiva di osservazione: questa è di sicuro una situazione classica che ognuno di noi ha vissuto (a maggior ragione essendo all’interno del Magazine di Winefully) e che ha visto entrare in gioco una serie di dinamiche tali da governare la scelta del proprio vino da acquistare.

Le ragioni a guidare la selezione sono varie e molte di essere sono legate alla motivazione intrinseca all’acquisto: un’occasione da celebrare, un presente da omaggiare, una bottiglia da collezionare, un vino desiderato da tempo finalmente disponibile, un’etichetta scelta in funzione di un consiglio diretto di un amico o indiretto da parte di social media o di guide internazionali, la disponibilità di determinati formati ed infine anche la dinamica prezzo, vuoi perchè legata ad un determinato budget o perchè in grado di generare un risparmio se confrontata ad altre opportunità di acquisto. In cosa consiste il fil rouge che connette, in modo più o meno intenso, le motivazioni menzionate, sicuramente non esaustive di tutte le opportunità di acquisto che possiamo vivere? L’estetica, ovvero la percezione mediata attraverso i sensi delle caratteristiche di un prodotto che, al momento dell’acquisto, non si conosce o si conosce solo in parte.

E’ fuori dubbio che l’antico detto secondo cui “anche l’occhio vuole la sua parte” si applica molto bene a tali situazioni d’acquisto, da qui il ruolo chiave del Marketing nel creare un certo appeal nel prodotto, la bottiglia di vino, tanto da motivare l’acquirente a selezionarlo in modo congiunto o disgiunto rispetto ad altre variabili parte del processo decisionale.

Non tutti i cinque sensi sono però stimolati nella fase di studio in cui si captano le informazioni di interesse: una bottiglia chiusa difficilmente potrà stimolare l’olfatto salvo che le condizioni di stoccaggio del sito di acquisto non siano all’altezza e ci motivino ad allontanarci al più presto (vedi anche l’articolo “Bottiglie preziose: come conservarle a regola d’arte”), o il gusto; maggiori possono invece essere gli stimoli nei confronti dell’udito, soprattutto se combinato al tatto nel tastare una bottiglia ed immagazzinare una serie di informazioni dal suo profilo, da eventuali scritte impresse sul vetro o dalla qualità e grana di etichetta e capsula, ove presente.

Lasciamo inevitabilmente per ultima la vista, essendo questo il senso che condiziona maggiormente la scelta di un vino in sede di acquisto in persona condividendo, appunto, altri dettagli con tatto ed udito, e condizionando esclusivamente l’acquisto nel caso in cui si opti per piattaforme online.

Nel mondo dei vino è da tempo chiara la strategicità del packaging di una bottiglia: si investe moltissimo affinchè il prodotto trasmetta i valori della cantina, comunichi chiaramente ed in modo immediato al consumatore, permetta di andare oltre le informazioni di etichetta e retroetichetta, fornisca dettagli in linea con le legislazioni vigenti, menzioni il progressivo della bottiglia in caso di edizioni limitate o, e non in ultimo, fornisca un messaggio legato al posizionamento del prodotto a livello di Marketing.

Anche il più piccolo dettaglio conta e può realmente fare la differenza: oggettivamente, in quanti ci siamo trovati nella condizione di dover scegliere uno o più vini facendoci guidare sì dalle nostre conoscenze o da referenze di terzi, ma anche dal nostro istinto e dalle nostre preferenze visive? Quante volte ci siamo trovati di fronte ad etichette ammiccanti, packaging fantasiosi che generano curiosità e voglia di approfondire o a delle mise semplicemente eleganti perfettamente in linea con la nomea di un determinato vino? E quante volte ci siamo sottratti all’acquisto di vini non in grado di comunicare o il cui packaging non è stato considerato all’altezza della situazione specifica?

E’ accaduto, accade ed accadrà essendo il consumatore sempre più informato ed essendoci mezzi a disposizione che forniscono informazioni che un tempo magari non erano così rilevanti (o lo erano ma solo per gli esperti di settore).

Il trend è comune a tutti i mercati (non solo del vino visto che sia i superalcolici che l’acqua e bevande gassate non sono da meno) ma nel nostro mondo si notano con maggiore chiarezza le scelte aziendali volte ad un maggior focus sull’apparenza e la percezione del prodotto al cliente (consumatore o meno).

Questo avviene perchè ovviamente il mercato del vino è fortemente eterogeneo e caratterizzato da una storia spesso legata ai singoli territori ed alle singole cantine, a loro volta custodi di una tradizione il più delle volte familiare che i trend del mercato non hanno modo di scalfire (o almeno non riescono a farlo, al momento).

Risulterà quindi sempre difficile ed anche limitante confrontare vini dove l’essenza è contenuta all’interno del vetro e vini dove l’involucro esterno risulta fondamentale per finalizzarne la vendita. Entrambi hanno l’esigenza di incontrare il potere d’acquisto del cliente ma le modalità in cui lo fanno sono radicalmente diverse, attivando il modo diametralmente opposto i sensi alla base del processo decisionale oltre che l’emozione, il trasporto ed il sentimento che possono caratterizzare determinati acquisti.

A supporto della scelta di un vino possiamo categorizzare elementi decisionali interni ed esterni. I primi fanno riferimento al vino di per sè, alla sua storia, alle tecniche di vinificazione ed affinamento, all’annata ed al terroir. I secondi sono invece riconducibili al modo in cui viene presentato il vino, all’etichetta, al packaging, al prezzo e altri fattori che permettono di raccontare il prodotto di per sè.

Come è emerso nello studio “Il neuromarketing incontra l’arte dell’etichetta” commissionato da UPM Raflatac a SenseCatch nel 2018, emerge chiaramente che, tralasciando la variabile prezzo, sono l’etichetta con il suo design, le tipologie di carta e di nobilitazioni ad influenzare la scelta di un vino piuttosto che un altro.

Come accennato dal titolo, la materia è stata analizzata a livello scientifico utilizzando la metodologia di ricerca di SenseCatch, che integra neuroscienze e consumer behavior per analizzare le ragioni dietro i processi decisionali del consumatore in modo oggettivo e scientifico.

Il lavoro di ricerca è stato pubblicato in questo libro e nell’articolo scientifico “Neuromarketing Meets the Art of Labelling. How Papers and Finishing on Labels Affect Wine Buying Decisions” della rivista American Association of Wine Economics.

Esistono quindi delle ragioni oggettive, oltre che soggettive, dietro determinate scelte d’acquisto che coinvolgono uno o più sensi nel valutare più alternative così da scremarle progressivamente per identificare il prodotto di maggiore interesse.

L’estetica intesa come ciò che più aggrada l’occhio tanto da creare soddisfazione per un acquisto entra quindi in gioco e ci porta a propendere per determinate opzioni a seconda che gli stimoli siano più o meno allineati alle aspettative.

L’aspetto esteriore di una bottiglia di vino, quindi, risulta chiave in questo scenario, con l’etichetta che gioca il ruolo più importante insieme ad un eventuale packaging esterno che rende il prodotto unico e da subito riconoscibile, oltre che fortemente attraente.

Anche focalizzando la riflessione soltanto sull’etichetta, il vero e proprio carattere distintivo di ogni vino, avremmo uno spettro molto ampio di messaggi da recepire ed analizzare: da qui il focus sulle dinamiche che spingono un acquirente a selezionare specifiche etichette a seguito di stimoli specifici legati alla grafica, alla percezione tattile, al mix di colori che contraddistinguono i singoli vini.

A seconda delle specifiche necessità che sottintendono al processo di acquisto, ciascuna o tutte insieme possono svolgere un ruolo più o meno decisivo, dai risultati fortemente eterogenei a seguito di un ragionamento razionale per buona parte ma, inevitabilmente (ed aggiungiamo, fortunatamente) anche emozionale.

La serendipità dell’Amarone e il mito di Giuseppe Quintarelli

La serendipità è quel fenomeno per cui, mentre si sta cercando qualcosa, imprevedibilmente si trova altro. E il bello è che questo “altro” risulta una vera e propria sorpresa, qualcosa che spesso ha un valore più grande di ciò che si inseguiva originariamente. In poche parole si tratta di una scoperta fortunata, non pianificata. Cristoforo Colombo che scopre l’America, mentre in realtà cercava le Indie, è forse il caso più famoso di serendipità. Poi ci sono la Tarte Tatin, nata quando le sorelle Tatin scordarono di mettere la base nella torta di mele; il ghiacciolo, inventato incidentalmente da Frank Epperson dimenticando un bicchiere di soda al freddo; e la penicillina, figlia dell’errata disinfezione di un provino da parte di Alexander Fleming.

Anche l’Amarone pare sia un tipico caso di serendipità. La leggenda narra di un tale Adelino Lucchese, cantiniere della Cantina sociale di Negrar, che nel 1936 ritrova una botte di Recioto dimenticata. Spillando si rende conto che il vino dolce, continuando a fermentare, è diventato secco. Prova a recuperare il danno, ma senza successo. Il direttore della cantina, avvisato del problema, decide comunque di assaggiare quel “Recioto scapà” e rimane piacevolmente sorpreso dal risultato ottenuto. La frase che pare abbia rivolto al cantiniere è proprio “questo non è amaro, ma Amarone!”.

Nasce così il celebre vino della Valpolicella, il cui primo documento di vendita risale al 1938. L’Amarone viene poi distribuito a tutti gli effetti a partire dal 1953, ottenendo subito un ottimo riscontro commerciale. Nel 1968 viene approvato il primo disciplinare: al vino viene riconosciuta la certificazione DOC. Il suo successo continua a crescere, soprattutto all’estero, e nel 2010 arriva anche la DOCG. L’Amarone tecnicamente è un passito secco, ovvero privi di residuo zuccherino o quasi. La peculiarità del processo produttivo sta proprio nell’appassimento dell’uva, che porta a concentrazione e grande potenziale espressivo. Il vino viene prodotto con le uve storiche Corvina, Corvinone e Rondinella, a cui è possibile aggiungere sia uve locali che altre varietà.

Se guardiamo al percorso compiuto da questo grande vino, una stella brilla più delle altre lungo la sua parabola ascendente. È quella di Giuseppe Quintarelli, l’uomo che ha saputo portare l’Amarone ai livelli qualitativi più alti, fino a sancirne il successo e la fama in tutto il mondo. La cantina viene fondata dal padre Silvio a Negrar agli inizi del Novecento. Sarà proprio Giuseppe, il più giovane dei figli, a prenderla in mano negli anni Cinquanta, proseguendo il lavoro iniziato dal padre. L’azienda cresce nel rispetto dei metodi di lavorazione tradizionali, arricchiti da alcune importanti scelte evolutive. Negli anni Ottanta, ad esempio, alle varietà tradizionali ne vengono aggiunte altre internazionali come Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, e altre ancora come Nebbiolo e Croatina. Quello che negli anni invece non cambia è la tensione a un’eccellenza senza compromessi, assoluta.

Giuseppe Quintarelli è un uomo semplice e generoso, così altruista da condividere tutti i segreti del proprio mestiere con Romano Dal Forno, rendendolo di fatto il suo successore. Un grandissimo produttore mancato esattamente dieci anni fa, nel 2012, quando la figlia Fiorenza prende in mano le redini dell’azienda insieme al marito e ai figli. Diverse le etichette, tutte di monumentale importanza. Tra queste, l’Amarone della Valpolicella Classico spicca come vera e propria bottiglia leggendaria. Parliamo della 2013. L’annata, dal punto di vista climatico, è stata ambivalente. Nella prima parte le piante hanno subito gli effetti di un clima difficile, con temperature basse e frequenti piogge. Nella seconda parte, da giugno in poi, il meteo ha invece virato in direzione opposta, portando alla raccolta di frutti dal grande profilo qualitativo. Si tratta di fatto di una tra le migliori annate per l’Amarone, che molti produttori sono riusciti a tradurre in vini di estrema finezza. Quello di Quintarelli, in particolare, si presenta con un rosso rubino di grande intensità, lasciando presagire fin da subito una materia viva e vibrante. Al naso apre con sentori di potpourri e delinea un tocco di note scure che il palato renderà più evidenti. Il sorso è regale, sontuoso, con la frutta in confettura che lascia spazio prima a sensazioni iodate, poi a richiami sui toni della fava di cacao e della liquirizia. Come in tutte le opere massime, non solo quelle enologiche, è nel finale che si ha la conferma del capolavoro.

di Graziano Nani 09.03.2022

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

I fine wines fra investimento e collezionismo – Parte Seconda

Qualche tempo fa, nel nostro articolo “I Fine Wines tra Investimento e Collezionismo – Parte Prima” abbiamo affrontato una serie di aspetti legati all’appeal dei vini pregiati nei confronti di coloro che non mettono la degustazione di un vino, di un’annata o di un formato specifico necessariamente in cima alle loro preferenze ma che, invece, preferiscono concentrarsi su aspetti diversi che hanno sempre come comune denominatore il vino ricercato, famoso, limitato e per certi versi anche atto a divenire prodotto speculativo.

Come abbiamo visto, l’argomento vini pregiati presenta una serie di criticità da considerare ed affrontare prima di iniziare la propria attività di acquisto. Una volta completato l’iter preparatorio e rese disponibili le necessarie risorse del caso, ci si deve confrontare con la domanda più difficile: da dove cominciare?

Le risposte sono ovviamente molteplici, forse anche infinite: più ampia è la scelta e le potenziali combinazioni, più si palesa la necessità di applicare un necessario pragmatismo all’argomento per non farsi prendere la mano dal tentacolare mondo del vino da investimento.

Sebbene esistano una serie di strumenti a supporto di chi si avvicina a tale dimensione con l’idea di divesificare i propri investimenti, mettere in atto manovre speculative o a fini di genuino collezionismo, questi non sono sempre accessibili a tutti. Esistono infatti piattaforme dedicate alla compravendita di qualunque tipo di vino, anche pregiato, su base cartone o cassa completa, in quantità da limtate a grandi, dove giornalmente si confrontano venditori ed acquirenti di tutto il mondo per lo più legati al mondo B2B, in un contesto di barriere di costo all’entrata. Certo, si può sicuramente fare a meno di quanto sopra e seguire un approccio più semplice ed alla portata di tutti, tramite l’utilizzo di social o di siti dedicati che permettono il confronto tradizionale tra privati e non, anche sulla base di singole bottiglie. In aggiunta, vi è da tenere in considerazione come le dinamiche di compravendita tipiche dei privati possano differire in funzione del fine stesso dell’investimento, delle risorse disponibili, della propensione al rischio dei singoli oltre che di personalissime sensazioni, preferenze e considerazioni, proprie o fatte tali dal confronto con terzi o dalla pubblicazione di guide e punteggi della critica internazionale, storicamente con un ruolo più che rilevante nell’influenzare le scelte di chi investe risorse.

Essendo la materia quindi complessa ed approcciabile da più posizioni in funzione delle reali necessità del compratore, proveremo a semplificare l’argomento il più possibile, focalizzando la nostra attenzione sulla domanda più difficile sopra menzionata e condividendo parte della nostra esperienza maturata sul mercato italiano ed internazionale.

Inevitabilmente ciò porterà a focalizzare l’attenzione su alcune cantine a discapito di altre, sulla cui proposta non vi è nulla da obiettare e nei confronti delle quali non sussiste alcuna preclusione al di là di un dovere di sintesi per contenere la portata di questo nostro contenuto.

Partendo quindi dal Bel Paese e dalle sue innumerevoli produzioni vinicole d’eccellenza, suggeriremmo senza dubbio di focalizzare l’attenzione sulla sigla BBBA+, che non è un rating finanziario, ma solo un comodo acronimo che sta per “Brunello, Barolo, Barbaresco, Amarone” e che lascia il “+” all’interpretazione, oggi poco soggetta a fantasia e più concretamente legata a vini chiamati nella loro prima fase “Supertuscan” e che oggi, grazie agli sforzi di tanti vignaioli effettuati negli ultimi decenni, sono assorti a riferimento per quanto riguarda il vino italiano nel mondo. Iniziando la nostra analisi proprio da quest’ultima categoria, come non menzionare il vero vino iconico nazionale, ciò da cui tanto (tutto?) ebbe inizio, ovvero il Sassicaia di Tenuta San Guido. Nato negli anni sessanta per volere di Mario Incisa della Rocchetta, non vi è annata senza che vi si scateni una corsa all’acquisto in tutti i formati disponibili. Al di là di una qualità ed un’esperienza degustativa ai massimi livelli, il Sassicaia è forse il vino italiano più conosciuto (e scambiato) al mondo, sempre ai massimi livelli della critica internazionale e caratterizzato da una costante crescita delle sue valutazioni, anche a distanza di poco tempo dall’acquisto (che si raccomanda in sede di rilascio annuale, tipicamente tra primo e secondo trimestre di ogni anno).

Un nostro suggerimento spassionato per quanto riguarda il Sassicaia: raccomandiamo di utilizzare esclusivamente canali di acquisto ufficiali essendo anche, e purtroppo, il vino italiano più soggetto a contraffazione.

Ma se San Guido ha fatto grande Bolgheri, grazie al prezioso assist di Giosuè Carducci ed, in primis, della natura stessa, particolarmente generosa in questa parte alta della Maremma, l’avvicendamento tra due famiglie storiche per il vino italiano, Antinori e Frescobaldi, porta a due campioni del bolgherese, Masseto ed Ornellaia, tanto vicini in termini di proprietà quanto diversi come filosofia, terroir, stile produttivo e posizionamento di mercato.

Due etichette iconiche, mai sazie di conquistare il cuore di collezionisti, appassionati ed investitori, rifugio sicuro del capitale investito vista la sempre elevate domanda che li caratterizza ad ogni uscita sul mercato.

Una boutade vuole che un vino il cui nome si conclude in “-aia” sia caratterizzato da un’elevata qualità e sia, in poche parole, una sicurezza, una sorta di bene rifugio: al di là dei tanti altri, eccellenti, vini con la medesima desinenza, è al Solaia di Antinori che si deve guardare dopo gli altrettanto blasonati bolgheresi.

Un vino con caratteristiche ben distinte, proveniente da un territorio diverso come il Chianti Classico dove la Tenuta Tignanello beneficia di un terroir eccezionale sfruttato al meglio dalla famiglia Antinori nel produrre, da vigneti insistenti sulla medesima collina, due eccellenze come, appunto, Solaia e Tignanello, vini di rango nobile sempre fortemente richiesti sul mercato ed apprezzati dalla critica internazionale, talvolta anche con il massimo dei voti. Si sa, la Toscana è una fucina di grandissimi vini, ormai provenienti da molti territori a dimostrazione della vocazione di questa regione e delle grandi capacità dei vignaioli. La lista di cui sopra è senza dubbio riduttiva, non avendo lasciato il meritato spazio a cantine iconiche che negli anni si sono ritagliate un ruolo importantissimo, pensiamo a Montevertine Montevertine, Fontodi, Bibi Graetz, Tenuta di Trinoro, Le Pupille, Castello di Ama, San Giusto a Rentennano, Castellare di Castellina, Le Macchiole, Petrolo, Isole e Olena, Tenuta di Biserno, Monteverro, Tua Rita, Ricasoli, Querciabella, solo per fare qualche nome di realtà che, con uno e più vini, sono riconosciute avere un appeal internazionale

Ma non si può parlare di Toscana senza considerare uno dei borghi medievali più noti nel mondo, quella Montalcino che è contraddistinta dall’essere la capitale del buon bere a base di Sangiovese Grosso, o Brunello.

L’argomento qui si fa senza dubbio vasto e quindi complesso: il Brunello di Montalcino è un vino che da tantissimi anni presenta uno standard qualitativo ai massimi, tanto che sempre più cantine simboleggiano ormai la cittadina, in un sano caleidoscopio fatto di tradizione e di innovazione, di vecchie e nuove generazioni che si passano in testimone fissando nuovi e sempre più ambiziosi traguardi.

Etichette come Biondi Santi, Casanova di Neri, Giodo, Poggio di Sotto, Fuligni, Siro Pacenti, Le Chiuse, Il Marroneto, Castiglion del Bosco, Salvioni, Livio Sassetti, Stella di Campalto, Gianni Brunelli, Pian dell’Orino, Le Potazzine, Castello di Romitorio, Le Ragnaie, Luce della Vite, Il Poggione e Case Basse di Soldera sono sono alcune delle etichette oggi protagoniste dell’offerta ilcinese che, di annata in annata e di riserva in riserva, mantengono alto il nome del capoluogo tra le folte schiere di pretendenti alle ambite bottiglie. Sebbene la Toscana svolge un ruolo chiave nel proporre un’estrema varietà di vini pregiati soggetti a continui acquisti ed investimenti, un’altra regione in grado di proporre una scelta veramente ampia in un fazzoletto di terra compreso tra i comuni di Barolo e Barbaresco, è il Piemonte.

Terra di grandi vini la Langa, con una grandissima tradizione e caratterizzata da una splendida evoluzione negli anni, tanto da proporre oggi un’offerta variegata che ben simboleggia il mix tra una ferrea tradizione ed una ben accetta rivisitazione del Nebbiolo, uva di riferimento nel tempo affiancata dalle altrettanto autoctone Barbera e, talvolta, Freisa.

Riuscire a rendere esaustiva una lista di consigli per l’investimento è impresa ardua in Langa, dove si rischia facilmente di far torto a tanti produttori eccellenti con vigneti appartenenti alla medesima MGA e fisicamente confinanti con quelli di cantine più blasonate, vista la frammentazione delle parcelle soprattutto in quelle zone particolarmente vocate (qualche esempio: Asili, Pajè e Rabajà a Barbaresco, Cannubi a Barolo, Rocche dell’Annunziata e Cerequio a La Morra, Villero e Bricco Boschis a Castiglione Falletto, Mosconi, e Bussia a Monforte d’Alba, Vignarionda e Falletto a Serralunga o Ravera a Novello).

La grande varietà e conseguente frammentazione delle parcelle implicano anche produzioni molto limitate in quei vigneti dove l’unica lingua parlata è la qualità estrema e dove le rese sono volutamente ridotte per estrarre il massimo da ogni singolo acino.

Un riferimento per tale modo di operare è sicuramente Giacomo Conterno, padre di uno dei vini riserva più famosi al mondo, ovvero il Monfortino, ed in grado di produrre opera uniche dai propri cru di Arione, Francia e Cerretta. Non è un eufemismo dire che vi è la fila per avere i vini di Conterno, anzi forse sarebbe da dire che la fila è doppia, se non tripla considerato l’interesse del mercato verso tutti i vini di Conterno a partire dalla sua Barbera d’Alba. Le Langhe hanno vissuto vari periodi in cui generazioni familiari si sono succedute una dopo l’altra, spesso lasciando una propria impronta indelebile nella storia del territorio e dell’offerta vinicola: è questo il caso della cantina Gaja, dove la quarta generazione guidata da Angelo ha decisamente cambiato l’enologia delle Langhe attraverso importanti innovazioni che hanno portato l’intera produzione di questa cantina ai massimi livelli mondiali, tanto da essere continuamente ricercata e scambiata.

Ogni produttore storico attivo tra Barolo e Barbaresco è custode della storia e dell’eccellenza di queste terre, vocate a vino di qualità noto in tutto il mondo: menzionarne uno piuttosto che un altro è impresa ardua, avendo a disposizione un mix di campioni assoluti. Nomi come Luciano Sandrone, Vietti, Bartolo Mascarello, Roberto Voerzio, Elio Grasso, Rinaldi, Paolo Scavino, Domenico Clerico, Giuseppe Mascarello, Bruno Giacosa, Aldo Conterno, Lorenzo Accomasso, Roagna, G.D. Vajra, Cavallotto, Pio Cesare, Burlotto o Borgogno sono tutte cantine che, nell’arco degli anni, hanno prodotto vini straordinari e che ancora oggi vedono una domanda per le loro eccellenze superare, e non di poco, l’offerta, spesso sempre più contenuta.

Pregi tra i produttori piemontesi ve ne sono tanti, difetti…beh, forse la troppa scelta!

Concludiamo la nostra carrellata tra i vini più rappresentativi dello stivale con una zona all’interno della quale svettano due campioni assoluti in grado di domare al meglio un vino così importante come l’Amarone della Valpolicella: Giuseppe Quintarelli e Romano Dal Forno: da sempre oggetto dell’interesse di collezionisti ed anche investitori, questi due produttori, che nel tempo sono stati affiancati da altre eccellenze che prendono sempre più piede sul mercato, rimangono due alfieri ben rappresentativi di un territorio vario, vasto, dove il mix di uve e le tecniche di affinamento permettono la realizzazione di vini eccezionali, e non parliamo solo di Amarone bensì anche di Valpolicella Superiore e Recioto.

Come introdotto nella premessa, il territorio italiano è sicuramente complesso e l’elevatissima qualità media del vino prodotto non rende per nulla facile un riassunto schematico di quelli che riteniamo, per certi versi, i campioni nazionali.

La nostra narrazione non ambisce infatti ad essere esaustiva, anzi ci aspettiamo di aver tralasciato nomi blasonati, che confidiamo non ce ne vogliano, e di aver sorvolato su tante zone emergenti di sicuro interesse e potenziale.

Speriamo comunque che il lettore possa beneficiare di questo nostro intervento, confermando la perpetua disponibilità da parte del Team di Winefully ad analizzare e comprendere appieno necessità ed aspettative dei nostri clienti.

Luciano Sandrone: nati sotto il segno del Nebbiolo

Nel periodo più intenso dell’anno, quello della vendemmia, Barbara Sandrone – figlia di Luciano – è riuscita lo stesso a dedicarci un po’ del suo tempo per raccontarci la storia della loro cantina, che, prima ancora di essere una bellissima vicenda imprenditoriale, è un’intensa vicenda di famiglia e di affetti. Una storia nella quale l’amore che lega le tre generazioni oggi in azienda trova un riflesso e un completamento nel rapporto quasi simbiotico con il territorio, dal quale nascono sei vini che interpretano la tradizione in maniera pura e appassionata.

Tuo padre Luciano, il fondatore della vostra cantina, ha una bellissima storia personale. Vorrei partire da qui, se ti va.

Sì, certo, per noi è sempre una gioia raccontare come è iniziato tutto perché non veniamo da una tradizione di famiglia nel vino. Mio nonno, in realtà, era falegname e, a un certo punto, decise di trasferirsi a Barolo per ampliare la sua attività e – chiamalo caso oppure destino – la sede della nuova falegnameria era a fianco della cantina del grande Giacomo Borgogno. Mio papà all’epoca era un ragazzino e si divideva fra questi due mondi, con il signor Giacomo che lo aveva preso in simpatia e gli ripeteva sempre – in dialetto piemontese ovviamente – “Cresci in fretta Luciano, perché qui c’è posto per te”. E alla fine è andata davvero così: dopo l’avviamento, ha iniziato a lavorare insieme a lui, assorbendo tutti i suoi insegnamenti e osservando tutti i suoi gesti. Un’esperienza bellissima per mio padre che è durata fino al servizio militare, poi al suo ritorno in paese è diventato capo cantiniere per le famiglie Abbona e Scarzello, titolari de  Marchesi di Barolo, nel 1970. Aveva solo ventiquattro anni ed è rimasto lì fino al 1990. A che punto di questo percorso Luciano ha deciso che voleva fare un vino suo, partendo da zero?

È successo verso la fine degli anni Settanta, mio padre ha iniziato ad avere desiderio di confrontarsi anche con quello che accade, prima della cantina, in vigna. La qualità del vino, lo sai, nasce nel vigneto e lui voleva capire meglio anche quella parte di processo. Nel 1977 è arrivato l’acquisto del vigneto Cannubi Boschis, da cui poi è nato il nostro primo Barolo.

Mio padre non aveva spazi o strumenti di proprietà perché – come ti dicevo – non veniva da una famiglia di vignaioli, perciò è partito da zero, usando il nostro garage perché era il miglior luogo che aveva a disposizione. La nostra azienda è cresciuta in questa maniera semplice e per piccoli passi: prima con pochi fusti, poche vasche e a volte attrezzi di seconda mano; poi nel tempo abbiamo affittato altri garage per poterci allargare un po’ e, infine, il progetto della nuova cantina, che è arrivato solo nel 1998. Si trova sempre qui a Barolo, proprio ai piedi della collina di Cannubi e qui siamo riusciti, gradualmente, a portare tutto dentro: dai trattori alle sale dove affiniamo.

Ti vorrei fare una domanda riguardo al vostro carattere che si riflette, in ultimo, nei vostri vini. Siete sicuramente uno dei nomi di riferimento per il Barolo, eppure mi sembra che siate riusciti a conservare quello spirito garagista, essenziale e semplice degli inizi, come ci siete riusciti?

Non saprei. Non c’è stata una strategia, abbiamo solo creduto tanto, con il cuore e con la testa, in quello che abbiamo fatto e abbiamo voluto rimanere una famiglia, anche se questo ha significato darsi dei limiti. Ma va bene così perché vogliamo gestire le cose in una certa maniera – la nostra – e vogliamo esercitare il controllo su tutte le fasi in vigna e in cantina.

Non bisogna avere fretta e questa è una cosa che prima di tutto ci dicono i nostri vigneti. Se c’è una cosa che la famiglia del Nebbiolo insegna è proprio l’arte della pazienza e del saper aspettare. Ti direi che questo insegnamento dalla vigna lo abbiamo trasposto a tutti gli aspetti del nostro lavoro. Questo è anche uno dei motivi per i quali, in fondo, i nostri vini non sono tanti, perché abbiamo scelto di farci guidare dai vitigni autoctoni e dalla tradizione, senza avere fretta. Pensa che il nostro ultimo nato, il Barolo Vite Talin, ha avuto più o meno trent’anni di gestazione prima di vedere la luce.

Tu ti occupi della parte commerciale, giusto?

Sì, anche se ammetto che non mi piace chiamarla così. Lavoro insieme a un gruppo di sole donne davvero molto in gamba, ci tengo a dirlo perché penso che l’abilità relazionale femminile faccia la differenza. Per noi è indispensabile far capire ai distributori la complessità di certe scelte che facciamo, a volte all’apparenza antieconomiche ma coerenti con la nostra filosofia.

Mio zio Luca con la sua squadra di otto  persone segue, invece, la vigna. Con l’arrivo del vigneto Le Corse di Monforte, che entrerà a far parte del Barolo Le Vigne dall’annata 2019, siamo a trenta ettari. Ti parlo di questa acquisizione perché ci teniamo davvero tanto: il titolare dell’appezzamento è sempre stato in rapporti di stima e di collaborazione con mio padre, nel momento in cui ha scelto di ritirarsi ha voluto venderlo a noi perché sapeva di lasciarlo a qualcuno con un certo pensiero e un certo modo di lavorare. Per noi è stata una grande soddisfazione e anche un onore. Con l’ingresso in azienda dei tuoi figli, Alessia e Stefano, siete alla terza generazione ormai ma si può dire che siete ancora oggi prima una famiglia e poi un’azienda. Quanto influisce questo nel vostro modo di fare vino?

Essere famiglia è una forza incredibile. Ovviamente non dimentichiamo mai di essere un’azienda ma lo facciamo animati da un sentimento comune e anche dal rapporto che ci lega e questo ci consente, credo, di lavorare con una serenità e una convinzione fortissime.

Sul vostro sito ho notato che definite il vino per sua stessa essenza “naturale”, ci racconti qualcosa di più su come lavorate?

Per noi le nostre vigne sono come persone, sono parte della nostra famiglia: occorre curarle, essere presenti, saperle ascoltare, senza prevaricare. Ti faccio l’esempio del Nebbiolo di Barolo e di Valmaggiore: la varietà è la stessa, ma le condizioni pedoclimatiche e idriche sono così diverse che dobbiamo rapportarci a loro in modi altrettanto diversi. Siamo noi a dover essere capaci di cogliere i segni che la vite ci dà e aiutarla a compiere il suo percorso. Questo richiede una cura che assomiglia alla dedizione, soprattutto nei momenti più delicati come l’estate o quelli che precedono la vendemmia. Luca a fine agosto inizia a campionare per parcelle perché chiaramente, a seconda dell’esposizione, i tempi e i modi della maturazione cambiano molto e questo determina una vendemmia molto articolata, nel senso che ogni appezzamento, anzi ogni parcella fa storia a sé. È il motivo per cui abbiamo molte persone a supporto, che devono essere specializzate ma anche appassionate. Il lavoro in vigna è sempre tanto e faticoso e richiede in parti uguali competenza e sensibilità.

Voi operate a tutti gli effetti in biologico ma non avete certificazione. Non la ritenete utile?

Non ci definiamo biologici, o meglio operiamo alla nostra maniera da sempre ma non abbiamo bisogno di una bollinatura, perché sappiamo come lavoriamo. La mia famiglia è radicata qui, ora ci sono i miei figli che lavorano con noi, amiamo questi luoghi, sarebbe assurdo violare questa terra che ci ha dato tanto, lavorando male, con interventi poco rispettosi.

Usate lieviti indigeni e praticate la fermentazione spontanea, possiamo dire che non avete scelto la strada più facile. Le variabili che entrano in gioco operando così sono molto maggiori.

Lavoriamo così da sempre, non ti saprei nemmeno dire com’è essere diversi. E forse per questo sento meno i rischi e le complessità. È anche vero che siamo aiutati dal fatto di conoscere bene i nostri vigneti e che il patrimonio genetico delle nostre uve è talmente unico che va conservato. Detto questo, scegliere di operare in questo modo richiede un’attenzione maniacale, assoluta. Per farti un esempio, quando bisogna fare i rimontaggi, durante la fermentazione, le persone in cantina si fermano poche ore al giorno, perché ci vuole una cura pazzesca e perché questi lieviti sono vivi e non si comportano mai nello stesso modo. Anche in questo caso, ci vuole competenza ma soprattutto bisogna “sentire” questo lavoro, capire che si ha a che fare con qualcosa di vivo, di pulsante.

Siete naturali e biologi ma mi sembra che siate molto poco interessati al dibattito sul naturale e alle tendenze che ha innescato.

Sinceramente noi abbiamo sempre seguito la nostra strada, senza cercare di assomigliare a qualcun altro. Spesso siamo anche andati controcorrente, per esempio, quando negli anni Novanta c’erano barrique ovunque e sembrava che bisognasse barricare tutto, mio padre ha sempre ostinatamente usato il tonneaux, a volte facendo una fatica incredibile per trovare le botti perché c’era poca offerta. Ma noi abbiamo sempre pensato che il vino deve avere la sua personalità, rispetto alla quale il legno è solo un complemento e per questo siamo sempre andati avanti così. Magari, in questo modo si corre il rischio di non piacere a tutti, ma è giusto in un certo senso, è solo un bene che ci siano più voci e più strade possibili. Ben vengano anche tutti i dibattiti ma poi è importante che ognuno scelga il proprio percorso con indipendenza e coerenza.

Poco fa parlavi di vendemmia, in questo momento (ndr. inizi di ottobre) è ancora in corso quella di quest’anno. Non ti chiedo un bilancio perché è troppo presto ma una vostra prima impressione sul suo andamento.

In effetti non amo parlare della vendemmia prima che sia conclusa. Anche per questioni di scaramanzia! Però posso dire che siamo molto contenti di quello che abbiamo raccolto fino a questo momento. L’andamento climatico di quest’anno ci ha tenuti sempre con il fiato sospeso, con le gelate di aprile e poi le grandinate in estate. Sono stati tutti fenomeni abbastanza violenti ma devo dire che è andata bene e le uve sono sane e belle. Il raccolto è buono per qualità e quantità.

Sul nostro shop si trovano sia Le vigne sia Aleste, due Barolo con una allure particolare. Ci vuoi raccontare la loro storia?

Le Vigne è sempre stato un vino speciale per noi. I primi riconoscimenti sono arrivati con il Cannubi Boschis, ma mio padre ha sempre avuto nel cuore l’idea del Barolo secondo la tradizione dell’assemblaggio finale di uve di parcelle diverse. Mi piace descriverlo come una sinfonia di strumenti musicali che insieme esprimono compiutamente il territorio: ogni vigneto viene trattato, vendemmiato e vinificato da solo, nel rispetto delle sue caratteristiche e poi, con progressivi assaggi e prove, si decide la composizione finale capace di esprimere le caratteristiche dell’annata e del territorio. La nostra impronta c’è ma è sullo sfondo, per armonizzare le singole voci in un tutto. Aleste in realtà è il mitico Cannubi Boschis, che a un certo punto tuo padre ha deciso di rinominare, dedicandolo ai tuoi figli (Ale e Ste). Un generoso passaggio di testimone generazionale che però avrebbe gettato nel panico qualunque consulente di marketing. Come è andata?

Mi fai parlare di una cosa che ancora mi commuove perché ricordo benissimo quando mio padre ci ha spiegato che voleva dedicare alle nuove generazioni – all’epoca in arrivo – la cosa più preziosa che aveva: il suo primo vigneto e il suo primo vino. Sulle prime, io e Luca eravamo un po’ spaesati perché cambiare nome al vino che tutti considerano il nostro simbolo era un rischio dal punto di vista comunicativo. La cosa che ho ritenuto giusto fare è stato passare tantissimo tempo in giro per spiegare in prima persona ai nostri distributori questa scelta: era importante per noi che tutti capissero che si trattava puramente di una scelta di cuore che non coinvolgeva l’identità del vino. Il Barolo è rimasto lo stesso: un vino vigoroso, diretto, pieno, pronto da subito, anche per via della maturazione “più spinta” del vigneto Cannubi Boschis, che sta più in basso rispetto agli altri vigneti, quindi in una zona un po’ più calda.

Le Vigne, invece, è più floreale, più morbido, prima ti abbraccia e poi conquista la tua attenzione. Sono due personalità complementari.

Sibi et paucis che progetto è e perché non avete voluto fare una classica riserva?

È un accantonamento delle nostre bottiglie che facciamo da circa quindici anni. Abbiamo iniziato con una piccola quantità aumentando progressivamente. I vini riposano in una cantina dedicata per otto anni, quindi per dieci anni in tutto (due in fusto e otto in bottiglia) perché è un progetto nato per valorizzare la capacità del Nebbiolo di crescere nel tempo e pensato per noi e per coloro che vogliono comprendere cos’è un Barolo dopo dieci o venti anni. La riserva nasce già in vigna, da appezzamenti che le vengono dedicati ma noi non volevamo avere appezzamenti “speciali”. Sibi et paucis è sempre il nostro vino, semplicemente tenuto da parte, per noi e per gli amici.

Per concludere, come hai visto cambiare la Langa in questi decenni.

È una domandona questa. C’è una questione che mi sta a cuore: a me non è mai piaciuta la distinzione fra tradizionalisti e modernisti, perché penso che abbiamo tutti le stesse radici, senza le quali oggi non saremmo qui. È una distinzione che ho sempre percepito come un’esigenza comunicativa, per spiegare in maniera semplice, schematica – a volte troppo – un territorio complesso come questo.

Più che di due poli distinti parlerei di evoluzione: in una storia come la nostra è normale che si attraversino diversi momenti evolutivi, che però nascono tutti dalla tradizione. Oggi mi sembra che siamo arrivati a un punto di equilibrio fra le diverse anime, fra chi ha sperimentato di più e chi invece non si è allontanato dalle origini. E mi sembra un’ottima cosa.

Veglione vintage

E se per quest’anno ci lasciassimo andare a un po’ di nostalgia gastronomica, scegliendo per il cenone della Vigilia di Capodanno delle portate festive ma piacevolmente retrò?

Ecco qualche idea per un menu a base di pesce all’insegna di sapori d’antan ma sempre deliziosi, da accompagnare con vini “da grande occasione” e anch’essi – quando è il caso – d’annata. Partiamo in maniera spumeggiante con una bella bolla da aperitivo per un tuffo negli anni Ottanta con un cocktail di gamberi accompagnato dalla sensuale salsa rosa e con le intramontabili tartine al salmone, giocando a tavola sulle sfumature di colore che si rincorrono tra piatto e calice. In questo caso, infatti, la scelta ideale potrebbe essere una bollicina rosata: italiana e sbarazzina – come il fresco e minerale Francesco I Franciacorta Rosé di Uberti ravvivato da note di frutta rossa e pompelmo rosa affiancate da nuance speziate – oppure francese e raffinata, come un’etichetta dalla grande personalità: il Perrier Jouët Belle Epoque Rosé millesimato, delicato e voluttuoso insieme.

Nel secondo caso, la stessa bottiglia – magari in formato magnum – potrà rivelarsi ideale per abbinarsi anche a un primo piatto semplice ma sfarzoso e gustosissimo, adatto alle feste, come gli spaghetti all’astice con la presenza discreta del pomodoro.

Una bolla bianca invece – che non sfigurerebbe di certo nemmeno con il cocktail di gamberi d’apertura – potrebbe essere la scelta ideale per accompagnare un altro grande classico della cucina vintage anni Settanta e Ottanta, mai passato del tutto di moda: le pennette al salmone sfumate con la vodka, amate tanto da Ugo Tognazzi quanto dagli habitué delle serate in discoteca della riviera romagnola e da chiunque sappia indovinare la giusta alchimia tra pesce affumicato, (poca) panna, pomodoro e distillato russo. Il pomodoro infatti, tralasciato da molte ricette successive all’originale, serve a bilanciare la dolcezza del piatto e a fare da trait-d’union con la Vodka, un incontro suggellato anche nel cocktail Bloody Mary. La presenza del distillato – che serve soprattutto a sfumare il salmone – potrebbe creare qualche problema per l’abbinamento ma una bolla vivace ed estremamente elegante come il Meraviglioso di Bellavista, uvaggio fifty-fifty di Chardonnay e Pinot Noir, con i suoi dodici anni di affinamento in bottiglia saprà tenervi testa al meglio. Meraviglioso è frutto dell’assemblaggio di sei annate storiche dell’azienda franciacortina già usate per la Riserva che porta il nome del fondatore Vittorio Moretti (1984, 1988, 1991, 1995, 2001 e 2002).

Per il secondo piatto, l’ideale è restare sul semplice puntando soprattutto sull’eccellente qualità della materia prima: un pesce in crosta di sale, sapido e succoso, accompagnato da una impeccabile e voluttuosa maionese fatta in casa renderà tutti felici. Così come lo stappare un grande vino bianco come il Testamatta Bianco di Bibi Graetz: fresco e altrettanto sapido, nonostante l’abbondanza di profumi che rimandano alla frutta matura e candita (dal dattero alla scorza d’arancia, fino mela cotogna e all’albicocca) e al miele, si rivela perfettamente equilibrato grazie alle note iodate e, più che anticipare il panettone, sembra portare indietro ai mesi estivi sul mare. Se volete sorprendere i vostri ospiti con un vino – e un vitigno – poco conosciuto e invece della maionese volete servire accanto al pesce una squisita insalata russa (altro grande classico sempre molto amato), potreste decidere di aprire ancora un’altra bottiglia prima del passaggio al dessert e al vino dolce.

Anziché tornare indietro su una bolla rinfrescante, infatti, sottolineate l’opulenza del contorno con un calice di Vin de la Neu di Nicola Biasi: lo Johanniter – una varietà resistente che ben si adatta alle temperature fredde e alle alte quote, come quelle degli appezzamenti in Val di Non di Biasi – dà vita a un vino che profuma di agrumi, frutti tropicali, erba fresca e fiori bianchi, che al sorso sorprende per verticalità e sapidità ma senza rinunciare a una certa avvolgenza dovuta anche al passaggio in legno di quasi un anno e alla lunga permanenza in bottiglia.

Per chiudere il cenone in maniera classica, la scelta vintage potrà essere un eccellente e burroso pandoro artigianale dagli effluvi di vaniglia, magari accompagnato da una crema allo zabaione comme il faut. Da abbinare, un calice del mitico Vin Santo Occhio di Pernice di Avignonesi, dolce ma non stucchevole, con i sentori di frutta secca, miele e spezie ingentiliti da una bella freschezza e da una persistenza affascinante.

– Luciana Squadrilli 23.12.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

Viticoltura eroica, un dialogo serrato tra uomo e natura

Quando si parla di viticoltura eroica il primo pensiero va a un concetto romantico di coltivazione della vite in condizioni estreme e quasi proibitive. L’interpretazione di per sé è corretta, tuttavia è interessante sottolineare che la definizione ha confini più precisi. Esistono infatti quattro requisiti specifici e la pratica agricola deve rispondere almeno a uno di questi perché si possa parlare di viticoltura eroica.

Il primo, quello per cui la definizione è principalmente conosciuta, riguarda le pendenze dei terreni, che devono superare il 30%. Questo naturalmente rende tutto più difficile. Per l’uomo, prima di tutto, che si trova a dover svolgere le diverse attività agricole affrontando salite e discese estenuanti. C’è poi un tema di meccanizzazione, o meglio di non meccanizzazione, visto che questo tipo di pendenze rendono praticamente impossibile lavorare con le macchine che generalmente vengono utilizzate nei contesti agricoli “canonici”. A questo si aggiunge un ulteriore fattore “eroico”, perché in genere le estensioni di questi vigneti sono limitate. Quindi non solo le difficoltà e la fatica si moltiplicano, ma la produzione dal punto di vista quantitativo è sempre esigua. Va da sé che il lavoro, fortemente orientato a un’elevata qualità, ha senso soltanto quando parliamo di terreni ad altissima vocazione. Il secondo requisito per poter parlare di viticoltura eroica è il fatto che la coltivazione avvenga su terrazze, o gradoni. Emblematico il caso della Valtellina, tra i più citati quando si parla dell’argomento, dove i terrazzamenti cesellano il fianco della montagna con un livello di cura e precisione unici al mondo. Capolavori come questi rappresentano una vera e propria sublimazione del fragile equilibrio tra uomo e natura. Se da un lato infatti l’industria agroalimentare, supportata dalle macchine, rappresenta in un certo senso il totale dominio degli esseri umani, nei contesti come quello valtellinese va in scena un dialogo serrato e costante. Si prende, si dà, niente è facile, e gli sforzi sono enormi anche per strappare alla roccia il più piccolo fazzoletto di terra.

Terzo requisito che abilita la parola “eroica”: l’altitudine. Più si sale in quota e più è complicato fare vino. Tuttavia esistono situazioni particolari dove una commistione di fattori tra cui la varietà del vitigno, l’abilità dell’uomo e il contesto territoriale rendono possibile la coltivazione della vite ad altitudini notevoli. In Val D’Aosta e Alto Adige non è raro trovare vigneti a 800, 900 e anche sopra i 1.000 metri, fino ad arrivare ai 1.350 dell’abbazia benedettina Marienberg, che si colloca tra le pochissime in Europa in grado di arrivare così in alto.

L’ultimo punto evidenzia come viticoltura eroica non significhi per forza contesto montuoso. Il quarto requisito, infatti, parla di “coltivazione su piccole isole”. Come quelle della Laguna di Venezia, ad esempio, dove l’acqua alta arriva a sommergere le vigne e la barca diventa il mezzo di trasporto protagonista in fase di vendemmia. Terreni sospesi tra acqua e terra, dove le radici delle piante lambiscono l’acqua salata del mare e la loro stessa vita è costantemente in discussione.

Per rimanere in tema con il contesto marittimo, ci sono casi in cui la presenza del mare convive con pendenze vertiginose. Ad esempio, le vigne dove viene prodotto il famoso Sciacchetrà, noto passito prodotto in Liguria nella zona delle Cinque Terre. Altro caso eclatante è quello del fiordo di Furore, vera e propria scheggia di Nord Europa conficcata in un contesto decisamente Mediterraneo. Stiamo parlando infatti della Costiera Amalfitana, dove a Furore la roccia è solcata da una profonda spaccatura ricoperta di uliveti, limoneti e vigneti. La realtà simbolo di questo incredibile angolo d’Italia è quella di Marisa Cuomo, che insieme ad Andrea Ferraioli conduce l’azienda da oltre quarant’anni. 10 ettari di superficie, di cui 3,5 di proprietà, molti dei quali coltivati sulle pareti rocciose a strapiombo sul mare. Ginestra, Pepella, Tronto, Sciascinoso… sono solo alcune delle varietà autoctone coltivate dall’azienda. La cantina, scavata nella roccia, gode della temperatura corretta senza necessita di alcun controllo.

Fiorduva Bianco è il vino più rappresentativo dell’azienda. Splendido blend delle tre uve prefillossera Fenile, Ginestra e Ripoli, trascorre sei mesi in piccole botti di rovere. Il 2019 si presenta con uno splendido giallo dorato e un ingresso avvolgente che rimanda alle note carnose dell’albicocca e del mango. In bocca mostra una progressione che apre a leggere speziature e a cenni di erbe aromatiche. Il finale è lunghissimo, scandito da sottili percezioni iodate. Sono proprio queste, più di tutto, a ricordare il contesto unico ed estremo in cui nasce questo vino, frutto di una viticoltura di altissimo profilo che valorizza luoghi dove nulla è scontato. In due parole, una viticoltura eroica.

di Graziano Nani 23.11.2021

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Piatti iconici e abbinamenti: il risotto alla milanese

Il profumo suadente e inconfondibile dello zafferano, la cremosità della mantecatura al burro che avvolge i chicchi di riso, la ricchezza umami data dalla generosa aggiunta di Parmigiano ma anche dal brodo di carne e volendo anche la grassezza avvolgente del midollo, che qualcuno ama aggiungere a fine cottura o fuori dal fuoco, già cotto a parte.

Il risotto alla milanese, o semplicemente risotto giallo allo zafferano, è un simbolo della cucina di casa delle grandi occasioni per la sua opulenza gustativa anticipata dal colore dorato dato dalla spezia, pur senza aggiungere la foglia d’oro come fece agli inizi degli anni ’80 il Maestro Gualtiero Marchesi rendendolo un’icona anche della nouvelle vague della cucina nostrana.

E se, secondo la leggenda, la sua origine sarebbe legata al Duomo di Milano – con l’apprendista Zafferano, grande amante e utilizzatore del color oro della spezia, che nel 1574 per ripicca finisce per metterla anche nel riso preparato in occasione delle nozze della figlia del maestro Valerio di Fiandra, artista fiammingo chiamato a realizzarne le magnifiche vetrate –, le prime menzioni della ricetta (con il riso però lessato, e non ancora cotto nel brodo) risalgono già al 1300. Mentre si deve aspettare l’800 per ritrovare delle preparazioni più vicine a quella che è stata codificata e tramandata ai giorni nostri, con il riso insaporito da grasso, midollo di bue, noce moscata, brodo e formaggio grattugiato. Il vino – ingrediente fondamentale per sgrassare e dare una lieve acidità al piatto – compare solo agli inizi del Novecento ad opera di Pellegrino Artusi, che propone appunto una variante della ricetta che utilizza il vino bianco, apprezzata da molti.

La preparazione del risotto giallo, più o meno canonica, entra di diritto nel novero dei grandi classici della cucina italiana e richiede una preparazione attenta fin nei minimi dettagli, a cominciare dalla scelta del riso che dovrebbe essere preferibilmente Carnaroli, o Vialone Nano, e dall’uso di zafferano in pistilli. Altrettanta cura, allora, richiede la scelta di cosa abbinarvi nel bicchiere.

Che si tratti della versione con o senza ossobuco, la scelta più indicata è senza dubbio un vino rosso di stoffa, sufficientemente maturo e di buon corpo ma con una sua eleganza, magari a base nebbiolo. Per esempio, il carattere intenso e i tannini vellutati del Gattinara Vigna Molsino di Nervi – il cui nome, in dialetto piemontese, significa “morbido” – potrebbe accompagnare egregiamente la versione “base” del piatto. Ottenuto da una vigna incastonata in un anfiteatro naturale ai piedi delle Alpi piemontesi, mostra al naso belle note floreali e di frutta rossa con qualche accenno speziato mentre in bocca è setoso, di grande beva, con un finale fruttato e incredibilmente sapido.

La presenza del midollo potrebbe invece far dirigere la scelta su un’etichetta altrettanto iconica e avvolgente come il Barolo Francia di Giacomo Conterno, un vero monumento di eleganza e fascino tutto piemontese. Al naso si avverte subito la sua complessità, con sentori di piccoli frutti rossi (qualcuno vi ritrova addirittura qualche accenno all’anguria) accompagnati da un profilo mentolato e minerale. In bocca è potente ed elegante allo stesso tempo, molto equilibrato, morbido ma con un finale sapido e fresco che invita al boccone successivo. ]L’alternativa un po’ fuori dai canoni potrebbe essere rappresentata da una bella bolla, con il perlage a  contrastare in maniera piacevole la cremosità e la grassezza del risotto. In questo caso però il suggerimento è di puntare su un Blanc de Noirs o comunque su un vino con una base importante di Pinot Nero.

Si va di certo sul sicuro stappando una bottiglia di Dom Pérignon Vintage 2010 in cui si fondono freschezza, mineralità e avvolgenza, unite a una persistenza notevole. Frutto di un’annata resa difficile da piogge improvvise, in cui la maestria della Maison ha saputo preservare le caratteristiche del pinot noir che qui affianca lo chardonnay al 50%, è fresco al naso – con note di fiori e frutta tropicale – ma ricco e intenso al palato che viene accarezzato da note speziate e pepate e da un affascinante finale salino.

Ma andrà benissimo anche optare per un Franciacorta Docg come il Vintage Collection Dosage Zèro Noir 2011 di Ca’ del Bosco, Pinot Noir in purezza dal perlage finissimo e persistente e il sorso pieno ma dalla grande bevibilità con ricordi di erbe aromatiche e spezie e una nota leggermente fumé a completare il profilo di frutta tropicale e agrumi.

– Luciana Squadrilli 16.11.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

I fine wines fra investimento e collezionismo – Parte Prima

Possiamo considerare i fine wines una sorta di bene rifugio? È una domanda che, prima o poi, tutti gli appassionati di vino si fanno, soprattutto osservando l’andamento di un mercato che, al netto di qualche piccolo fisiologico rallentamento, sembra ormai da anni non conoscere crisi. Le risposte, come sempre davanti alle domande complesse, sono più di una. Iniziamo col dire che i vini pregiati sono una forma di investimento ma che i connotati di quest’ultimo cambiano molto a seconda dell’attitudine di chi acquista: c’è chi ha un approccio prettamente “finanziario” e che compra, costruendo una sorta di portfolio di investimento – a volte affidandosi a veri e propri consulenti finanziari specializzati nel settore – sempre tenendo ben presente la componente di rischio che è propria di ogni operazione di questo tipo. È una dinamica simile a quella di altri settori di investimento, con, però, un elemento differenziante rispetto a tutti gli altri mercati: nel momento in cui si acquista un vino pregiato, si acquista un oggetto di un certo valore economico, dotato di una fortissima allure esperienziale, capace di mitigare gli imponderabili fattori connessi a un investimento, che in fondo è sempre anche una scommessa. Il vino “da investimento”, infatti, rimane prima di tutto un eccellente prodotto enologico, che nella peggiore delle ipotesi può essere consumato, regalando al proprietario (e ai suoi fortunati commensali) una probabile esperienza memorabile, in grado di compensare l’eventuale perdita economica. Il vino pregiato, dunque, da questo punto di vista, è un tipo di investimento che potremmo definire meno “freddo”, perché comunque legato a una passione e a un certo gusto da bon vivant.

Accanto a questo approccio, per certi versi anche meramente speculativo, esiste quello del collezionista, ovvero di chi acquista – con amore e competenza – con l’idea di costruire una cantina, dinamica e varia del punto di vista delle referenze e della loro provenienza, dove i grandi classici affiancano nomi nuovi dal buon potenziale futuro. Una collezione, dunque, che acquisisce valore nel tempo e nel suo insieme e pensata per un fine personale, senza magari escludere l’opportunità di una buona vendita al momento giusto. Se questi sono gli identikit di chi investe in vino, possiamo dire che anche il vino pregiato ne ha uno.

Esistono, infatti, alcuni parametri che determinano il suo valore economico: dalle annate che hanno ottenuto punteggi elevati alle edizioni speciali o “a tiratura limitata”, passando per i cosiddetti formati speciali, come magnum o doppio magnum dalle produzioni contenute e numerate.

Per quanto riguarda, invece, le etichette, le grandi icone – come i Premier Cru Classé di Bordeaux, i Grand Cru di Borgogna o i nostri Barolo e Supertuscan – rimangono tali e sono pressoché inscalfibili ma, come certifica l’ultima edizione della classifica del Liv-ex, il panorama è in costante evoluzione con una grande crescita proprio dei fine wines italiani e di una nuova generazione di vini californiani ma anche tedeschi, cileni e australiani che nei nei rapporti – punto di riferimento per il mercato secondario – hanno dimostrato ottime perfomance.

Ciò che determina queste evoluzioni non è semplicemente la normale crescita qualitativa delle cantine o il naturale evolvere del gusto ma anche e soprattutto l’andamento della critica internazionale: personaggi influenti come James Suckling e Robert Parker, con le loro valutazioni, da decenni non solo aprono la strada a nuove tendenze, ma orientano a tutti gli effetti l’andamento del mercato.

In Italia uno degli esempi più evidenti è rappresentato dalle vicende recenti di Montalcino, qui nell’ultimo decennio il lavoro serio e tenace di diverse aziende per alzare il livello qualitativo del loro Brunello ha dato i suoi frutti ed è stato premiato a livello internazionale, ma non bisogna dimenticare che senza l’innamoramento di Suckling per il borgo e il suo vino più celebre probabilmente alcune cantine, più o meno note, non avrebbero goduto dell’incredibile visibilità che hanno oggi.

Quando si parla di fine wines non si può prescindere dal canale di acquisto: il vino è “un alimento vivo” che va  trattato con una serie di cautele, perché troppi passaggi di mano e una logistica poco accurata possono danneggiarne la qualità e il valore. Per questo, il consiglio migliore è sempre quello di acquistare direttamente in cantina oppure da professionisti che lavorano per assegnazione e per questo comprendono il valore economico ed enologico del vino e sono anche adeguatamente attrezzati per ridurre al minimo i rischi. Per gli stessi motivi, l’altro elemento fondamentale è lo stoccaggio: come vi abbiamo raccontato qualche tempo fa (link), la corretta conservazione del vino è un passaggio determinante per mantenerlo in ottime condizioni e assecondare tutto il suo potenziale evolutivo, tanto per poterlo consumare quanto per poter monetizzare il suo acquisto. Ci sono accorgimenti per costruire una cantina casalinga che sia adeguata alla conservazione, ma bisogna anche dire che raramente il contesto domestico, per quanto ben attrezzato, può rispettare tutte le condizioni ideali di stoccaggio. Proprio partendo da questa consapevolezza è nato, per esempio, il nostro servizio su richiesta e senza costi aggiuntivi, per conservare le bottiglie dei nostri clienti in condizioni ottimali, fino a quando lo vorranno.

Accanto al canale di acquisto e allo stoccaggio c’è un terzo fattore imprescindibile per chi vuole considerare la propria collezione di fine wines un investimento finanziario: il canale di vendita. Vendere privatamente implica la possibilità proporre prezzi più vantaggiosi e allettanti per chi acquista ma il limite è rappresentato dal fatto che ci si muove in un’area opaca, dove non ci sono regole ben definite e tutto dipende, in sostanza, dalla serietà delle due parti in causa e dalla loro capacità di creare una fiducia reciproca tale da permettere le negoziazioni. La soluzione migliore, dunque, è quella di guardare a realtà specializzate che, avendo accesso al mercato primario, non solo sono sempre aggiornate sugli andamenti del mercato e della critica, ma adottano anche policy tali da garantire venditore e acquirente.

Sono le stesse realtà professionali che aiutano a capire il giusto valore economico della bottiglia. La valutazione di un vino è qualcosa di complesso e in qualche misura aleatorio perché il prezzo lo fa il mercato – per esempio il già citato Liv-ex – ma parliamo di un mercato abituato a lavorare sui cosiddetti lotti vergini (le casse di legno chiuse e sigillate) e non su singole bottiglie e sempre nel rispetto delle condizioni di stoccaggio e logistica di cui abbiamo parlato poco fa. Il singolo venditore privato, quindi, si trova inevitabilmente in una condizione di svantaggio se decide di agire autonomamente, senza l’intervento di società specializzate che possano guidare la vendita nella maniera più appropriata e vantaggiosa. È quindi sempre utile – se non necessario – confrontarsi con realtà con esperienza e capacità negoziali e tecniche, per impostare al meglio la vendita o semplicemente per scambiare qualche opinione sulla propria cantina privata, ma anche per comprendere le dinamiche di un mercato sicuramente più complesso, variegato e sfaccettato di quanto possa sembrare a una prima osservazione.

Concludiamo rimandandovi al prossimo articolo del Magazine Winefully per i nostri consigli circa vini, annate e formati che riteniamo si prestino meglio a un acquisto o al collezionismo, con o senza fini di una eventuale futura rivendita.

Redazione 07.10.2021

Drengot: il rinascimento dell’Asprinio

Alberto Verde è un quarantaduenne dallo spirito indomito, orgogliosamente campano, che per argomentare le ragioni del suo incondizionato amore per la Campania arriva a citare il filosofo francese Régis Debray, che nel suo ultimo libro (Contro Venezia, pubblicato qualche mese fa) definisce Napoli come «la vitalità incarnata. […] La città meno narcisista che ci sia, l’unica in Europa dove il mito si incontra per strada, dove il passato si vive al presente».

Da questo amore e dalla conoscenza profonda del territorio è nato un progetto ambizioso di riscoperta e valorizzazione dell’Asprinio, un vitigno autoctono dell’aversano con una vicenda unica, che si intreccia con quella degli Angiò ma anche quella dello champagne e del Greco di Tufo e che testimonia le profonde trasformazioni (non sempre positive) vissute dal territorio campano nel corso della storia. Con la sua cantina, Drengot – in omaggio al conte normanno Rainulf Drengot, che nel 1030 fondò Aversa – oggi Alberto produce tre ottimi vini, a base di Asprinio proveniente dalle vigne ultracentenarie di famiglia.

Lo abbiamo incontrato prima della pausa estiva e ci siamo fatti raccontare qualcosa di più su Drengot e sulla sua visione.

Sei partito da una vigna di famiglia e da lunga storia, operando una piccola rivoluzione nel territorio di Cesa e di tutto l’aversano. Ci racconti come è nato il tuo progetto e perché hai scelto di lavorare solo con Asprinio?

Per raccontarti come siamo arrivati a Drengot voglio fare una premessa, per me importante, che riguarda il territorio in cui ci troviamo.

La provincia di Caserta è una delle migliori di Italia per la vitivinicoltura perché è estremamente fertile – siamo nel cuore di quella che gli antichi chiamavano Campania Felix – ma proprio la sua fertilità ha fatto sì che, soprattutto dal dopoguerra in avanti, ci si concentrasse su coltivazioni intensive, per sfruttare al massimo la ricchezza del territorio. Anche perché i prodotti alimentari del casertano non hanno eguali in Italia dal punto di vista qualitativo e, quindi, sono sempre stati molto richiesti. Non lo dico per partigianeria, è la realtà e lo dimostra il fatto che ancora oggi la gran parte dell’industria agroalimentare del paese viene qui a comprare materie prime e prodotti per poi rivenderli con la propria etichetta. Il limite di questo sistema qual è, però? Che questa zona, speciale dal punto di vista agronomico, ricchissima in biodiversità e con una lunga tradizione agroalimentare, è diventata, nel tempo, una terra di contoterzisti a servizio di tutte le aziende del paese. È stata la sorte di molte zone del Sud Italia, a seguito del boom economico e con la parallela perdita della vocazione agricola di queste zone. Sembra, però, che le cose stiano piano piano cambiando, anche se ci vorrà tempo per vedere i risultati.

Sì, è vero, gli imprenditori agricoli di nuova generazione stanno cercando di fare un lavoro diverso. Per esempio, qui nell’aversano ci sono tantissime aziende agricole che operano in biologico e soprattutto si stanno facendo strada molte realtà che hanno scelto di entrare nella grande distribuzione con un marchio proprio e con un posizionamento e una strategia di comunicazione a supporto. Stiamo cercando di uscire dalla logica contoterzista per riappropriarci della nostra identità, anche per poter dare il giusto valore – economico e culturale – ai nostri prodotti, che sono davvero di qualità altissima, che si tratti di frutta, di verdura, di vino o di formaggi.

La cosa più difficile è capovolgere la prospettiva e allontanare tutti quei pregiudizi che si sono nel tempo accumulati e che, nella maggior parte dei casi, sono frutto di una pessima narrazione delle nostre terre e della nostra storia.

Tu con Drengot stai cercando di dare un tuo contributo per quanto riguarda il vino, dando una nuova vita a varietà autoctona come l’Asprinio. Mi sembra che il tuo progetto sia animato da un certo spirito battagliero.

Assolutamente sì. Quando ho iniziato a pensare di avviare un progetto sui terreni di famiglia, non avevo in mente di fare vino ma ero sicuro di voler qualcosa per restituire a questo territorio quello che merita, con un misto di orgoglio e di senso di riscatto, per tutto quello che ci è stato tolto e le opportunità che non ci sono state date.

La scelta dell’Asprinio è arrivata strada facendo, ci sono stati due episodi piccoli ma decisivi. Il primo è stato una lunga chiacchierata con un produttore di vino del Veneto, per il quale l’Asprinio è uno dei bianchi migliori d’Italia. Per me è stata una sorta di illuminazione, che mi ha portato a riflettere molto, anche perché la mia famiglia alleva Asprinio da sempre, almeno dal 1800, ma sicuramente potremmo andare ancora più indietro, volendo fare un po’ di ricerca. E io stesso sono cresciuto in mezzo alle vigne, insieme ai miei cugini ho passato tutte le mie estati di bambino e ragazzino lì. Quindi, dopo questo incontro ho fatto un giro nella vecchia cantina di mio nonno e per le vigne e così ho deciso, immaginandolo subito come un progetto di lungo respiro, a venti – ma anche trenta – anni. Volevo costruire qualcosa che potesse durare nel tempo e che desse davvero valore a questa terra. L’Asprinio ha caratteristiche che lo rendono unico nel panorama vinicolo italiano. Ci dici qualcosa di più?

Per prima cosa bisogna dire che è un vitigno che qui si alleva fin dall’antichità e che definire territoriale è poco, perché cresce solo qui e quando dico “qui” intendo i quindici comuni dell’aversano, perché se già provi a spostare l’Asprinio di pochi chilometri, diciamo a Caserta, non cresce più.

E fammi fare anche un piccolo excursus storico: nel Settecento, a causa di una pandemia a Napoli e dintorni, un nobile locale decise di trasferirsi e isolarsi – non abbiamo certo inventato noi il lockdown –  nel castello di Tufo, portando con sé, fra i vari beni, anche alcune viti di Asprinio per impiantarle nei terreni circostanti. Ora, una delle caratteristiche di questa varietà è che si sviluppa in altezza, raggiungendo e superando i 15 metri,  a Tufo però le viti non riuscivano a crescere e presero nel tempo un’altra fisionomia e altre caratteristiche: il Greco di Tufo è nato dall’evoluzione di quelle prime viti di Asprinio.

E proprio dalla straordinaria altezza di cui ti parlavo deriva la peculiare struttura delle alberate aversane: le viti di Asprinio crescono intrecciate – o “maritate” come si dice da noi – ai pioppi che vengono utilizzati come supporti, mentre i tralci si attorcigliano a cavi di ferro zincato, creando quasi dei muri vegetali. È un’altra di quelle meraviglie che si trovano solo qui, tanto che le alberate sono state riconosciute come patrimonio immateriale della Regione Campania.

La leggenda dice che l’Asprinio è stato il primo spumante dalla storia. Quanto c’è di vero?

È tutto vero! Semplicemente perché l’Asprinio ha un’acidità di dieci decimi. Non esiste nessun’altra uva che raggiunge questi livelli, quindi si può dire che dall’Asprinio nasce un vino naturalmente frizzante. È uno spumante naturale di fatto e quando diciamo che le bollicine sono nate qui, lo diciamo perché alla corte degli Angiò si beveva solo Asprinio, proprio perché frizzante. Tutto questo è documentato.

Il primo documento ufficiale in cui si cita l’Asprinio è datato 1495 ed è una scrittura privata fra un proprietario terriero e il suo colono ma, come ti dicevo, nell’aversano si alleva da sempre.

È incredibile come un vino così speciale sia stato così poco valorizzato, quasi dimenticato. Credo che sia una dinamica collegata anche al contoterzismo di cui parlavi prima.

Sì, certo. In realtà a livello locale non si è mai smesso di consumare Asprinio ma diciamo che è sempre stato il classico vino da vendere sfuso o da produrre e destinare a uso privato e questo perché dal secondo dopoguerra fino agli anni Novanta il grosso della produzione era destinato alla cantina della Vecchia Romagna, che pagava molto bene le uve per due utilizzi: l’uva era usata per ottenere una base spumante da vendere ai produttori francesi di champagne; con la vinaccia, invece, si otteneva il famoso brandy. Quindi, per decenni – fino alla chiusura di questa cantina – non è stato più redditizio produrre un nostro vino.

Per quanto riguarda la nostra azienda agricola, alla morte di mio nonno (nel 1990), mio padre ha preso in mano la sua gestione, dedicandosi soprattutto alla vigna che è antica, tutte le nostre piante hanno circa 200 anni. Drengot nella sua fisionomia attuale quando è nata, quindi?

Le prime due annate sono state la 2015 e 2016, ma nei fatti sono state dei test, non abbiamo mai pensato di commercializzarle. Nel 2017 ho ripensato tutta la struttura, con un nuovo gruppo di lavoro che funziona molto bene e, così, siamo arrivati a una formula convincente: il lancio sul mercato del vino è avvenuto nel 2018 e quello dello spumante nel 2019.

Avevo in mente un prodotto “ultra-territoriale”, lavorando solo ed esclusivamente con Asprinio, per tutti i motivi che già ti ho raccontato, e volevo che fosse un prodotto di alta qualità che rendesse finalmente giustizia al grande potenziale di quest’uva. Volevo dimostrare, ai miei conterranei prima di tutto, che quel vino, che qui chiamavano tradizionalmente “il vinello”, poteva essere un ottimo vino, di grande piacevolezza e con buon potenziale evolutivo. Un vino di fascia alta.

Ho scelto il nome Drengot per dichiarare da subito il legame con il territorio. Mentre le nostre tre referenze hanno nomi connessi alla storia locale: Terramasca significa terra vulcanica, quindi rimanda al carattere delle nostre terre, Scalillo è un omaggio alla scala che usiamo durante la vendemmia e che ha una particolare forma rastremata per consentire la raccolta manuale sulle nostre alberate e, infine, Asprinium per celebrare fino in fondo la nostra varietà, con un rimando al mondo latino, quindi alle nostre radici.

Terramasca è la vostra referenza di punta, lo definirei un metodo Charmat “nobile” perché matura un anno in acciaio, fa diciotto mesi di affinamento sui lieviti, con un riposo, poi, in bottiglia di almeno altri sei mesi. Considerando, però, il carattere naturalmente frizzante dell’Asprinio, mi viene spontaneo chiederti se pensi di produrre anche un metodo classico.

In realtà ci stiamo già lavorando e ti posso dire che, nel futuro prossimo, Terramasca sarà esclusivamente un metodo classico, non posso essere più preciso perché vogliamo prenderci tutto il tempo che ci serve per arrivare a una bollicina perfetta, che ci soddisfi a pieno. Quest’uva se lo merita!

Sicuramente, Terramasca rimarrà la nostra eccellenza, ma non abbandoneremo del tutto lo Charmat. Lo useremo, infatti, per una nuova referenza un po’ più giovane e non più di annata e per questo più accessibile nel prezzo. Per me è importante, in questo momento, far arrivare l’Asprinio a un pubblico ampio, senza naturalmente abbassare la qualità. Il tuo progetto sta dimostrando fin dove può arrivare l’Asprinio. Che impatto ha avuto il tuo approccio a livello locale? Come è stato recepito?

Ciò che ho portato io qui è stata soprattutto una mentalità positiva: il prodotto c’era ma era poco considerato, da noi per primi. E per questo motivo, nonostante tutte le peculiarità dell’Asprinio, il vino è sempre stato di bassa qualità; quello che ho scelto di fare io, invece, è stato nobilitarlo al massimo, mettendo in piedi un gruppo di lavoro di alto livello e mostrando a tutti tutto il potenziale che abbiamo. E nel farlo ho stupito positivamente i consumatori ma anche gli altri imprenditori agricoli. Diciamo che sono riuscito a smuovere le acque.

Per me, personalmente, Drengot va oltre le opportunità imprenditoriali, è un progetto che riguarda soprattutto il territorio nella sua interezza: sono partito dall’Asprinio per dare nuovo valore a tutto quello che abbiamo qui. Però ammetto che c’è tantissimo da fare e che sono solo agli inizi, con la complicazione che ci troviamo a dover fare il lavoro di un consorzio, che qui non c’è.

Capisco, anche perché per portare avanti certi discorsi servono le istituzioni e serve anche una visione di marketing territoriale, che sono può essere affidata solo a un singolo.

Devo dire che le Pro Loco qui stanno facendo un gran lavoro di supporto. L’inserimento dell’Asprinio fra i beni immateriali campani, si deve al loro impegno. È un riconoscimento importantissimo, non solo a livello simbolico ma anche perché vincola tutti a una tutela delle viti e a una cura del territorio che prima non c’erano. Recentemente è stato fatto anche il passo successivo per ottenere il riconoscimento dall’UNESCO.

Inizia a esserci un certo movimento e una certa attenzione che prima mancavano e che riguardano l’Asprinio ma anche tutti i nostri prodotti locali. Vedo, per esempio, un rinascimento complessivo del vino del casertano, qui c’è un lunghissima e preziosa tradizione: abbiamo tanti rossi e tanti bianchi da splendide uve autoctone, sono poco conosciuti ma stanno trovando nuovo vigore, come il Casavecchia, che è davvero ottimo. È un bene perché si può creare, con il tempo e con il lavoro, un circolo virtuoso per tutto il territorio.

Per quanto riguarda me, sono molto ottimista perché credo molto nella qualità del mio prodotto, so che la storia dell’Asprinio ha un fascino tutto suo e sono molto determinato a contribuire alla rinascita della mia terra. Si tratta unicamente di dare tempo al tempo e lavorare con tenacia.

Redazione 7.09.2021