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La biodiversità: una risorsa nella lotta ai cambiamenti climatici

Già da tempo l’agricoltura si misura con uno scenario climatico differente dal passato: inverni più miti e brevi, estati sempre più calde e siccitose e, nel mezzo, eventi violenti e inaspettati, come gelate primaverili, forti grandinate e alluvioni sempre più frequenti.  Fenomeni che, nel loro insieme, stanno già influenzando qualità e quantità delle nostre produzioni agricole.

In questo contesto, poiché la vite è particolarmente sensibile alle variazioni climatiche, la viticoltura e, con essa, la produzione di vino, rischiano di subire pesanti trasformazioni a causa dell’aumento delle temperature. A dir poco preoccupanti sono le stime di uno studio condotto da un gruppo internazionale di ricercatori, che include studiosi dell’Institut National de la Recherche Agronomiquen (INRA) e del Bordeaux Sciences Agro Institute e i cui risultati sono stati pubblicati a gennaio sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences.

Analizzando l’impatto dei cambiamenti climatici su 11 varietà di vitigni – fra le quali Cabernet Sauvignon, Chardonnay e Pinot Noir – che rappresentano il 35% della superficie coltivata mondiale e più del 64% di quella coltivata in paesi a vocazione vitivinicola come Australia, Cile e Francia, lo studio afferma che – con un aumento atteso della temperatura di 2 °C – entro il 2050 il 56% delle aree vitivinicole del mondo potrebbe scomparire. I paesi più colpiti sarebbero quelli mediterranei come Italia e Spagna, che rischierebbero di perdere, secondo lo studio, circa il 65% dei loro vitigni, “a favore” di paesi come la Nuova Zelanda o gli stati del nord degli USA che, viceversa, potrebbero destinare più terra alla viticoltura.

Lo studio, per fortuna, non si limita a fornire uno scenario futuro piuttosto fosco (almeno per alcuni paesi) ma propone anche una soluzione, che fa affidamento sulla natura stessa e sulla sua resilienza. Nel mappare il comportamento delle 11 varietà in esame, infatti, i ricercatori, hanno sviluppato un modello che analizza e valuta lo sviluppo di ognuna di esse in tre differenti stadi – il germogliamento, la fioritura e l’invaiatura – applicando poi questo modello alle diverse regioni vitivinicole e simulando l’ipotetico aumento della temperatura di 2 °C, con l’obiettivo di capire quali varietà rispondono meglio a questo incremento. Facendo un esempio molto semplice, il Grenache, che matura molto tardi, si comporta molto bene anche in uno scenario climatico molto più caldo di quello attuale, mentre Pinot Noir e Chardonnay, che germogliano presto e hanno l’esigenza di un clima più freddo, potranno in futuro essere coltivati in zone fino a questo momento escluse dalla mappa mondiale del vino. Un fenomeno questo già in corso in parte, se si pensa allo sviluppo recente degli spumanti inglesi e alla scelta lungimirante di Taittinger di acquistare 69 ettari nel Kent, per spostarvi parte della sua produzione di Champagne, investendo sul fatto che, a breve, il sud della Gran Bretagna avrà un clima come quello della Francia settentrionale, con un suolo da sempre molto simile a quello della regione francese.

Lo studio mira a conoscere approfonditamente le capacità adattive delle diverse varietà a un contesto climatico differente da quello attuale, per aiutare il settore vitivinicolo a prepararsi meglio al cambiamento e a ridurre i danni che sicuramente – questo ormai è evidente – esso porterà con sé. Per il futuro, i ricercatori si propongono di studiare anche altre varietà meno diffuse per arrivare a una mappatura più completa.

Mettendo per un istante da parte i dati e le misurazioni scientifiche, l’elemento fondamentale che questo studio mette in evidenza è l’importanza della biodiversità. Sono circa 1.100, infatti, le varietà di vite coltivate attualmente note, un vero patrimonio che rappresenta una risorsa fondamentale nel contrasto al cambiamento climatico, perché può consentire ai viticoltori di diversificare i propri vitigni, guardando soprattutto a quelli autoctoni e alla loro spontanea adattabilità al contesto d’origine, per creare un ecosistema più sano e resistente capace, per questo, di rispondere meglio alle trasformazioni in corso.

Il francese INRA, inoltre, è fautore di un altro importante progetto a supporto della viticoltura del futuro. Si tratta di LACCAVE, lanciato nel 2012 con la collaborazione del Centre National de la Recherche Scientifique e di diverse università francesi con l’obiettivo specifico di fornire strumenti e conoscenze ai viticoltori francesi per fronteggiare il cambiamento climatico. Con un orizzonte temporale piuttosto ampio – fino al 2050 – LACCAVE promuove studi, ricerche e analisi interdisciplinari, che coinvolgono non solo l’enologia e l’agronomia ma anche la climatologia, la genetica, l’ecofisiologia e la matematica.

Infine, per citare un esempio italiano, molto interessante è come si sta muovendo il gruppo Gaja, con la scelta di tenute che si trovano a un’altitudine maggiore (ne sono state acquistate di recente una sull’Etna e una su una zona collinare piemontese) e la selezione di vitigni a bacca bianca del Sud Italia, geneticamente selezionati per convivere con le alte temperature, c’è un test in atto, ad esempio, sulla resa del Fiano nella zona di Bolgheri. Senza dimenticare gli interventi biologici, volti a selezionare flora e fauna che meglio combattono il perdurare delle malattie, come l’innesto del cipresso insieme a una particolare categoria di uccelli per tutelare la salute dei vitigni. Come, infatti, ha sottolineato Gaia Gaja a Wine2Wine 2019, l’aspetto più preoccupante dei cambiamenti climatici riguarda, soprattutto, le malattie della vite e in particolare la loro resistenza ai trattamenti, che sembra essere supportata dalle alte temperature. Mentre il calore non compromette direttamente la qualità del vino (anzi gli può dare struttura) rendendo necessario, al massimo, qualche mirato intervento in cantina a supporto della bevibilità. Un sospiro di sollievo per tutti!