The winefully Magazine

I vini iper-territoriali di Fabio Tassi

Fare la conoscenza di Fabio Tassi significa prima di tutto incontrare un uomo profondamente innamorato di Montalcino e della sua famiglia. Un sentimento che traspare da ognuna delle sue attività – tanto quelle ricettive quanto la cantina – e che dimostra come si possa trovare un perfetto equilibrio fra il rispetto del passato e della tradizione e uno spirito imprenditoriale solidamente contemporaneo.

Lei è un imprenditore molto attivo a Montalcino da diversi anni, quasi una sorta di ambasciatore ormai dell’enorme bellezza di questi luoghi. Ci racconta il suo percorso?

Parto dalla vicenda di mio nonno materno, perché tutto è iniziato grazie al suo carattere intraprendente. Lui è nato e cresciuto al Greppo – i suoi genitori erano mezzadri lì – ma appena ha potuto, è andato alla ricerca della sua strada. Quando ha scoperto l’apicoltura se ne è innamorato, imparando il mestiere completamente da autodidatta e portando la pratica a Montalcino, che poi nel tempo è diventata uno dei luoghi di riferimento in Italia per la produzione di miele. Ha trasmesso poi questa passione al resto della famiglia: a mia mamma, a mio zio e in seguito anche a mio padre. L’apicoltura e il miele sono stati la loro attività principale per tanti anni, anche se poi c’erano le altre attività collaterali legate al territorio. Io vengo da questa storia: da ragazzo mi sono iscritto a Giurisprudenza ma in pratica non ho nemmeno iniziato il corso perché già sapevo di voler lavorare in azienda.

E poi è arrivata la Drogheria Franci.

Esatto. Verso la fine degli anni Ottanta c’è stato il boom dell’enoturismo, ero giovane, avevo voglia di fare e ho iniziato a vendere vino, miele naturalmente ed eccellenze del territorio. Abbiamo aperto la Drogheria nel 1993, dandole il nome della famiglia di mia madre. All’inizio eravamo solo io e mia nonna in uno spazio abbastanza piccolo, al piano terra della nostra casa. Poi, con gli anni, la drogheria è cresciuta, diventando, infine, ristorante e locanda. Oggi ci sono tre bellissime camere, arredate con molta cura. È una trasformazione di cui sono molto contento perché lo trovo un bel modo di tenere vivo il ricordo dei nonni.

A questa attività, nel 2001 si è aggiunta la gestione dell’Enoteca della Fortezza. Non c’è nemmeno bisogno di raccontare la bellezza di questo posto, per me è stata ed è una grandissima gioia lavorare lì.

La produzione di vino a che punto è arrivata? Era un obiettivo che aveva in mente da sempre?

È stata più che altro un’evoluzione naturale, quando nel 2000 abbiamo avuto la possibilità di avere, in quanto coltivatori e apicoltori, un ettaro di Brunello e mezzo di Rosso. A quel punto, siccome gli altri nostri terreni avevano esposizioni molto a nord e molto in alto, abbiamo iniziato a cercare qualcos’altro di più adatto al Brunello. E con l’aiuto del mio grande amico Beppe Bianchini di Ciacci Piccolomini abbiamo individuato tre bellissimi ettari sotto il Castello della Velona e così abbiamo iniziato. Il 2004 è stato l’anno della prima vendemmia. In questo vigneto – che definirei “moderno”, con cloni di nuova generazione e molto fitto – adesso produciamo il cru Giuseppe Tassi (un omaggio a mio padre) e il nostro Brunello base.

Sempre nel 2004 abbiamo iniziato a imbottigliare il vino proveniente da una vecchia vigna di mio nonno, la Vigna Franci.

Siete abbastanza giovani come cantina, dunque, ma possiamo tentare un bilancio di questi vent’anni. Come siete cresciuti?

Di certo sono molto cambiato io per primo, perché ho più esperienza – quando ho iniziato ero un appassionato e un conoscitore ma non avevo sufficiente competenza per potermi occupare della produzione, perciò l’enologo aveva molto più spazio – e poi perché col tempo sono cambiati i gusti e le idee. È naturale che sia così.

L’importantissima storia del Brunello va salvaguardata, anche attraverso il rispetto del disciplinare, ma è evidente che i tempi sono cambiati: se vent’anni fa si cercavano vini molto potenti, molto strutturati, molto concentrati, ora si cerca maggiormente l’eleganza e la finezza. Progressivamente anche la mia testa si è spostata in questa direzione: più passa il tempo più cerco vini che siano “naturali”, con pochissime trasformazioni, dove la mano dell’uomo si sente il meno possibile e quello che emerge sono la vigna, l’annata e il suo andamento. Oggi per arrivare ad avere dei vini così – sempre più di territorio – sono disposto a correre più rischi che in passato.

Se questi vini raccontano il territorio, qual è la lingua comune che parlano?

In realtà, cerco sempre di differenziare molto i vini, proprio per far venire fuori il carattere del luogo. Noi ci siamo ma non dobbiamo essere invadenti, dobbiamo accompagnare il vino. È proprio per valorizzare al massimo le singole vigne che i nostri Brunelli sono quattro e sono lavorati separatamente fino all’imbottigliamento. E in prospettiva, vorrei marcare ancora di più queste differenze. Per assurdo, il tratto comune dei miei quattro Brunelli è che sono tutti diversi fra loro e sempre anche un po’ da se stessi, perché il loro carattere finale dipende molto dall’andamento dell’annata.

Vorrei applicare questa idea anche al Rosso di Montalcino: sto pensando di farne almeno due e non più uno solo. Credo che sia importante valorizzare l’identità di territorio anche di un vino come il Rosso, più fragrante, con un frutto più presente e che, per questo, intercetta un pubblico diverso rispetto al Brunello. Mi piacerebbe che il Rosso di Montalcino fosse considerato non un secondo vino ma l’altra faccia del Sangiovese di Montalcino.

Per quanto riguarda il Brunello, l’ultimo nato è il Colombaio, giusto?

Sì, abbiamo acquisito la vigna nel 2016. Vigna Colombaio si trova vicinissima all’Abbazia di Sant’Antimo, in mezzo al bosco, è un posto di una bellezza straordinaria; vorrei che chi beve questo Brunello venisse almeno una volta a visitarlo perché è davvero un’esperienza che fa entrare nel vino in profondità. È un luogo che non smette di meravigliarmi, ma devo dire che alla bellezza di Montalcino, di ogni suo angolo, è impossibile abituarsi. Io stesso, che ho sempre abitato qui, continuo a stupirmi ogni giorno.

Qualsiasi aggettivo, in effetti, è scontato quando si parla del vostro territorio. La cosa che mi colpisce sempre è la luce, che è bellissima sempre in tutte le stagioni, a tutte le ore.

È una delle caratteristiche speciali del luogo, credo che sia una delle cose che qui fa la differenza, proprio in termini qualitativi per il vino, come anche la presenza costante del vento, che aiuta a ridurre tantissimo i trattamenti perché ostacola l’umidità. Questo è un territorio straordinariamente vocato, lo è da sempre, ce lo dice anche la storia. Dobbiamo solo essere bravi ad assecondarlo e onesti nel tutelarlo.

Abbiamo l’obbligo morale di salvaguardare quello che le generazioni precedenti ci hanno lasciato così integro e intatto. È un patrimonio di tutti di cui dobbiamo avere cura.

La scelta del biologico mi sembra inevitabile in questa visione.

Infatti. Noi siamo sempre stati biologici, perché in vigna abbiamo sempre utilizzato solo zolfo e rame. Quando ho iniziato, eravamo in pochi tutto sommato a lavorare in biologico, ma mi è sembrata la scelta più naturale che potessi fare, quindi non ho mai nemmeno sentito il bisogno di schierarmi. Poi nel 2013 abbiamo preso la decisione di ufficializzare, ma nella pratica non è cambiato nulla.

Credo che non abbracciare il biologico a Montalcino sia un controsenso, come prendere le medicine, pur essendo sani.

Una curiosità dato che stiamo parlando di biologico e territorio: continuate anche oggi a lavorare con le api?

Sì ma ho ridotto esponenzialmente, prima l’azienda era piuttosto grossa, avevamo tantissime api e praticavamo il nomadismo. Adesso le teniamo solo dove ci sono le vigne e abbiamo una piccola produzione di miele millefiori. Ci tengo a portarla avanti anche se su scala ridotta, da un lato per una questione di equilibrio dell’habitat, e dall’altro per una questione affettiva: l’amore di mio nonno per le api era grandissimo e davvero contagioso.

Lei per vocazione è un curioso, ha intenzione di sperimentare, uscendo dall’imprescindibile binomio Brunello – Rosso di Montalcino?

In realtà lo sto già facendo, nel 2018, dopo un viaggio in Borgogna, ho deciso di sperimentare con l’anfora. Ho iniziato con una da 800 litri, usando lo stesso Sangiovese del cru Giuseppe Tassi, con 15% di grappolo intero e lunghissima macerazione. Dopo tre mesi lo abbiamo svinato e rimesso in anfora fino a settembre 2019. È stato commercializzato a gennaio 2020 con il nome di Brunò: un Brunello no, insomma.

All’inizio in tanti qui mi prendevano in giro ma una volta assaggiato hanno cambiato idea. Sono molto contento perché è piaciuto molto e perché per me è stato un esperimento molto interessante. E alla fine, ho deciso di prendere altre due anfore per continuare.

Poi ho tante altre idee in testa: ho piantato vicino a casa, su un terreno acquistato quattro anni fa, una vigna ad alberello e qui vedremo che cosa succederà. Poi c’è un terreno in alto a cui sono molto affezionato perché era uno dei posti preferiti di mio nonno e lì sto pensando di piantare un Trebbiano, perché in futuro vorrei cimentarmi con un bianco.

Il ricordo dei suoi nonni è ritornato molte volte nel corso di questa chiacchierata.

Sono legatissimo alla mia famiglia. Più passano gli anni e più capisco l’importanza di quello che hanno fatto i miei nonni, è il loro lavoro che mi ha dato l’opportunità di essere qui ora.

Il mondo va avanti e cambia ed è giusto così e a me piace guadare sempre avanti ma mi piace anche mantenere una connessione forte con la nostra storia e sono molto felice che le mie figlie, pur abitando a Milano, siano legate a Montalcino. Stanno entrando anche loro nell’azienda di famiglia e non potrei desiderare di meglio.

Questo rapporto così stretto con la famiglia e con le radici mi sembra che sia un tassello importante del suo impegno per il territorio.

Sì, credo di sì. Va da sé che ritengo importante assecondare il business ma senza stravolgere quello che c’è. Nel nostro lavoro bisogna procedere con molta lentezza e avere pazienza, assecondando quello che viene; per esempio, quest’anno c’è stata una grossa gelata e io stesso ho subito molti danni, ma bisogna accettarlo e guardare oltre, senza cedere a soluzioni facili. Giulio Gambelli ripeteva spesso che se un anno è andato male, vorrà semplicemente dire che il prossimo andrà meglio. Non c’è molto da aggiungere. Mi ritengo già fortunato a vivere qua, non voglio cercare scorciatoie e voglio lavorare con trasparenza. Tutti noi siamo credibili solo se abbiamo l’onestà intellettuale di produrre un vino pulito, ben fatto e di territorio.

Il Brunello Riserva Franci 2015 ha ottenuto i 100 punti da James Suckling. Che impatto ha avuto sulla percezione della vostra azienda questo riconoscimento?

Per prima cosa siamo molto fieri, perché Suckling è un grande esperto di vini di Montalcino e per questo territorio ha fatto moltissimo. E del resto ha ricevuto la cittadinanza onoraria non a caso!

È stato molto importante per noi perché i 100 punti alla Riserva hanno supportato un’annata che, nel suo insieme, ha ricevuto buonissimi punteggi da tutti i critici. Si è trattato di una sorta di coronamento della qualità del nostro lavoro in tutte le sue declinazioni. Nella percezione esterna ha certamente avuto un impatto positivo perché ha aumentato la nostra credibilità: la nostra è una realtà abbastanza giovane, ricevere riconoscimenti così prestigiosi vuol dire che siamo giovani ma solidi e che stiamo facendo un lavoro serio.

Redazione 18.05.2021