The Winefully Magazine

GLI ORANGE WINE TRA SPIGOLI E SINTONIE

Se dovessimo raccontare in sintesi cosa sono gli orange wine, o macerati, potremmo dire che si tratta di vini prodotti partendo da uve bianche, ma utilizzando il processo produttivo dei rossi, ovvero tenendo le bucce a contatto con il mosto. Il tempo di questo contatto è variabile: può andare da alcune ore a diversi mesi

Da qualche anno c’è un interesse crescente per questa tipologia di vini, che a primo impatto possono far pensare a un fenomeno nuovo. In realtà gli orange wine hanno origini antichissime, si parla di migliaia di anni fa. Da sempre, in Georgia, vengono prodotti utilizzando i kvevri, tradizionali anfore in terracotta tipiche della regione. Non si tratta dell’unica zona che ha un legame storico con i macerati. Anche l’area che si sviluppa intorno al confine tra Friuli e Slovenia ha una stretta connessione con gli orange wine.Questa zona geografica, in particolare, ha avuto un ruolo fondamentale nella riscoperta di questo particolare metodo produttivo.

Bicchieri visti dall'alto

Negli ultimi anni si è detto molto sui macerati. Spesso sono stati inquadrati come vini estremi, come la scelta giusta quando si vuole provare qualcosa di audace, magari anche un po’ ostico. Come vini difficili, in poche parole. Da un lato questa prospettiva ha un fondo di verità. La presenza dei tannini, dovuta al contatto con le bucce, porta al vino una terza dimensione fatta di durezze e spigoli. Il connubio uve bianche e macerazione, inoltre, dà al vino sentori che per molti possono risultare selvaggi, o poco familiari. Altro punto: spesso i macerati, soprattutto nel caso di contatto con le bucce prolungato per mesi, risultano vini materici, di grande consistenza. Tanto che qualcuno, scherzosamente, a volte li chiama vini “mangia e bevi”.

Questa struttura importante, dall’altro lato, apre un tema ugualmente significativo e meno evidenziato: gli orange wine sono molto versatili, soprattutto quando si tratta di cibo e abbinamenti. Le ragioni di questa adattabilità sono molteplici. Una, appena citata, è certamente quella del corpo. Una struttura più presente rispetto a quella dei classici bianchi permette ai vini macerati di uscire dai perimetri di abbinamento più comuni, che li vogliono accostati principalmente a piatti delicati, spesso a base di pesce.

I tempi di macerazione, e la relativa intensità che ne deriva, sono determinanti per valutare precisamente gli abbinamenti più indicati. Possiamo dire, ad esempio, che spesso si tratta di una buona scelta per le carni bianche e i formaggi di media e lunga stagionatura. Andando più nello specifico dei vini caratterizzati da lunghe macerazioni, un punto fondamentale è l’intensità che ne deriva.

Proprio questa intensità apre svariate opportunità di abbinamento, che in alcune circostanzepuò risolvere casi di accostamenti complessi. È il caso, ad esempio, dei piatti speziati, tipici della cucina orientale. Un orange wine di buona intensità spesso ha le caratteristiche giuste per sostenere il confronto con un’altra intensità importante, quella delle spezie appunto. L’importante, in questo caso, è tenere d’occhio i tannini; se troppo accentuati, con i loro spigoli potrebbero entrare in conflitto con la personalità spiccata delle spezie

Cucina asiatica

Un tema importantissimo è poi quello della temperatura. Giocare con i gradi centigradi, nel mondo dei macerati, può dare risultati interessanti. Partendo dal presupposto che la temperatura di servizio di questi vini si aggira intorno ai 15 gradi, bisogna tener conto che temperature più basse enfatizzano le durezze, quindi acidità, sapidità e tannini, mentre temperature più elevate portano in evidenza le morbidezze, dunque gli zuccheri, l’alcol e la componente glicerica. Se questo accade per qualsiasi tipo di vino, con gli orange wine l’ampiezza dei sentori che di dischiudono alle diverse temperature a mio avviso è davvero notevole.

Tanto che mi capita spesso, al ristorante, di scegliere per l’intera cena un solo vino, un orange wine, caratterizzato da un tempo di macerazione significativo. Servito fresco, per iniziare, può accompagnare tanti tipi di antipasti, ad esempio delle polpette di vitello. Man mano che il vino sale di temperatura, è come se gradualmente si rendesse adattabile ad ogni passaggio della cena. Un po’ meno freddo per accompagnare un primo, ad esempio della pasta fresca con un sugo d’anatra. E poi, con una temperatura ancora un po’ più alta, un secondo piatto importante, magari una carne anche di grande intensità, ad esempio l’agnello.

Come già detto, tutto è relativo alla quantità di tempo che il vino ha trascorso sulle bucce, e conseguentemente alla sua intensità. Nel caso di macerazioni meno marcate, gli accostamenti vanno riconsiderati in modo proporzionale. Munjebel VA Bianco 2019 Di Frank Cornellissen può rappresentare un buon esempio. Nasce sulle pendici dell’Etna da un blend di uve autoctone a bacca bianca e la lavorazione prevede 4 giorni di macerazione. È un vino elegante, complesso, reso ancora più speciale dal fatto che la cuvée proviene interamente da vecchie viti a piede franco che hanno tra i 60 e i 90 anni. Il contatto con le bucce è un tocco garbato che va ad accentuare ulteriormente le caratteristiche di ampiezza e finezza. E in questo caso specifico, tornando a parlare di cibo, la scelta giusta può ricadere nel mondo delle carni bianche oppure in quello del pesce, ad esempio con una zuppa alla mediterranea.


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier Ais, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

Se dovessimo raccontare in sintesi cosa sono gli orange wine, o macerati, potremmo dire che si tratta di vini prodotti partendo da uve bianche, ma utilizzando il processo produttivo dei rossi, ovvero tenendo le bucce a contatto con il mosto. Il tempo di questo contatto è variabile: può andare da alcune ore a diversi mesi

Da qualche anno c’è un interesse crescente per questa tipologia di vini, che a primo impatto possono far pensare a un fenomeno nuovo. In realtà gli orange wine hanno origini antichissime, si parla di migliaia di anni fa. Da sempre, in Georgia, vengono prodotti utilizzando i kvevri, tradizionali anfore in terracotta tipiche della regione. Non si tratta dell’unica zona che ha un legame storico con i macerati. Anche l’area che si sviluppa intorno al confine tra Friuli e Slovenia ha una stretta connessione con gli orange wine.Questa zona geografica, in particolare, ha avuto un ruolo fondamentale nella riscoperta di questo particolare metodo produttivo.

Bicchieri visti dall'alto

Negli ultimi anni si è detto molto sui macerati. Spesso sono stati inquadrati come vini estremi, come la scelta giusta quando si vuole provare qualcosa di audace, magari anche un po’ ostico. Come vini difficili, in poche parole. Da un lato questa prospettiva ha un fondo di verità. La presenza dei tannini, dovuta al contatto con le bucce, porta al vino una terza dimensione fatta di durezze e spigoli. Il connubio uve bianche e macerazione, inoltre, dà al vino sentori che per molti possono risultare selvaggi, o poco familiari. Altro punto: spesso i macerati, soprattutto nel caso di contatto con le bucce prolungato per mesi, risultano vini materici, di grande consistenza. Tanto che qualcuno, scherzosamente, a volte li chiama vini “mangia e bevi”.

Questa struttura importante, dall’altro lato, apre un tema ugualmente significativo e meno evidenziato: gli orange wine sono molto versatili, soprattutto quando si tratta di cibo e abbinamenti. Le ragioni di questa adattabilità sono molteplici. Una, appena citata, è certamente quella del corpo. Una struttura più presente rispetto a quella dei classici bianchi permette ai vini macerati di uscire dai perimetri di abbinamento più comuni, che li vogliono accostati principalmente a piatti delicati, spesso a base di pesce.

I tempi di macerazione, e la relativa intensità che ne deriva, sono determinanti per valutare precisamente gli abbinamenti più indicati. Possiamo dire, ad esempio, che spesso si tratta di una buona scelta per le carni bianche e i formaggi di media e lunga stagionatura. Andando più nello specifico dei vini caratterizzati da lunghe macerazioni, un punto fondamentale è l’intensità che ne deriva.

Proprio questa intensità apre svariate opportunità di abbinamento, che in alcune circostanzepuò risolvere casi di accostamenti complessi. È il caso, ad esempio, dei piatti speziati, tipici della cucina orientale. Un orange wine di buona intensità spesso ha le caratteristiche giuste per sostenere il confronto con un’altra intensità importante, quella delle spezie appunto. L’importante, in questo caso, è tenere d’occhio i tannini; se troppo accentuati, con i loro spigoli potrebbero entrare in conflitto con la personalità spiccata delle spezie

Cucina asiatica

Un tema importantissimo è poi quello della temperatura. Giocare con i gradi centigradi, nel mondo dei macerati, può dare risultati interessanti. Partendo dal presupposto che la temperatura di servizio di questi vini si aggira intorno ai 15 gradi, bisogna tener conto che temperature più basse enfatizzano le durezze, quindi acidità, sapidità e tannini, mentre temperature più elevate portano in evidenza le morbidezze, dunque gli zuccheri, l’alcol e la componente glicerica. Se questo accade per qualsiasi tipo di vino, con gli orange wine l’ampiezza dei sentori che di dischiudono alle diverse temperature a mio avviso è davvero notevole.

Tanto che mi capita spesso, al ristorante, di scegliere per l’intera cena un solo vino, un orange wine, caratterizzato da un tempo di macerazione significativo. Servito fresco, per iniziare, può accompagnare tanti tipi di antipasti, ad esempio delle polpette di vitello. Man mano che il vino sale di temperatura, è come se gradualmente si rendesse adattabile ad ogni passaggio della cena. Un po’ meno freddo per accompagnare un primo, ad esempio della pasta fresca con un sugo d’anatra. E poi, con una temperatura ancora un po’ più alta, un secondo piatto importante, magari una carne anche di grande intensità, ad esempio l’agnello.

Come già detto, tutto è relativo alla quantità di tempo che il vino ha trascorso sulle bucce, e conseguentemente alla sua intensità. Nel caso di macerazioni meno marcate, gli accostamenti vanno riconsiderati in modo proporzionale. Munjebel VA Bianco 2019 Di Frank Cornellissen può rappresentare un buon esempio. Nasce sulle pendici dell’Etna da un blend di uve autoctone a bacca bianca e la lavorazione prevede 4 giorni di macerazione. È un vino elegante, complesso, reso ancora più speciale dal fatto che la cuvée proviene interamente da vecchie viti a piede franco che hanno tra i 60 e i 90 anni. Il contatto con le bucce è un tocco garbato che va ad accentuare ulteriormente le caratteristiche di ampiezza e finezza. E in questo caso specifico, tornando a parlare di cibo, la scelta giusta può ricadere nel mondo delle carni bianche oppure in quello del pesce, ad esempio con una zuppa alla mediterranea.


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier Ais, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

GLI ORANGE WINE TRA SPIGOLI E SINTONIE

Se dovessimo raccontare in sintesi cosa sono gli orange wine, o macerati, potremmo dire che si tratta di vini prodotti partendo da uve bianche, ma utilizzando il processo produttivo dei rossi, ovvero tenendo le bucce a contatto con il mosto. Il tempo di questo contatto è variabile: può andare da alcune ore a diversi mesi

Da qualche anno c’è un interesse crescente per questa tipologia di vini, che a primo impatto possono far pensare a un fenomeno nuovo. In realtà gli orange wine hanno origini antichissime, si parla di migliaia di anni fa. Da sempre, in Georgia, vengono prodotti utilizzando i kvevri, tradizionali anfore in terracotta tipiche della regione. Non si tratta dell’unica zona che ha un legame storico con i macerati. Anche l’area che si sviluppa intorno al confine tra Friuli e Slovenia ha una stretta connessione con gli orange wine.Questa zona geografica, in particolare, ha avuto un ruolo fondamentale nella riscoperta di questo particolare metodo produttivo.

Bicchieri visti dall'alto

Negli ultimi anni si è detto molto sui macerati. Spesso sono stati inquadrati come vini estremi, come la scelta giusta quando si vuole provare qualcosa di audace, magari anche un po’ ostico. Come vini difficili, in poche parole. Da un lato questa prospettiva ha un fondo di verità. La presenza dei tannini, dovuta al contatto con le bucce, porta al vino una terza dimensione fatta di durezze e spigoli. Il connubio uve bianche e macerazione, inoltre, dà al vino sentori che per molti possono risultare selvaggi, o poco familiari. Altro punto: spesso i macerati, soprattutto nel caso di contatto con le bucce prolungato per mesi, risultano vini materici, di grande consistenza. Tanto che qualcuno, scherzosamente, a volte li chiama vini “mangia e bevi”.

Questa struttura importante, dall’altro lato, apre un tema ugualmente significativo e meno evidenziato: gli orange wine sono molto versatili, soprattutto quando si tratta di cibo e abbinamenti. Le ragioni di questa adattabilità sono molteplici. Una, appena citata, è certamente quella del corpo. Una struttura più presente rispetto a quella dei classici bianchi permette ai vini macerati di uscire dai perimetri di abbinamento più comuni, che li vogliono accostati principalmente a piatti delicati, spesso a base di pesce.

I tempi di macerazione, e la relativa intensità che ne deriva, sono determinanti per valutare precisamente gli abbinamenti più indicati. Possiamo dire, ad esempio, che spesso si tratta di una buona scelta per le carni bianche e i formaggi di media e lunga stagionatura. Andando più nello specifico dei vini caratterizzati da lunghe macerazioni, un punto fondamentale è l’intensità che ne deriva.

Proprio questa intensità apre svariate opportunità di abbinamento, che in alcune circostanzepuò risolvere casi di accostamenti complessi. È il caso, ad esempio, dei piatti speziati, tipici della cucina orientale. Un orange wine di buona intensità spesso ha le caratteristiche giuste per sostenere il confronto con un’altra intensità importante, quella delle spezie appunto. L’importante, in questo caso, è tenere d’occhio i tannini; se troppo accentuati, con i loro spigoli potrebbero entrare in conflitto con la personalità spiccata delle spezie

Cucina asiatica

Un tema importantissimo è poi quello della temperatura. Giocare con i gradi centigradi, nel mondo dei macerati, può dare risultati interessanti. Partendo dal presupposto che la temperatura di servizio di questi vini si aggira intorno ai 15 gradi, bisogna tener conto che temperature più basse enfatizzano le durezze, quindi acidità, sapidità e tannini, mentre temperature più elevate portano in evidenza le morbidezze, dunque gli zuccheri, l’alcol e la componente glicerica. Se questo accade per qualsiasi tipo di vino, con gli orange wine l’ampiezza dei sentori che di dischiudono alle diverse temperature a mio avviso è davvero notevole.

Tanto che mi capita spesso, al ristorante, di scegliere per l’intera cena un solo vino, un orange wine, caratterizzato da un tempo di macerazione significativo. Servito fresco, per iniziare, può accompagnare tanti tipi di antipasti, ad esempio delle polpette di vitello. Man mano che il vino sale di temperatura, è come se gradualmente si rendesse adattabile ad ogni passaggio della cena. Un po’ meno freddo per accompagnare un primo, ad esempio della pasta fresca con un sugo d’anatra. E poi, con una temperatura ancora un po’ più alta, un secondo piatto importante, magari una carne anche di grande intensità, ad esempio l’agnello.

Come già detto, tutto è relativo alla quantità di tempo che il vino ha trascorso sulle bucce, e conseguentemente alla sua intensità. Nel caso di macerazioni meno marcate, gli accostamenti vanno riconsiderati in modo proporzionale. Munjebel VA Bianco 2019 Di Frank Cornellissen può rappresentare un buon esempio. Nasce sulle pendici dell’Etna da un blend di uve autoctone a bacca bianca e la lavorazione prevede 4 giorni di macerazione. È un vino elegante, complesso, reso ancora più speciale dal fatto che la cuvée proviene interamente da vecchie viti a piede franco che hanno tra i 60 e i 90 anni. Il contatto con le bucce è un tocco garbato che va ad accentuare ulteriormente le caratteristiche di ampiezza e finezza. E in questo caso specifico, tornando a parlare di cibo, la scelta giusta può ricadere nel mondo delle carni bianche oppure in quello del pesce, ad esempio con una zuppa alla mediterranea.


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier Ais, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

VITICOLTURA IN VERTICALE: VIAGGIO TRA I VIGNETI PIÙ ALTI D’EUROPA

Quanto in alto ci si può spingere in Europa con la coltivazione della vite? La domanda è più che mai attuale, visti gli effetti del cambiamento climatico e gli esperimenti sempre più frequenti per trovare nell’altitudine una delle risposte decisive. Sono diversi i vigneti che rivendicano il primato di essere i più alti nel vecchio continente. Lo scopo qui non è tanto quello di decretare il vincitore dal punto di vista orografico, o compilare una lista esaustiva, quanto quello di citare alcuni di questi casi, e delineare alcuni tratti distintivi che caratterizzano le vigne in quota e i vini che ne derivano.
Il sud Spagna, con la catena montuosa de La Contraviesa, sembra quella che è riuscita a toccare le altitudini più elevate. Siamo vicino al Parco Nazionale della Sierra Nevada, a sud-est di Granada, all’impressionante quota di 1.368 metri sul livello del mare, mitigata dai venti caldi che provengono dal mare di Alboran. Qui l’azienda Barranco Oscuro coltiva 10 ettari di terreno, un’estensione non banale per condizioni tanto estreme. Tra i vitigni coltivati ci sono sia una serie di autoctoni, sia alcuni internazionali tra cui Pinot Nero e Merlot.
In Alto Adige, precisamente nell’alta Val Venosta, esiste un altro luogo che sfiora le quote dello spagnolo appena citato. Qui l’azienda Calvenschlössl cura diversi vigneti, tra cui uno molto speciale. Si chiama Marienberg, ed è stato l’omonimo monastero benedettino a concedere il terreno perché potesse essere coltivato.L’incredibile altitudine dove cresce il vitigno Solaris è quella di 1.340 metri sul livello del mare, davvero un soffio dal titolo di vigneto più alto d’Europa. Si tratta di luoghi di incredibile fascino, dove la storia millenaria del monastero benedettino si fonde con scenari scoscesi dalla bellezza folgorante, e il lago di Resia spicca con le sue acque cristalline.

Sempre in Italia, ma a tutt’altra latitudine, la viticoltura vola fino a 1.300 metri sul livello del mare. Siamo in Calabria, a Cava di Melis, un piccolo paese nel cuore del Parco Nazionale della Sila, nel comune di Longobucco. L’azienda si chiama Immacolata Pedace, coltiva diversi vitigni internazionali tra cui Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Pinot bianco e Chardonnay. La viticoltura ad altezze così proibitive, in questo caso, è resa possibile da un incrocio delicato di fattori, tra cui la presenza del lago Cecita, che con il suo influsso agisce da elemento mitigante, permettendo di superare i rigidi inverni in cui le temperature arrivano anche a 20 gradi sotto lo zero.Tornando a nord, anche la Valle D’Aosta è conosciuta per le altitudini impressionanti della sua viticoltura. Siamo a 1.210 metri, nella parte nord-ovest della regione, dove nasce il noto Blanc de Morgex et de La Salle, prodotto con uve Prié Blanc. La cantina si chiama Cave Mont Blanc, oggi conta circa 80 soci, ciascuno dei quali coltiva un piccolo vigneto ai piedi del Monte Bianco.Tornando in Alto Adige, e in particolare nella Valle di Non, una realtà davvero interessante è Vin de la Neu, guidata da Nicola Biasi, enologo conosciuto internazionalmente per la capacità di far crescere e affermare sul mercato diverse realtà italiane.

Nicola, oltre dieci anni fa, decide di impiantare a oltre 800 metri di altitudine la varietà resistente Johanniter: il 2013 è l’anno della prima vendemmia. Uno dei punti più interessanti del lavoro di Vin de la Neu è la sperimentazione che oggi, attraverso scienza e conoscenza, permette di produrre vini ad altitudini più elevate rispetto al passato. Uno dei tasselli fondamentali che consente di raggiungere questo obiettivo è lo studio delle varietà resistenti, come appunto la Johanniter. I risultati che danno dal punto di vista agronomico contro le malattie fungine, e non solo, sono davvero straordinari. Questo, naturalmente, permette una totale assenza di trattamenti in vigna, e dunque di portare avanti una viticoltura che davvero si può definire sostenibile e rispettosa del territorio che la accoglie.
Il risultato nel bicchiere è tangibile e inequivocabile. Quelli di Nicola sono vini di grandissima purezza e pulizia, caratterizzati da un’espressività che lascia il segno. L’annata 2017 di Vin de la Neu, in particolare, si caratterizza per il rigore e la freschezza che deriva dall’ambiente montano dove nasce. L’arancia, l’ananas e alcune interessanti sfumature erbacee, si uniscono a una gamma di sentori appartenenti al mondo minerale, come la grafite. A questi si aggiungono screziature di profumi terziari, tra cui si distinguono sfumature di idrocarburi e riverberi iodati. Un sorso teso, ricco e perfettamente a fuoco, che contiene in nuce l’anima di un progetto innovativo che fa dell’armonia con l’ambiente montano la propria cifra distintiva.

Georgia Dimitriou, l’anfitrione de Le Mortelle

L’enologa della tenuta maremmana dei Marchesi Antinori ci porta alla scoperta di questa splendida realtà parlando di identità, di terroir, di architettura e sostenibilità, temi perfettamente integrati all’interno di una delle più importanti aziende vinicole italiane.

Prima di tutto, ci vuole raccontare un po’ di sé, di come si è avvicinata al mondo del vino e del suo affascinante percorso professionale?

Per quanto affascinante può sembrare oggi il mio percorso, confesso che il mio avvicinamento è stato quasi casuale. Studiavo agronomia ad Atene, la mia città di origine, quando mi ha colpito la magia, come la chiamo, della viticoltura; il fatto che da una materia semplice com’è l’uva possa uscire un prodotto talmente complesso ed elegante come può essere il vino. Il ruolo dell’uomo nel centro di questa trasformazione mi ha intrigato cosi tanto da decidere di voler assolutamente fare questo lavoro. Quindi sono partita dalla Grecia per perseguire questa passione in giro per il mondo. Dopo il mio Master in Francia ho lavorato in varie regioni vitivinicole come Bordeaux, Napa Valley, Yarra Valley, Malborough per poi arrivare in Toscana esattamente sette anni fa.

Le Mortelle, come le altre splendide tenute dei Marchesi Antinori, presenta un contesto ambientale unico che, oltre ad essere di una bellezza speciale, è anche estremamente peculiare per quanto riguarda la composizione del terreno e l’esposizione delle vigne. Ce lo può descrivere e spiegare la personalità conferita ai vini della tenuta?

La tenuta, circondata da piccole colline che creano una sorta di anfiteatro, si trova nel sud della Toscana, in Maremma, a una distanza di circa 7 km dal mare. È proprio questa vicinanza al mare, insieme alle caratteristiche pedologiche, a rendere Le Mortelle un posto unico. I nostri terreni, di origine alluvionale/marina, sono ricchi di scheletro con percentuali elevate di sabbia e una piccola percentuale di argilla. La ricchezza di scheletro in superficie tende a mantenere il calore e, insieme alla sabbia, permette un buon drenaggio, limitando eventuali stress idrici estivi. Allo stesso tempo, le vigne hanno un’esposizione Est-Ovest così da sfruttare al meglio il Maestrale pomeridiano che mitiga le temperature. Queste condizioni favoriscono una maturazione lenta e ottimale, soprattutto per le nostre varietà tardive come il Cabernet Sauvignon e il Carménère, dando vita a vini di grande eleganza aromatica e raffinatezza tannica.

Come Winefully abbiamo imparato a conoscere Le Mortelle per mezzo del Poggio alle Nane e dell’Ampio, due rossi complessi e strutturati che sono ambasciatori della Tenuta: come ce li può descrivere e che similitudini (e differenze) troviamo nei due?

A entrambi i vini sono dedicate le migliori parcelle della tenuta e le cure più attente durante tutte le fasi della loro produzione, cominciando dalle operazioni nel vigneto.
Poggio alle Nane è un vino concepito su un’espressione molto elegante del Cabernet Franc della tenuta. La complessità aromatica ottenuta dalle nostre migliori uve di questa varietà, con note di pepe bianco, di mirtillo e di menta, unita alla fitta trama tannica conferita dal Cabernet Sauvignon e il carattere speziato e vellutato del Carménère, creano un vino complesso con un grande potenziale di invecchiamento. Un vino che può offrire soddisfazioni immediate ma che rivela ancora di più il suo carattere a chi ha la pazienza di aspettare.
Ampio invece è un’espressione del tutto particolare di Carménère. Una varietà della stessa famiglia del Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon con cui condivide molte similitudini, soprattutto a livello aromatico, con sfumature di ribes nero e di liquirizia, spesso predominanti. Il Carménère, vitigno di origine bordolese e faro dei vini cileni, viene spesso considerata una varietà meno elegante che però, come mi piace dire, ha trovato nel nostro territorio la sua grazia. L’uvaggio di Ampio, frutto di una conoscenza profonda dei nostri vigneti, ha un’identità più pronunciata e fortemente caratterizzata dalla varietà. Con un lungo affinamento in rovere francese 100% nuovo, ha un bouquet complesso di grande finezza, tannini setosi e una persistenza degustativa straordinaria.

Antinori ci ha abituato a confrontarci con vini straordinari che rappresentano oggi l’enologia italiana nel mondo e che si sono spesso spinti ben oltre le denominazioni locali: è il caso di Poggio alle Nane e di Ampio delle Mortelle. Da produttori come vengono visti i disciplinari odierni?

Storicamente in Italia, come anche in altri paesi tradizionali del vino, i disciplinari hanno spesso contribuito alla notorietà dei vini nel mondo e al miglioramento della qualità all’interno delle regioni viticole. Oggi giorno però, la forte competizione dei vini del Nuovo Mondo spinge ancora di più al superamento delle frontiere enologiche e il caso dei Supertuscans è più che mai attuale. In più, Le Mortelle fa parte di una zona vitivinicola molto giovane e allo stesso tempo molto variegata, di 8.700 ettari vitati. La Maremma ha indubbiamente un grande potenziale enologico ma deve ancora concretizzare la sua identità. Noi come azienda rispettiamo il nostro territorio creando vini rappresentativi e identitari di altissimo livello. Questo è il nostro contributo a tale obiettivo. Avere la flessibilità per farlo è altrettanto importante.

Le Mortelle, oltre ad essere una delle più belle realtà italiane dal punto di vista estetico ed architettonico, è anche all’avanguardia nelle pratiche di cantina: struttura interrata, processo produttivo per gravità, sfruttamento massimo delle condizioni ambientali sono solo alcuni degli aspetti più interessanti. 
Come si riflette tale complessità nei vini della tenuta?

La cura delle uve e la qualità di ciascun acino è un valore fondamentale per la produzione dei vini come Poggio alle Nane e Ampio. Al tempo stesso abbiamo la fortuna di essere in una zona vitivinicola dove la maturazione delle uve raggiunge un tale livello da renderli estremamente delicati. Tutte le operazioni in cantina hanno quindi come obiettivo quello di ottimizzare al massimo la precisione e diminuire al minimo le condizioni di stress per la materia prima. La vinificazione per gravità, i serbatoi troncoconici, le estrazioni con follatori pneumatici, la barricaia interrata sono solo alcuni degli strumenti che garantiscono una lavorazione delle uve meno traumatica, preservando i profumi varietali e facilitando l’estrazione di tannini setosi. Solo cosi riusciamo a esprimere al meglio il carattere del nostro territorio.

Oggi si parla sempre di sostenibilità nella filiera del vino e sappiamo che tale filosofia è fondamentale nel business model di Antinori: come viene interpretata la sostenibilità a Le Mortelle e cosa restituisce la cantina all’ambiente circostante?

Il progetto di costruzione della cantina de Le Mortelle è stato concepito fin dall’inizio come un progetto eco-sostenibile con sistemi innovativi come quello della fitodepurazione delle acque reflue, ma anche con semplici meccanismi che sfruttano la gravità, la luce naturale e la termoregolazione della roccia. Così Le Mortelle pone il rispetto per l’ambiente e il risparmio energetico al centro della sua attenzione.
 Il principio della sostenibilità si riflette quindi su ogni passaggio, cominciando dal vigneto e in tutte le fasi della produzione. Ad esempio, negli ultimi 10 anni abbiamo investito nella difesa integrata contro gli insetti, con l’uso si feromoni e lanci di insetti predatori, in modo tale da arrivare all’abbandono di insetticidi senza compromettere la qualità dei nostri vini.
 La sostenibilità è per Le Mortelle un approccio sano e rispettoso dell’ambiente, nella migliore tradizione agricola, unito alla ricerca e alla tecnologia.

Antinori è una delle realtà principali nel contesto italiano del vino, sia per la lunga storia che ha alle spalle, sia per il patrimonio enologico rappresentato dalle sue tenute. Cosa significa fare parte di una realtà di questo tipo, dove c’è una forte e coerente visione imprenditoriale d’insieme ma allo stesso tempo ogni tenuta ha una chiara e indiscutibile identità? Come si coniuga la singolarità di un progetto con la cornice d’insieme?

Immagino sia possibile perché l’obiettivo è comune e al centro del modello aziendale; produrre vino di qualità. Per quanto sembri banale è un obiettivo che talvolta viene trascurato dalle aziende. Il vino non può essere visto come un prodotto alimentare qualsiasi, è un prodotto agricolo, dipendente dalla Natura e da lei fortemente influenzato. Proprio per questo il vino di qualità non può essere standardizzato e l’uomo diventa il fattore chiave. La famiglia Antinori e Renzo Cotarella, CEO e capo enologo dell’azienda, sono nati nel mondo del vino e questo principio lo conoscono benissimo. Per questo hanno ritenuto fondamentale che ogni tenuta avesse la sua identità e la sua autonomia, ciascuna con la sua propria squadra.

Nel chiudere l’intervista ci piacerebbe, per quanto possibile, guardare al futuro: Georgia cosa aspettarci (o augurarci di aspettare) dal prossimo futuro di Le Mortelle?

Penso che il prossimo futuro de Le Mortelle sarà ancora più “green”. La famiglia Antinori è da sempre convinta che il rispetto per l’ambiente debba essere al centro delle attenzioni e sforzi. Per Le Mortelle la sfida è ancora più importante perché siamo in una zona di grande bellezza naturalistica, dove gran parte della Maremma costiera è considerata Riserva Naturale.
Quindi, nei prossimi anni vorremmo ulteriormente diminuire il nostro consumo energetico, aumentando l’uso di energie rinnovabili. Vorremmo sensibilizzare tutti i nostri dipendenti verso questa direzione, perché solo cambiando la nostra mentalità possiamo migliorare veramente le cose. Di una cosa sono certa, che il rispetto per l’ambiente e la sua biodiversità sia importante sia per motivi etici che per motivi tecnici; più lavoriamo in armonia con il nostro territorio, più saremo in grado di produrre dei vini di grande espressione.

Georgia Dimitriou Enologa de Le Mortelle

Georgia Dimitriou, l’anfitrione de Le Mortelle

L’enologa della tenuta maremmana dei Marchesi Antinori ci porta alla scoperta di questa splendida realtà parlando di identità, di terroir, di architettura e sostenibilità, temi perfettamente integrati all’interno di una delle più importanti aziende vinicole italiane.

Prima di tutto, ci vuole raccontare un po’ di sé, di come si è avvicinata al mondo del vino e del suo affascinante percorso professionale?

Per quanto affascinante può sembrare oggi il mio percorso, confesso che il mio avvicinamento è stato quasi casuale. Studiavo agronomia ad Atene, la mia città di origine, quando mi ha colpito la magia, come la chiamo, della viticoltura; il fatto che da una materia semplice com’è l’uva possa uscire un prodotto talmente complesso ed elegante come può essere il vino. Il ruolo dell’uomo nel centro di questa trasformazione mi ha intrigato cosi tanto da decidere di voler assolutamente fare questo lavoro. Quindi sono partita dalla Grecia per perseguire questa passione in giro per il mondo. Dopo il mio Master in Francia ho lavorato in varie regioni vitivinicole come Bordeaux, Napa Valley, Yarra Valley, Malborough per poi arrivare in Toscana esattamente sette anni fa.

Le Mortelle, come le altre splendide tenute dei Marchesi Antinori, presenta un contesto ambientale unico che, oltre ad essere di una bellezza speciale, è anche estremamente peculiare per quanto riguarda la composizione del terreno e l’esposizione delle vigne. Ce lo può descrivere e spiegare la personalità conferita ai vini della tenuta?

La tenuta, circondata da piccole colline che creano una sorta di anfiteatro, si trova nel sud della Toscana, in Maremma, a una distanza di circa 7 km dal mare. È proprio questa vicinanza al mare, insieme alle caratteristiche pedologiche, a rendere Le Mortelle un posto unico. I nostri terreni, di origine alluvionale/marina, sono ricchi di scheletro con percentuali elevate di sabbia e una piccola percentuale di argilla. La ricchezza di scheletro in superficie tende a mantenere il calore e, insieme alla sabbia, permette un buon drenaggio, limitando eventuali stress idrici estivi. Allo stesso tempo, le vigne hanno un’esposizione Est-Ovest così da sfruttare al meglio il Maestrale pomeridiano che mitiga le temperature. Queste condizioni favoriscono una maturazione lenta e ottimale, soprattutto per le nostre varietà tardive come il Cabernet Sauvignon e il Carménère, dando vita a vini di grande eleganza aromatica e raffinatezza tannica.

Come Winefully abbiamo imparato a conoscere Le Mortelle per mezzo del Poggio alle Nane e dell’Ampio, due rossi complessi e strutturati che sono ambasciatori della Tenuta: come ce li può descrivere e che similitudini (e differenze) troviamo nei due?

A entrambi i vini sono dedicate le migliori parcelle della tenuta e le cure più attente durante tutte le fasi della loro produzione, cominciando dalle operazioni nel vigneto.
Poggio alle Nane è un vino concepito su un’espressione molto elegante del Cabernet Franc della tenuta. La complessità aromatica ottenuta dalle nostre migliori uve di questa varietà, con note di pepe bianco, di mirtillo e di menta, unita alla fitta trama tannica conferita dal Cabernet Sauvignon e il carattere speziato e vellutato del Carménère, creano un vino complesso con un grande potenziale di invecchiamento. Un vino che può offrire soddisfazioni immediate ma che rivela ancora di più il suo carattere a chi ha la pazienza di aspettare.
Ampio invece è un’espressione del tutto particolare di Carménère. Una varietà della stessa famiglia del Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon con cui condivide molte similitudini, soprattutto a livello aromatico, con sfumature di ribes nero e di liquirizia, spesso predominanti. Il Carménère, vitigno di origine bordolese e faro dei vini cileni, viene spesso considerata una varietà meno elegante che però, come mi piace dire, ha trovato nel nostro territorio la sua grazia. L’uvaggio di Ampio, frutto di una conoscenza profonda dei nostri vigneti, ha un’identità più pronunciata e fortemente caratterizzata dalla varietà. Con un lungo affinamento in rovere francese 100% nuovo, ha un bouquet complesso di grande finezza, tannini setosi e una persistenza degustativa straordinaria.

Antinori ci ha abituato a confrontarci con vini straordinari che rappresentano oggi l’enologia italiana nel mondo e che si sono spesso spinti ben oltre le denominazioni locali: è il caso di Poggio alle Nane e di Ampio delle Mortelle. Da produttori come vengono visti i disciplinari odierni?

Storicamente in Italia, come anche in altri paesi tradizionali del vino, i disciplinari hanno spesso contribuito alla notorietà dei vini nel mondo e al miglioramento della qualità all’interno delle regioni viticole. Oggi giorno però, la forte competizione dei vini del Nuovo Mondo spinge ancora di più al superamento delle frontiere enologiche e il caso dei Supertuscans è più che mai attuale. In più, Le Mortelle fa parte di una zona vitivinicola molto giovane e allo stesso tempo molto variegata, di 8.700 ettari vitati. La Maremma ha indubbiamente un grande potenziale enologico ma deve ancora concretizzare la sua identità. Noi come azienda rispettiamo il nostro territorio creando vini rappresentativi e identitari di altissimo livello. Questo è il nostro contributo a tale obiettivo. Avere la flessibilità per farlo è altrettanto importante.

Le Mortelle, oltre ad essere una delle più belle realtà italiane dal punto di vista estetico ed architettonico, è anche all’avanguardia nelle pratiche di cantina: struttura interrata, processo produttivo per gravità, sfruttamento massimo delle condizioni ambientali sono solo alcuni degli aspetti più interessanti. 
Come si riflette tale complessità nei vini della tenuta?

La cura delle uve e la qualità di ciascun acino è un valore fondamentale per la produzione dei vini come Poggio alle Nane e Ampio. Al tempo stesso abbiamo la fortuna di essere in una zona vitivinicola dove la maturazione delle uve raggiunge un tale livello da renderli estremamente delicati. Tutte le operazioni in cantina hanno quindi come obiettivo quello di ottimizzare al massimo la precisione e diminuire al minimo le condizioni di stress per la materia prima. La vinificazione per gravità, i serbatoi troncoconici, le estrazioni con follatori pneumatici, la barricaia interrata sono solo alcuni degli strumenti che garantiscono una lavorazione delle uve meno traumatica, preservando i profumi varietali e facilitando l’estrazione di tannini setosi. Solo cosi riusciamo a esprimere al meglio il carattere del nostro territorio.

Oggi si parla sempre di sostenibilità nella filiera del vino e sappiamo che tale filosofia è fondamentale nel business model di Antinori: come viene interpretata la sostenibilità a Le Mortelle e cosa restituisce la cantina all’ambiente circostante?

Il progetto di costruzione della cantina de Le Mortelle è stato concepito fin dall’inizio come un progetto eco-sostenibile con sistemi innovativi come quello della fitodepurazione delle acque reflue, ma anche con semplici meccanismi che sfruttano la gravità, la luce naturale e la termoregolazione della roccia. Così Le Mortelle pone il rispetto per l’ambiente e il risparmio energetico al centro della sua attenzione.
 Il principio della sostenibilità si riflette quindi su ogni passaggio, cominciando dal vigneto e in tutte le fasi della produzione. Ad esempio, negli ultimi 10 anni abbiamo investito nella difesa integrata contro gli insetti, con l’uso si feromoni e lanci di insetti predatori, in modo tale da arrivare all’abbandono di insetticidi senza compromettere la qualità dei nostri vini.
 La sostenibilità è per Le Mortelle un approccio sano e rispettoso dell’ambiente, nella migliore tradizione agricola, unito alla ricerca e alla tecnologia.

Antinori è una delle realtà principali nel contesto italiano del vino, sia per la lunga storia che ha alle spalle, sia per il patrimonio enologico rappresentato dalle sue tenute. Cosa significa fare parte di una realtà di questo tipo, dove c’è una forte e coerente visione imprenditoriale d’insieme ma allo stesso tempo ogni tenuta ha una chiara e indiscutibile identità? Come si coniuga la singolarità di un progetto con la cornice d’insieme?

Immagino sia possibile perché l’obiettivo è comune e al centro del modello aziendale; produrre vino di qualità. Per quanto sembri banale è un obiettivo che talvolta viene trascurato dalle aziende. Il vino non può essere visto come un prodotto alimentare qualsiasi, è un prodotto agricolo, dipendente dalla Natura e da lei fortemente influenzato. Proprio per questo il vino di qualità non può essere standardizzato e l’uomo diventa il fattore chiave. La famiglia Antinori e Renzo Cotarella, CEO e capo enologo dell’azienda, sono nati nel mondo del vino e questo principio lo conoscono benissimo. Per questo hanno ritenuto fondamentale che ogni tenuta avesse la sua identità e la sua autonomia, ciascuna con la sua propria squadra.

Nel chiudere l’intervista ci piacerebbe, per quanto possibile, guardare al futuro: Georgia cosa aspettarci (o augurarci di aspettare) dal prossimo futuro di Le Mortelle?

Penso che il prossimo futuro de Le Mortelle sarà ancora più “green”. La famiglia Antinori è da sempre convinta che il rispetto per l’ambiente debba essere al centro delle attenzioni e sforzi. Per Le Mortelle la sfida è ancora più importante perché siamo in una zona di grande bellezza naturalistica, dove gran parte della Maremma costiera è considerata Riserva Naturale.
Quindi, nei prossimi anni vorremmo ulteriormente diminuire il nostro consumo energetico, aumentando l’uso di energie rinnovabili. Vorremmo sensibilizzare tutti i nostri dipendenti verso questa direzione, perché solo cambiando la nostra mentalità possiamo migliorare veramente le cose. Di una cosa sono certa, che il rispetto per l’ambiente e la sua biodiversità sia importante sia per motivi etici che per motivi tecnici; più lavoriamo in armonia con il nostro territorio, più saremo in grado di produrre dei vini di grande espressione.

Georgia Dimitriou Enologa de Le Mortelle

La serendipità dell’Amarone e il mito di Giuseppe Quintarelli

La serendipità è quel fenomeno per cui, mentre si sta cercando qualcosa, imprevedibilmente si trova altro. E il bello è che questo “altro” risulta una vera e propria sorpresa, qualcosa che spesso ha un valore più grande di ciò che si inseguiva originariamente. In poche parole si tratta di una scoperta fortunata, non pianificata. Cristoforo Colombo che scopre l’America, mentre in realtà cercava le Indie, è forse il caso più famoso di serendipità. Poi ci sono la Tarte Tatin, nata quando le sorelle Tatin scordarono di mettere la base nella torta di mele; il ghiacciolo, inventato incidentalmente da Frank Epperson dimenticando un bicchiere di soda al freddo; e la penicillina, figlia dell’errata disinfezione di un provino da parte di Alexander Fleming.

Anche l’Amarone pare sia un tipico caso di serendipità. La leggenda narra di un tale Adelino Lucchese, cantiniere della Cantina sociale di Negrar, che nel 1936 ritrova una botte di Recioto dimenticata. Spillando si rende conto che il vino dolce, continuando a fermentare, è diventato secco. Prova a recuperare il danno, ma senza successo. Il direttore della cantina, avvisato del problema, decide comunque di assaggiare quel “Recioto scapà” e rimane piacevolmente sorpreso dal risultato ottenuto. La frase che pare abbia rivolto al cantiniere è proprio “questo non è amaro, ma Amarone!”.

Nasce così il celebre vino della Valpolicella, il cui primo documento di vendita risale al 1938. L’Amarone viene poi distribuito a tutti gli effetti a partire dal 1953, ottenendo subito un ottimo riscontro commerciale. Nel 1968 viene approvato il primo disciplinare: al vino viene riconosciuta la certificazione DOC. Il suo successo continua a crescere, soprattutto all’estero, e nel 2010 arriva anche la DOCG. L’Amarone tecnicamente è un passito secco, ovvero privi di residuo zuccherino o quasi. La peculiarità del processo produttivo sta proprio nell’appassimento dell’uva, che porta a concentrazione e grande potenziale espressivo. Il vino viene prodotto con le uve storiche Corvina, Corvinone e Rondinella, a cui è possibile aggiungere sia uve locali che altre varietà.

Se guardiamo al percorso compiuto da questo grande vino, una stella brilla più delle altre lungo la sua parabola ascendente. È quella di Giuseppe Quintarelli, l’uomo che ha saputo portare l’Amarone ai livelli qualitativi più alti, fino a sancirne il successo e la fama in tutto il mondo. La cantina viene fondata dal padre Silvio a Negrar agli inizi del Novecento. Sarà proprio Giuseppe, il più giovane dei figli, a prenderla in mano negli anni Cinquanta, proseguendo il lavoro iniziato dal padre. L’azienda cresce nel rispetto dei metodi di lavorazione tradizionali, arricchiti da alcune importanti scelte evolutive. Negli anni Ottanta, ad esempio, alle varietà tradizionali ne vengono aggiunte altre internazionali come Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, e altre ancora come Nebbiolo e Croatina. Quello che negli anni invece non cambia è la tensione a un’eccellenza senza compromessi, assoluta.

Giuseppe Quintarelli è un uomo semplice e generoso, così altruista da condividere tutti i segreti del proprio mestiere con Romano Dal Forno, rendendolo di fatto il suo successore. Un grandissimo produttore mancato esattamente dieci anni fa, nel 2012, quando la figlia Fiorenza prende in mano le redini dell’azienda insieme al marito e ai figli. Diverse le etichette, tutte di monumentale importanza. Tra queste, l’Amarone della Valpolicella Classico spicca come vera e propria bottiglia leggendaria. Parliamo della 2013. L’annata, dal punto di vista climatico, è stata ambivalente. Nella prima parte le piante hanno subito gli effetti di un clima difficile, con temperature basse e frequenti piogge. Nella seconda parte, da giugno in poi, il meteo ha invece virato in direzione opposta, portando alla raccolta di frutti dal grande profilo qualitativo. Si tratta di fatto di una tra le migliori annate per l’Amarone, che molti produttori sono riusciti a tradurre in vini di estrema finezza. Quello di Quintarelli, in particolare, si presenta con un rosso rubino di grande intensità, lasciando presagire fin da subito una materia viva e vibrante. Al naso apre con sentori di potpourri e delinea un tocco di note scure che il palato renderà più evidenti. Il sorso è regale, sontuoso, con la frutta in confettura che lascia spazio prima a sensazioni iodate, poi a richiami sui toni della fava di cacao e della liquirizia. Come in tutte le opere massime, non solo quelle enologiche, è nel finale che si ha la conferma del capolavoro.

di Graziano Nani 09.03.2022

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

I fine wines fra investimento e collezionismo – Parte Seconda

Qualche tempo fa, nel nostro articolo “I Fine Wines tra Investimento e Collezionismo – Parte Prima” abbiamo affrontato una serie di aspetti legati all’appeal dei vini pregiati nei confronti di coloro che non mettono la degustazione di un vino, di un’annata o di un formato specifico necessariamente in cima alle loro preferenze ma che, invece, preferiscono concentrarsi su aspetti diversi che hanno sempre come comune denominatore il vino ricercato, famoso, limitato e per certi versi anche atto a divenire prodotto speculativo.

Come abbiamo visto, l’argomento vini pregiati presenta una serie di criticità da considerare ed affrontare prima di iniziare la propria attività di acquisto. Una volta completato l’iter preparatorio e rese disponibili le necessarie risorse del caso, ci si deve confrontare con la domanda più difficile: da dove cominciare?

Le risposte sono ovviamente molteplici, forse anche infinite: più ampia è la scelta e le potenziali combinazioni, più si palesa la necessità di applicare un necessario pragmatismo all’argomento per non farsi prendere la mano dal tentacolare mondo del vino da investimento.

Sebbene esistano una serie di strumenti a supporto di chi si avvicina a tale dimensione con l’idea di divesificare i propri investimenti, mettere in atto manovre speculative o a fini di genuino collezionismo, questi non sono sempre accessibili a tutti. Esistono infatti piattaforme dedicate alla compravendita di qualunque tipo di vino, anche pregiato, su base cartone o cassa completa, in quantità da limtate a grandi, dove giornalmente si confrontano venditori ed acquirenti di tutto il mondo per lo più legati al mondo B2B, in un contesto di barriere di costo all’entrata. Certo, si può sicuramente fare a meno di quanto sopra e seguire un approccio più semplice ed alla portata di tutti, tramite l’utilizzo di social o di siti dedicati che permettono il confronto tradizionale tra privati e non, anche sulla base di singole bottiglie. In aggiunta, vi è da tenere in considerazione come le dinamiche di compravendita tipiche dei privati possano differire in funzione del fine stesso dell’investimento, delle risorse disponibili, della propensione al rischio dei singoli oltre che di personalissime sensazioni, preferenze e considerazioni, proprie o fatte tali dal confronto con terzi o dalla pubblicazione di guide e punteggi della critica internazionale, storicamente con un ruolo più che rilevante nell’influenzare le scelte di chi investe risorse.

Essendo la materia quindi complessa ed approcciabile da più posizioni in funzione delle reali necessità del compratore, proveremo a semplificare l’argomento il più possibile, focalizzando la nostra attenzione sulla domanda più difficile sopra menzionata e condividendo parte della nostra esperienza maturata sul mercato italiano ed internazionale.

Inevitabilmente ciò porterà a focalizzare l’attenzione su alcune cantine a discapito di altre, sulla cui proposta non vi è nulla da obiettare e nei confronti delle quali non sussiste alcuna preclusione al di là di un dovere di sintesi per contenere la portata di questo nostro contenuto.

Partendo quindi dal Bel Paese e dalle sue innumerevoli produzioni vinicole d’eccellenza, suggeriremmo senza dubbio di focalizzare l’attenzione sulla sigla BBBA+, che non è un rating finanziario, ma solo un comodo acronimo che sta per “Brunello, Barolo, Barbaresco, Amarone” e che lascia il “+” all’interpretazione, oggi poco soggetta a fantasia e più concretamente legata a vini chiamati nella loro prima fase “Supertuscan” e che oggi, grazie agli sforzi di tanti vignaioli effettuati negli ultimi decenni, sono assorti a riferimento per quanto riguarda il vino italiano nel mondo. Iniziando la nostra analisi proprio da quest’ultima categoria, come non menzionare il vero vino iconico nazionale, ciò da cui tanto (tutto?) ebbe inizio, ovvero il Sassicaia di Tenuta San Guido. Nato negli anni sessanta per volere di Mario Incisa della Rocchetta, non vi è annata senza che vi si scateni una corsa all’acquisto in tutti i formati disponibili. Al di là di una qualità ed un’esperienza degustativa ai massimi livelli, il Sassicaia è forse il vino italiano più conosciuto (e scambiato) al mondo, sempre ai massimi livelli della critica internazionale e caratterizzato da una costante crescita delle sue valutazioni, anche a distanza di poco tempo dall’acquisto (che si raccomanda in sede di rilascio annuale, tipicamente tra primo e secondo trimestre di ogni anno).

Un nostro suggerimento spassionato per quanto riguarda il Sassicaia: raccomandiamo di utilizzare esclusivamente canali di acquisto ufficiali essendo anche, e purtroppo, il vino italiano più soggetto a contraffazione.

Ma se San Guido ha fatto grande Bolgheri, grazie al prezioso assist di Giosuè Carducci ed, in primis, della natura stessa, particolarmente generosa in questa parte alta della Maremma, l’avvicendamento tra due famiglie storiche per il vino italiano, Antinori e Frescobaldi, porta a due campioni del bolgherese, Masseto ed Ornellaia, tanto vicini in termini di proprietà quanto diversi come filosofia, terroir, stile produttivo e posizionamento di mercato.

Due etichette iconiche, mai sazie di conquistare il cuore di collezionisti, appassionati ed investitori, rifugio sicuro del capitale investito vista la sempre elevate domanda che li caratterizza ad ogni uscita sul mercato.

Una boutade vuole che un vino il cui nome si conclude in “-aia” sia caratterizzato da un’elevata qualità e sia, in poche parole, una sicurezza, una sorta di bene rifugio: al di là dei tanti altri, eccellenti, vini con la medesima desinenza, è al Solaia di Antinori che si deve guardare dopo gli altrettanto blasonati bolgheresi.

Un vino con caratteristiche ben distinte, proveniente da un territorio diverso come il Chianti Classico dove la Tenuta Tignanello beneficia di un terroir eccezionale sfruttato al meglio dalla famiglia Antinori nel produrre, da vigneti insistenti sulla medesima collina, due eccellenze come, appunto, Solaia e Tignanello, vini di rango nobile sempre fortemente richiesti sul mercato ed apprezzati dalla critica internazionale, talvolta anche con il massimo dei voti. Si sa, la Toscana è una fucina di grandissimi vini, ormai provenienti da molti territori a dimostrazione della vocazione di questa regione e delle grandi capacità dei vignaioli. La lista di cui sopra è senza dubbio riduttiva, non avendo lasciato il meritato spazio a cantine iconiche che negli anni si sono ritagliate un ruolo importantissimo, pensiamo a Montevertine Montevertine, Fontodi, Bibi Graetz, Tenuta di Trinoro, Le Pupille, Castello di Ama, San Giusto a Rentennano, Castellare di Castellina, Le Macchiole, Petrolo, Isole e Olena, Tenuta di Biserno, Monteverro, Tua Rita, Ricasoli, Querciabella, solo per fare qualche nome di realtà che, con uno e più vini, sono riconosciute avere un appeal internazionale

Ma non si può parlare di Toscana senza considerare uno dei borghi medievali più noti nel mondo, quella Montalcino che è contraddistinta dall’essere la capitale del buon bere a base di Sangiovese Grosso, o Brunello.

L’argomento qui si fa senza dubbio vasto e quindi complesso: il Brunello di Montalcino è un vino che da tantissimi anni presenta uno standard qualitativo ai massimi, tanto che sempre più cantine simboleggiano ormai la cittadina, in un sano caleidoscopio fatto di tradizione e di innovazione, di vecchie e nuove generazioni che si passano in testimone fissando nuovi e sempre più ambiziosi traguardi.

Etichette come Biondi Santi, Casanova di Neri, Giodo, Poggio di Sotto, Fuligni, Siro Pacenti, Le Chiuse, Il Marroneto, Castiglion del Bosco, Salvioni, Livio Sassetti, Stella di Campalto, Gianni Brunelli, Pian dell’Orino, Le Potazzine, Castello di Romitorio, Le Ragnaie, Luce della Vite, Il Poggione e Case Basse di Soldera sono sono alcune delle etichette oggi protagoniste dell’offerta ilcinese che, di annata in annata e di riserva in riserva, mantengono alto il nome del capoluogo tra le folte schiere di pretendenti alle ambite bottiglie. Sebbene la Toscana svolge un ruolo chiave nel proporre un’estrema varietà di vini pregiati soggetti a continui acquisti ed investimenti, un’altra regione in grado di proporre una scelta veramente ampia in un fazzoletto di terra compreso tra i comuni di Barolo e Barbaresco, è il Piemonte.

Terra di grandi vini la Langa, con una grandissima tradizione e caratterizzata da una splendida evoluzione negli anni, tanto da proporre oggi un’offerta variegata che ben simboleggia il mix tra una ferrea tradizione ed una ben accetta rivisitazione del Nebbiolo, uva di riferimento nel tempo affiancata dalle altrettanto autoctone Barbera e, talvolta, Freisa.

Riuscire a rendere esaustiva una lista di consigli per l’investimento è impresa ardua in Langa, dove si rischia facilmente di far torto a tanti produttori eccellenti con vigneti appartenenti alla medesima MGA e fisicamente confinanti con quelli di cantine più blasonate, vista la frammentazione delle parcelle soprattutto in quelle zone particolarmente vocate (qualche esempio: Asili, Pajè e Rabajà a Barbaresco, Cannubi a Barolo, Rocche dell’Annunziata e Cerequio a La Morra, Villero e Bricco Boschis a Castiglione Falletto, Mosconi, e Bussia a Monforte d’Alba, Vignarionda e Falletto a Serralunga o Ravera a Novello).

La grande varietà e conseguente frammentazione delle parcelle implicano anche produzioni molto limitate in quei vigneti dove l’unica lingua parlata è la qualità estrema e dove le rese sono volutamente ridotte per estrarre il massimo da ogni singolo acino.

Un riferimento per tale modo di operare è sicuramente Giacomo Conterno, padre di uno dei vini riserva più famosi al mondo, ovvero il Monfortino, ed in grado di produrre opera uniche dai propri cru di Arione, Francia e Cerretta. Non è un eufemismo dire che vi è la fila per avere i vini di Conterno, anzi forse sarebbe da dire che la fila è doppia, se non tripla considerato l’interesse del mercato verso tutti i vini di Conterno a partire dalla sua Barbera d’Alba. Le Langhe hanno vissuto vari periodi in cui generazioni familiari si sono succedute una dopo l’altra, spesso lasciando una propria impronta indelebile nella storia del territorio e dell’offerta vinicola: è questo il caso della cantina Gaja, dove la quarta generazione guidata da Angelo ha decisamente cambiato l’enologia delle Langhe attraverso importanti innovazioni che hanno portato l’intera produzione di questa cantina ai massimi livelli mondiali, tanto da essere continuamente ricercata e scambiata.

Ogni produttore storico attivo tra Barolo e Barbaresco è custode della storia e dell’eccellenza di queste terre, vocate a vino di qualità noto in tutto il mondo: menzionarne uno piuttosto che un altro è impresa ardua, avendo a disposizione un mix di campioni assoluti. Nomi come Luciano Sandrone, Vietti, Bartolo Mascarello, Roberto Voerzio, Elio Grasso, Rinaldi, Paolo Scavino, Domenico Clerico, Giuseppe Mascarello, Bruno Giacosa, Aldo Conterno, Lorenzo Accomasso, Roagna, G.D. Vajra, Cavallotto, Pio Cesare, Burlotto o Borgogno sono tutte cantine che, nell’arco degli anni, hanno prodotto vini straordinari e che ancora oggi vedono una domanda per le loro eccellenze superare, e non di poco, l’offerta, spesso sempre più contenuta.

Pregi tra i produttori piemontesi ve ne sono tanti, difetti…beh, forse la troppa scelta!

Concludiamo la nostra carrellata tra i vini più rappresentativi dello stivale con una zona all’interno della quale svettano due campioni assoluti in grado di domare al meglio un vino così importante come l’Amarone della Valpolicella: Giuseppe Quintarelli e Romano Dal Forno: da sempre oggetto dell’interesse di collezionisti ed anche investitori, questi due produttori, che nel tempo sono stati affiancati da altre eccellenze che prendono sempre più piede sul mercato, rimangono due alfieri ben rappresentativi di un territorio vario, vasto, dove il mix di uve e le tecniche di affinamento permettono la realizzazione di vini eccezionali, e non parliamo solo di Amarone bensì anche di Valpolicella Superiore e Recioto.

Come introdotto nella premessa, il territorio italiano è sicuramente complesso e l’elevatissima qualità media del vino prodotto non rende per nulla facile un riassunto schematico di quelli che riteniamo, per certi versi, i campioni nazionali.

La nostra narrazione non ambisce infatti ad essere esaustiva, anzi ci aspettiamo di aver tralasciato nomi blasonati, che confidiamo non ce ne vogliano, e di aver sorvolato su tante zone emergenti di sicuro interesse e potenziale.

Speriamo comunque che il lettore possa beneficiare di questo nostro intervento, confermando la perpetua disponibilità da parte del Team di Winefully ad analizzare e comprendere appieno necessità ed aspettative dei nostri clienti.

ALTRE NEWS

Quattro brindisi (in rosa) per la nostra estate

È uno dei trend di mercato degli ultimi anni: finalmente – diciamo noi – le bollicine rosate iniziano ad avere il successo che meritano; certo, siamo ancora lontanissimi dai grandi numeri dei bianchi – che forse rimarranno irraggiungibili – ma gradualmente i rosé stanno uscendo dalla nicchia, attirando un numero sempre maggiore di estimatori. Una delle ragioni di questo nuovo interesse risiede probabilmente nella versatilità: il panorama delle bolle rosate, infatti, è così variegato per carattere ed espressività (e anche fasce di prezzo) che è possibile trovare un rosé giusto per ogni circostanza. E così abbandonando una volta per tutte l’obsoleto cliché del “vino da donne” e abbracciando le tante sfaccettature di questa tipologia di vini, si scopre che uno spumante rosé può essere un ottimo vino a tutto pasto – di pesce ma anche di carne, con i giusti abbinamenti – e che d’estate quel mix seducente di struttura e morbidezza, in proporzioni variabili a seconda dei casi, può essere un rinfrescante antidoto al caldo afoso.

Calendario alla mano, quale momento più propizio di questo, dunque, per proporvi quattro eccellenti bollicine per accompagnare le vostre vacanze? Uberti – Francesco I Franciacorta Rosé Brut. La bollicina rosata di Uberti fa parte della linea dedicata a Francesco I, un omaggio al re francese che – secondo la tradizione – nel Cinquecento decise di sostenere la produzione di vini spumanti, fino a quel momento poco diffusi perché considerati “difettosi”.

È una cuvée di Chardonnay (60%) e Pinot Noir (40%) che, con il suo piacevole color rosa confetto dai riflessi aranciati, declina in rosa la filosofia territoriale della famiglia Uberti. Le uve sono raccolte manualmente, sottoposte a una rigorosa selezione, per poi attraversare percorsi di vinificazione differenti – il Pinot Noir, infatti, sosta per qualche giorno a contatto con le bucce – ed essere infine assemblati. Dopo il tiraggio, Francesco I Rosé trascorre un minimo di trenta mesi sui lieviti prima della sboccatura e altri sei mesi in bottiglia prima del rilascio al pubblico. Il risultato è una bollicina fruttata e di grande morbidezza, non priva di freschezza e mineralità e, per questo, di un’eleganza pulita e bilanciata, come sempre accade con i vini di Uberti.

Ci piace perché: è una bollicina versatile, capace di intercettare il gusto contemporaneo senza rinunciare al proprio carattere elegante e identitario. Un rosé dalla beva facile ma non banale, perfetto per uno spensierato aperitivo estivo o per accompagnare un’intera cena vista mare. Ferrari – Giulio Ferrari Riserva del Fondatore Rosé 2008. Presentata alla fine del 2020, l’annata 2008 del Giulio Ferrari Rosé è solo la terza rilasciata sul mercato di questa riserva anagraficamente giovane ma già considerata un’icona delle bollicine italiane rosate. Il rosé alla maniera di Ferrari esalta il Pinot Noir di montagna, che costituisce il 70% del blend e che, grazie all’affinamento di dieci anni sui lieviti, si fonde armoniosamente con lo Chardonnay, in una sintesi elegante e finissima delle migliori uve destinate alle riserve dell’azienda.

Color salmone con riflessi ramati e un perlage fine e persistente, l’annata 2008 trasmette una vibrante intensità da subito, grazie al suo bouquet olfattivo complesso, nel quale le note agrumate si fondono con quelle fruttate di fragola e tamarindo, accenni speziati e note minerali di iodio e calcare. L’assaggio è strutturato e potente e allo stesso tempo lungo ed equilibrato, guidato dal filo rosso della freschezza, che costituisce l’inconfondibile cifra stilistica di casa Ferrari.

Ci piace perché: per tutti coloro che amano la freschezza e la mineralità delle bollicine di montagna, ma anche la struttura del rosé, Giulio Ferrari Rosé è quasi la bottiglia perfetta, la quadratura del cerchio che armonizza con eleganza questi due mondi. Un Trentodoc di grande carattere, che sicuramente può essere il brillante compagno di un’intera cena a base di pesce; il nostro consiglio, però, è di osare e lasciarvi sorprendere da abbinamenti più insoliti. Non vi deluderà. Dom Pérignon – Rosé Vintage 2006. Un mito nel mito, se è possibile. Un grande vino che nasce da uve provenienti da alcuni dei più prestigiosi Grand Cru e Premier Cru della Champagne e che viene prodotto, naturalmente, solo nelle annate migliori. Protagonista assoluto, il Pinot Noir che, supportato dall’immancabile Chardonnay e parzialmente vinificato in rosso, dona a questa riserva la struttura tannica che la rende unica.

Più di dieci anni di affinamento sui lieviti nobilitano questo champagne, che la stessa maison ha definito “paradossale” per l’equilibrio che riesce a raggiungere tra poli opposti: maturità e giovinezza, essenzialità ed espressività.

Vincent Chaperon – Chef de Cave di Dom Pérignon dal 2019, dopo tanti anni passati al fianco del grande Richard Geoffroy – dice a proposito del Rosé e dell’annata 2006 in particolare: «Trasgredisce le regole e ci mostra sicuramente una doppia anima: quella tenace, che viene fuori grazie alla forza sorprendente del vino rosso fermo e quella leggiadra e armonica che ci riporta nel cuore della produzione della Champagne. Trovare questo equilibrio è sempre una sfida. Fare il Rosé ci proietta sempre in una situazione di pericolo. Che solo con l’assaggio, dopo un lungo affinamento in bottiglia, viene scongiurato».

Ci piace perché: come potrebbe non piacerci? Siamo al cospetto di un vero capolavoro, che offre un’esperienza sensoriale intensissima. Con crostacei e crudi di mare è pura sensualità ma il consiglio migliore arriva da Chaperon che suggerisce di assaggiare il Rosé Vintage 2006 con spirito sperimentale e assolutamente libero.

Da non dimenticare che questo champagne ha anche un grande potenziale di invecchiamento, per chi vorrà e saprà aspettare. Perrier-Jouët – Belle Epoque Rosé 2007. È un paradigma quando si parla di bollicine rosé per via dell’armonia e dell’espressività che sono la sua cifra distintiva e non a caso lo Chef de Cave di Perrier-Jouët, Hervé Deschamps, lo definisce «un vino delicato e al tempo stesso ricco e voluttuoso; intenso, generoso e vigoroso ma anche di grande finezza». Il Belle Epoque Rosé è un assemblaggio di uve Chardonnay, Pinot Noir e Pinot Meunier provenienti dai più blasonati cru della Champagne, affina sei anni sui lieviti e viene prodotto, come si confà a uno champagne così prestigioso, solo nelle annate eccezionali.

Dall’elegantissimo colore rosa antico e da un perlage finissimo e cremoso, è un rosé dalla personalità stravagante, nella quale gli aromi floreali e fruttati si intrecciano a note agrumate, di spezie e frutta secca. Al palato è fresco e vivace ma anche intenso e cremoso. Perfetta espressione dello stile raffinato che da sempre caratterizza la Maison.

Ci piace perché: anche in questo caso sarebbe impossibile il contrario. Il Belle Epoque Rosé è uno champagne prezioso che trasmette lo spirito gioioso e vitale di quella Belle Epoque a cui deve il nome e che, anche per questo, regala un’esperienza gustativa sensuale ed espressiva. È una di quelle bottiglie che non dovrebbe mai mancare in una cantina ideale.

E – sorprendentemente se si pensa alla sua complessità – è uno champagne molto versatile e in virtù di questo può essere protagonista di diversi abbinamenti, dai più classici ai più inaspettati, che non faranno altro che esaltare quel carattere stravagante di cui parlavamo.

Redazione 10.08.2021

Speciale bollicine Ferrari

Il perlage del Trento Doc firmato dalla famiglia Lunelli incontra ricette a base di pesce perfette per l’estate (e per tutto l’anno).

Una cena in terrazza, un aperitivo in spiaggia o a bordo piscina, un pranzo con il mare sullo sfondo. E ancora, una buona compagnia e un menu a base di pesce, crostacei e molluschi: ecco il necessario per mettere su una situazione ideale in questi mesi estivi, tanto in città quanto in vacanza. A completare il tutto non mancano che delle “bolle” ben fresche, che accompagnino le portate e la conversazione.

Diversificata ma accomunata dalla grande attenzione alla qualità (e all’ambiente) e da una cifra stilistica incentrata sull’eleganza, la produzione trentina di Cantine Ferrari – l’azienda ultracentenaria creata da Giulio Ferrari e acquisita nel 1952 da Bruno Lunelli, oggi guidata dai nipoti Marcello, Matteo, Camilla e Alessandro – offre una gamma di etichette che permette di stappare e brindare a tutto pasto, realizzate con le uve Chardonnay e Pinot Noir dei vigneti trentini, secondo il disciplinare del Trento DOC che segue il metodo classico. Il Riserva Lunelli – Blanc de Blanc Extra Brut rotondo e dal bouquet complesso, tra gli ultimi nati in casa Ferrari – è un ottimo avvio per sciogliere il ghiaccio e accompagnare qualche assaggio iniziale, magari in versione finger food: dal classico e sempre buonissimo pane con burro e acciughe agli originali “crostini” di croccante pane carasau conditi con un’insalata di muggine, sedano e patate (o anche con la sapida bottarga, sempre smussata dalle patate).

Il sapore iodato ma con tendenza dolce delle cozze – cucinate al vapore e insaporite appena da olio extravergine, poco vino bianco e prezzemolo, con al massimo qualche goccia di limone – viene esaltato dal profilo avvolgente ma molto equilibrato e armonico della Gran Cuvée millesimata, nonché dal suo perlage fine e persistente, con sentori floreali e fruttati bilanciati da spezie e frutta secca. Disponibile solo in grandi formati, è una bottiglia da aprire con una compagnia (giustamente) numerosa e ideale anche per accompagnare primi piatti con delicati sughi a base di crostacei.

Caratterizzato da un naso vibrante di note agrumate e speziate e da un sorso che è insieme morbido, fresco e minerale, il Giulio Ferrari Riserva del Fondatore Rosé , realizzata con il 70% di Pinot Noir ad affiancare lo Chardonnay, è ideale per accompagnare tanto una croccante frittura di pesce quanto un sontuoso “cuoccio” (pesce cappone o gallinella di mare) cucinato all’acqua pazza secondo l’antica tradizione dei pescatori campani. Cotto in un tegame da forno con olio, aglio tritato e pomodori, ricoperto d’acqua e con abbondante aggiunta di prezzemolo a fine cottura, è un piatto saporito ma delicato la cui sapidità marina viene esaltata alla perfezione dall’eleganza delle bollicine.

– Luciana Squadrilli 15.07.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

Venissa e il senso profondo della sostenibilità

Matteo Bisol, insieme al padre Gianluca, gestisce l’universo Venissa in tutte le sue espressioni. Parlare con lui significa indagare una parola oggi spesso abusata, a volte sfruttata, sempre di tendenza, ma quasi mai esplorata nella sua accezione più profonda. Sostenibilità. Con Matteo scopriamo che in fondo il concetto è lineare e risponde a una semplice domanda: la terra che abitiamo ha le risorse per sostenere il nostro progetto? Stiamo arricchendo il territorio, o gravando su di esso?

Ciao Matteo, per parlare del mondo Venissa e dei suoi equilibri, potremmo partire dalla vendemmia che ha seguito la grande acqua alta di due anni fa. Un episodio specifico che, però, presenta una serie di elementi peculiari del mondo lagunare tout court.

Tu sei stato da Venissa proprio nel novembre del 2019, il mese della grande acqua alta. Quello è stato un evento che ci ha fatto preoccupare molto, perché l’acqua ha raggiunto livelli record, simili a quelli che cinquant’anni fa avevano dato un durissimo colpo alla viticoltura in laguna. Poi fino ad aprile, quando è ripartita la vigna, non abbiamo avuto modo di capire come stessero le cose, perché durante la fase invernale non puoi sapere se le viti siano sopravvissute o meno. Quindi sono stati mesi di grande apprensione, e in primavera è stato poi un sollievo veder ripartire le piante. Una dimostrazione di come la vite in generale, e la Dorona nello specifico, sappia adeguarsi a ogni tipo di condizione. È la magia di questo vitigno, che si è saputo adattare al clima, al terreno, a tanti fenomeni tipicamente lagunari. Credo che questo rappresenti anche il senso più profondo di Venezia e del suo mondo. Un continuo adattarsi dell’uomo alla natura, che porta a qualcosa di meraviglioso.

Come è stata la vendemmia del 2020, che ha seguito l’acqua alta di cui hai raccontato?

Per noi è stata letteralmente la miglior vendemmia di sempre. Il tema da sciogliere è quello degli effetti del sale nella coltivazione dell’uva. Se andiamo a vedere le analisi, non ritroviamo un livello di sodio differente da quello di vini prodotti in altri luoghi. Questo perché la vite non ha un buon rapporto con il sale, e quindi tende a non assumerlo, lo lascia nel terreno. Quindi non esiste una trasposizione diretta del sodio nel vino. Quello che invece esiste è una trasposizione indiretta dello stesso, nel senso che la quantità di sale presente nel terreno diminuisce la vigoria e la quantità di uva prodotta. L’effetto è simile a quello di tanti terreni calcarei, o gessosi. Terreni difficili, non fertili, non generosi, che in qualche modo mettono in difficoltà la pianta. Questa condizione di difficoltà permette di fare una produzione limitata, e di arrivare a vini con più carattere, e più complessità. Nel 2020, dopo l’acqua alta, è successo proprio questo. E chissà quante altre cose scopriremo. Noi abbiamo iniziato meno di vent’anni fa, un tempo brevissimo nel mondo del vino. Il vigneto ha quindici anni, e solo negli ultimi tempi ha iniziato a esprimersi nella sua fase adulta. È ancora un vigneto giovane. Noi stessi stiamo cercando di capire come esprimere tutto il suo potenziale, e lo possiamo fare solo di anno in anno, aspettando i tempi della natura.

Parlando di Dorona, come è nata la vostra storia con questo vitigno?

Nel 2002 mio padre ha trovato le prime piante. Con un barchino, e una bicicletta a bordo, giravamo tra le isole meno conosciute, in cerca degli ultimi contadini attivi nella coltivazione di varietà quasi scomparse. Abbiamo trovato un’ottantina di piante e abbiamo piantato il vigneto di Venissa, sull’isola di Mazzorbo. Abbiamo scelto un’area che è sempre stata dedicata all’agricoltura, e alla viticoltura in particolare. Stiamo parlando di terreni difficili, e siamo rimasti sorpresi dalla capacità della Dorona di portare a vini di grande armonia e finezza.

Equilibrio e finezza. È questa, dunque, la cifra stilistica dei vini di Venissa?

Sì, direi di sì, sono proprio queste le caratteristiche principe dei nostri vini. Lo stesso equilibrio che la varietà vive in relazione con il suo ambiente, lo ritroviamo nel bicchiere. Io credo in generale che i grandi vini non siano semplicemente frutto di un terroir, ma dell’equilibrio tra il terroir, il vitigno e l’uomo che ha imparato a far dialogare queste componenti.

E cosa ci dici di Venissa 2016 nello specifico?

Guarda, forse direi che è l’annata migliore del decennio. Sicuramente superiore alla 2015, in termini di freschezza innanzitutto. È anche più elegante. Siamo davvero molto soddisfatti. E siamo rimasti colpiti da come il vigneto, anno dopo anno, abbia saputo adattarsi al contesto ambientale. Più gli anni passano, più le viti entrano in simbiosi con la natura che le circonda, e meno hanno bisogno del nostro intervento. Pensa che in certi punti della vigna si trovano un sacco di piante tipicamente lagunari, come la salicornia. In altre zone leggermente più alte, stiamo parlando di qualche decina di centimetri, ne vedi spuntare di altri tipi. Come i papaveri, ad esempio. E poi tanti insetti e altri animali come anatre, aironi, colibrì. E tutto naturalmente dialoga con il resto del contesto. Questo nasce da una scelta ragionata. A Venissa abbiamo deciso di contenere la superficie dedicata alla vigna per lasciare spazio ad alberi, prati, orti. Per noi era un punto imprescindibile.

Parliamo invece del mondo dei rossi. Rosso Venissa ha una storia differente, e anche dal punto di vista geografico nasce su un’altra isola, corretto?

Sì, è vero, stiamo parlando dell’isola di Santa Cristina. Un’isola unica, che si trova in una zona della laguna difficilissima da raggiungere. In questo caso davvero si può parlare di viticoltura eroica, perché abbiamo grossissime difficoltà nel lavorare quella vigna. Intanto perché non tutte le barche possono raggiungere l’isola. Non ci sono canali, quindi chi conduce la barca deve sapere esattamente dove andare, per non rimanere “in secca”. In più, l’isola si può raggiungere solo in condizioni di alta marea, quindi tutte le lavorazioni sono scandite dalle maree, di fatto.

Cosa c’è sull’isola? È abitata?

Di base non ci abita nessuno. L’idea di René, proprietario dell’isola e discendente della famiglia Swarovski, era quella di creare una sorta di ashram per esperienze di meditazione. Ci sono orti, animali, e una grossa parte di peschiera, con tantissimi pesci come orate e branzini. È davvero un ecosistema a sé. Sono trenta ettari, se non sbaglio, di cui quindici sono acqua. Mentre il vigneto è di tre ettari. Abbiamo principalmente Merlot, che in Veneto è un vitigno molto diffuso da diversi secoli, e poi c’è un 20% di Cabernet Sauvignon. Lì, fortunatamente, non abbiamo il problema dell’acqua alta, perché l’isola è leggermente rialzata e circondata da argini in pietra.

Tra l’altro l’isola di Santa Cristina ha una storia antichissima

Sì, è l’unica isola rimasta di quello che era l’arcipelago di Ammiana, scomparso da secoli. Rappresentava, insieme a Torcello, uno dei primi insediamenti della Venezia romana, dove di fatto è nata Venezia. Sono luoghi di grande storia.

Quali risultati state ottenendo con Rosso Venissa? Quali sono le sue caratteristiche salienti?

Siamo contenti dei risultati che stiamo avendo. Ad oggi la salinità e la mineralità tipiche della Laguna ci salvano dal clima caldo. Io non credo che in generale l’Italia sia la terra adatta per produrre grandi Merlot. Masseto, ad esempio, fa eccezione proprio perché nasce da terreni con una salinità molto elevata. Anche loro, come noi, spesso hanno piante che soffrono e muoiono a causa della tossicità del sale. L’agronomo con cui lavoriamo segue anche loro, e ci ha più volte confermato che esistono tante similarità tra i due vigneti, pur trovandosi in zone completamente diverse. Perché il clima della Laguna di Venezia è più simile a quello della Toscana, piuttosto che al clima Veneto. È un clima che, per temperature medie e precipitazioni, ci porta più a sud.

Come evolverà Rosso Venissa, e con quali tempi?

Guarda, è proprio questo il punto del nostro lavoro, il tempo. Si tratta di processi lunghi, servono anni per capire il potenziale espressivo dei due vitigni. Arrivare al vino che abbiamo in testa richiede pazienza. Se vuoi da qui deriva un po’ anche il bello del nostro lavoro: il vino che hai in testa oggi, è un’evoluzione di quello che stai mettendo sul mercato. Con il Rosso stiamo proponendo la 2012, che è splendida, e nel frattempo ci sono state evoluzioni, noi stessi siamo cambiati. Io credo che si possa lavorare ancora per trovare la massima espressione del Merlot, e questo mi dà grande speranza. Perché oggi siamo già arrivati a un punto molto interessante, e l’idea che ci sia ancora tanta strada da fare fa ben sperare per il futuro.

di Graziano Nani 15.06.2021

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Non si è mai troppo dolci

Chi lo ha detto che passiti e muffati possano accompagnare solo i dessert? Ecco qualche idea diversa per abbinamenti salati.

Il bianco con il pesce, il rosso con la carne e il vino dolce a fine pasto: queste erano, fino a pochi anni fa, le regole canoniche degli abbinamenti tra cibo e vino, sempre più spesso superate dalle indicazioni dei sommelier meno ingessati e dalle evidenti dimostrazioni di gusto. Quella di relegare i vini dolci e liquorosi al momento del dessert, però, resta la più difficile da scardinare, con l’eccezione del mondo dei formaggi che – in particolare per quanto riguarda erborinati e formaggi cremosi a pasta fiorita – trovano da sempre eccellenti compagni in questi calici.

Anche se è innegabile che in linea generale l’abbinamento dolce/dolce funzioni, guardando magari alle cucine lontane dalle nostre – dove l’agrodolce è un concetto piuttosto diffuso – si può trovare qualche idea diversa per bere ottime bottiglie di questa tipologia anche con cibi salati. Di certo non a tutto pasto ma piuttosto con un’entrata a sorpresa nel menu, e avendo cura di servirli alla temperatura giusta: con il freddo, infatti, le percezioni cambiano notevolmente e questo aiuta ad ammorbidire la sensazione di dolcezza e di alcolicità di questi vini. Così ad esempio, servendolo intorno ai 12°C, anche l’esplosiva dolcezza (comunque mai stucchevole) dell’Epokale Gewurztraminer Spätlese di Cantina Tramin – forgiata nei suoi profumi speziati e di frutta esotica da sette anni di riposo in una grotta situata a 2000 metri d’altezza e 450 sotto la montagna – potrà accompagnare in modo sicuramente non banale un’anguilla laccata alla giapponese, con il grasso della carne e l’equilibrata dolcezza della laccatura bilanciata dall’inattesa freschezza ed eleganza del vino.

Restando su abbinamenti più territoriali, un Recioto della Valpolicella Classico (in questo caso non eccessivamente freddo, sui 14°C) come quello “A Roberto” di Quintarelli, con le sue note vellutate e avvolgenti di frutti rossi sotto spirito, potrebbe ben accompagnare un tradizionale cinghiale al cacao o in salmì – a esaltare i profumi di cannella e altre spezie – ma pure una guancia di maialino cotta a bassa temperatura in salsa di cioccolato fondente. Guardiamo invece al confine tra Francia e Germania, e in particolare all’Alsazia, per proporre un abbinamento decisamente fuori dai canoni con un vino unico che nasce in un’altra terra di frontiera: l’8’9’10 di Gravner – Ribolla gialla da uve botritizzate, fermentata in anfora e affinata almeno 48 mesi in piccole botti di rovere – tra i 10° e i 12°C può accompagnare non solo formaggi stagionati e particolarmente intensi come l’eccellente Jamar friulano ma anche una Baeckeoffe, tipica casseruola al forno della regione francese in cui la carne viene marinata nel vino e poi cotta nel forno con cipolle e patate in una pentola sigillata con l’impasto del pane.

Azzardando ancora di più, potrebbe essere una bella sfida – ideale anche per la stagione estiva, sempre tenendo d’occhio la temperatura di servizio che in questo caso dovrebbe essere di circa 14°C– quella di proporre il Vin Santo Occhio di Pernice di Avignonesi, con il suo complesso profilo aromatico che ricorda datteri, fichi secchi, amarene e agrumi canditi, con una soffice pizza condita con prosciutto (o ancora meglio, culatello) e fichi, invece dei soliti cantucci. Mentre in inverno, anche con qualche grado in più, una scaloppa di foie gras di certo non lascerà deluso nessuno. Fegato grasso in terrina e formaggi erborinati – come un Roquefort o un Bleu d’Auvergne, per restare in Francia, ma anche un Blue Stilton inglese o un italianissimo Gorgonzola – sono abbinamenti ben collaudati anche per l’immenso Château d’Yquem, con le sue sfumature affascinanti di frutta essiccata e candita, miele e spezie. Noi però vogliamo divertirci a proporvi un abbinamento decisamente più insolito, mediterraneo ed estivo affiancando a un calice ben freddo (intorno ai 7°C) un delizioso cocktail di scampi o di gamberi con un salsa rosa realizzata a dovere.

– Luciana Squadrilli 04.06.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

I vini iper-territoriali di Fabio Tassi

Fare la conoscenza di Fabio Tassi significa prima di tutto incontrare un uomo profondamente innamorato di Montalcino e della sua famiglia. Un sentimento che traspare da ognuna delle sue attività – tanto quelle ricettive quanto la cantina – e che dimostra come si possa trovare un perfetto equilibrio fra il rispetto del passato e della tradizione e uno spirito imprenditoriale solidamente contemporaneo.

Lei è un imprenditore molto attivo a Montalcino da diversi anni, quasi una sorta di ambasciatore ormai dell’enorme bellezza di questi luoghi. Ci racconta il suo percorso?

Parto dalla vicenda di mio nonno materno, perché tutto è iniziato grazie al suo carattere intraprendente. Lui è nato e cresciuto al Greppo – i suoi genitori erano mezzadri lì – ma appena ha potuto, è andato alla ricerca della sua strada. Quando ha scoperto l’apicoltura se ne è innamorato, imparando il mestiere completamente da autodidatta e portando la pratica a Montalcino, che poi nel tempo è diventata uno dei luoghi di riferimento in Italia per la produzione di miele. Ha trasmesso poi questa passione al resto della famiglia: a mia mamma, a mio zio e in seguito anche a mio padre. L’apicoltura e il miele sono stati la loro attività principale per tanti anni, anche se poi c’erano le altre attività collaterali legate al territorio. Io vengo da questa storia: da ragazzo mi sono iscritto a Giurisprudenza ma in pratica non ho nemmeno iniziato il corso perché già sapevo di voler lavorare in azienda.

E poi è arrivata la Drogheria Franci.

Esatto. Verso la fine degli anni Ottanta c’è stato il boom dell’enoturismo, ero giovane, avevo voglia di fare e ho iniziato a vendere vino, miele naturalmente ed eccellenze del territorio. Abbiamo aperto la Drogheria nel 1993, dandole il nome della famiglia di mia madre. All’inizio eravamo solo io e mia nonna in uno spazio abbastanza piccolo, al piano terra della nostra casa. Poi, con gli anni, la drogheria è cresciuta, diventando, infine, ristorante e locanda. Oggi ci sono tre bellissime camere, arredate con molta cura. È una trasformazione di cui sono molto contento perché lo trovo un bel modo di tenere vivo il ricordo dei nonni.

A questa attività, nel 2001 si è aggiunta la gestione dell’Enoteca della Fortezza. Non c’è nemmeno bisogno di raccontare la bellezza di questo posto, per me è stata ed è una grandissima gioia lavorare lì.

La produzione di vino a che punto è arrivata? Era un obiettivo che aveva in mente da sempre?

È stata più che altro un’evoluzione naturale, quando nel 2000 abbiamo avuto la possibilità di avere, in quanto coltivatori e apicoltori, un ettaro di Brunello e mezzo di Rosso. A quel punto, siccome gli altri nostri terreni avevano esposizioni molto a nord e molto in alto, abbiamo iniziato a cercare qualcos’altro di più adatto al Brunello. E con l’aiuto del mio grande amico Beppe Bianchini di Ciacci Piccolomini abbiamo individuato tre bellissimi ettari sotto il Castello della Velona e così abbiamo iniziato. Il 2004 è stato l’anno della prima vendemmia. In questo vigneto – che definirei “moderno”, con cloni di nuova generazione e molto fitto – adesso produciamo il cru Giuseppe Tassi (un omaggio a mio padre) e il nostro Brunello base.

Sempre nel 2004 abbiamo iniziato a imbottigliare il vino proveniente da una vecchia vigna di mio nonno, la Vigna Franci.

Siete abbastanza giovani come cantina, dunque, ma possiamo tentare un bilancio di questi vent’anni. Come siete cresciuti?

Di certo sono molto cambiato io per primo, perché ho più esperienza – quando ho iniziato ero un appassionato e un conoscitore ma non avevo sufficiente competenza per potermi occupare della produzione, perciò l’enologo aveva molto più spazio – e poi perché col tempo sono cambiati i gusti e le idee. È naturale che sia così.

L’importantissima storia del Brunello va salvaguardata, anche attraverso il rispetto del disciplinare, ma è evidente che i tempi sono cambiati: se vent’anni fa si cercavano vini molto potenti, molto strutturati, molto concentrati, ora si cerca maggiormente l’eleganza e la finezza. Progressivamente anche la mia testa si è spostata in questa direzione: più passa il tempo più cerco vini che siano “naturali”, con pochissime trasformazioni, dove la mano dell’uomo si sente il meno possibile e quello che emerge sono la vigna, l’annata e il suo andamento. Oggi per arrivare ad avere dei vini così – sempre più di territorio – sono disposto a correre più rischi che in passato.

Se questi vini raccontano il territorio, qual è la lingua comune che parlano?

In realtà, cerco sempre di differenziare molto i vini, proprio per far venire fuori il carattere del luogo. Noi ci siamo ma non dobbiamo essere invadenti, dobbiamo accompagnare il vino. È proprio per valorizzare al massimo le singole vigne che i nostri Brunelli sono quattro e sono lavorati separatamente fino all’imbottigliamento. E in prospettiva, vorrei marcare ancora di più queste differenze. Per assurdo, il tratto comune dei miei quattro Brunelli è che sono tutti diversi fra loro e sempre anche un po’ da se stessi, perché il loro carattere finale dipende molto dall’andamento dell’annata.

Vorrei applicare questa idea anche al Rosso di Montalcino: sto pensando di farne almeno due e non più uno solo. Credo che sia importante valorizzare l’identità di territorio anche di un vino come il Rosso, più fragrante, con un frutto più presente e che, per questo, intercetta un pubblico diverso rispetto al Brunello. Mi piacerebbe che il Rosso di Montalcino fosse considerato non un secondo vino ma l’altra faccia del Sangiovese di Montalcino.

Per quanto riguarda il Brunello, l’ultimo nato è il Colombaio, giusto?

Sì, abbiamo acquisito la vigna nel 2016. Vigna Colombaio si trova vicinissima all’Abbazia di Sant’Antimo, in mezzo al bosco, è un posto di una bellezza straordinaria; vorrei che chi beve questo Brunello venisse almeno una volta a visitarlo perché è davvero un’esperienza che fa entrare nel vino in profondità. È un luogo che non smette di meravigliarmi, ma devo dire che alla bellezza di Montalcino, di ogni suo angolo, è impossibile abituarsi. Io stesso, che ho sempre abitato qui, continuo a stupirmi ogni giorno.

Qualsiasi aggettivo, in effetti, è scontato quando si parla del vostro territorio. La cosa che mi colpisce sempre è la luce, che è bellissima sempre in tutte le stagioni, a tutte le ore.

È una delle caratteristiche speciali del luogo, credo che sia una delle cose che qui fa la differenza, proprio in termini qualitativi per il vino, come anche la presenza costante del vento, che aiuta a ridurre tantissimo i trattamenti perché ostacola l’umidità. Questo è un territorio straordinariamente vocato, lo è da sempre, ce lo dice anche la storia. Dobbiamo solo essere bravi ad assecondarlo e onesti nel tutelarlo.

Abbiamo l’obbligo morale di salvaguardare quello che le generazioni precedenti ci hanno lasciato così integro e intatto. È un patrimonio di tutti di cui dobbiamo avere cura.

La scelta del biologico mi sembra inevitabile in questa visione.

Infatti. Noi siamo sempre stati biologici, perché in vigna abbiamo sempre utilizzato solo zolfo e rame. Quando ho iniziato, eravamo in pochi tutto sommato a lavorare in biologico, ma mi è sembrata la scelta più naturale che potessi fare, quindi non ho mai nemmeno sentito il bisogno di schierarmi. Poi nel 2013 abbiamo preso la decisione di ufficializzare, ma nella pratica non è cambiato nulla.

Credo che non abbracciare il biologico a Montalcino sia un controsenso, come prendere le medicine, pur essendo sani.

Una curiosità dato che stiamo parlando di biologico e territorio: continuate anche oggi a lavorare con le api?

Sì ma ho ridotto esponenzialmente, prima l’azienda era piuttosto grossa, avevamo tantissime api e praticavamo il nomadismo. Adesso le teniamo solo dove ci sono le vigne e abbiamo una piccola produzione di miele millefiori. Ci tengo a portarla avanti anche se su scala ridotta, da un lato per una questione di equilibrio dell’habitat, e dall’altro per una questione affettiva: l’amore di mio nonno per le api era grandissimo e davvero contagioso.

Lei per vocazione è un curioso, ha intenzione di sperimentare, uscendo dall’imprescindibile binomio Brunello – Rosso di Montalcino?

In realtà lo sto già facendo, nel 2018, dopo un viaggio in Borgogna, ho deciso di sperimentare con l’anfora. Ho iniziato con una da 800 litri, usando lo stesso Sangiovese del cru Giuseppe Tassi, con 15% di grappolo intero e lunghissima macerazione. Dopo tre mesi lo abbiamo svinato e rimesso in anfora fino a settembre 2019. È stato commercializzato a gennaio 2020 con il nome di Brunò: un Brunello no, insomma.

All’inizio in tanti qui mi prendevano in giro ma una volta assaggiato hanno cambiato idea. Sono molto contento perché è piaciuto molto e perché per me è stato un esperimento molto interessante. E alla fine, ho deciso di prendere altre due anfore per continuare.

Poi ho tante altre idee in testa: ho piantato vicino a casa, su un terreno acquistato quattro anni fa, una vigna ad alberello e qui vedremo che cosa succederà. Poi c’è un terreno in alto a cui sono molto affezionato perché era uno dei posti preferiti di mio nonno e lì sto pensando di piantare un Trebbiano, perché in futuro vorrei cimentarmi con un bianco.

Il ricordo dei suoi nonni è ritornato molte volte nel corso di questa chiacchierata.

Sono legatissimo alla mia famiglia. Più passano gli anni e più capisco l’importanza di quello che hanno fatto i miei nonni, è il loro lavoro che mi ha dato l’opportunità di essere qui ora.

Il mondo va avanti e cambia ed è giusto così e a me piace guadare sempre avanti ma mi piace anche mantenere una connessione forte con la nostra storia e sono molto felice che le mie figlie, pur abitando a Milano, siano legate a Montalcino. Stanno entrando anche loro nell’azienda di famiglia e non potrei desiderare di meglio.

Questo rapporto così stretto con la famiglia e con le radici mi sembra che sia un tassello importante del suo impegno per il territorio.

Sì, credo di sì. Va da sé che ritengo importante assecondare il business ma senza stravolgere quello che c’è. Nel nostro lavoro bisogna procedere con molta lentezza e avere pazienza, assecondando quello che viene; per esempio, quest’anno c’è stata una grossa gelata e io stesso ho subito molti danni, ma bisogna accettarlo e guardare oltre, senza cedere a soluzioni facili. Giulio Gambelli ripeteva spesso che se un anno è andato male, vorrà semplicemente dire che il prossimo andrà meglio. Non c’è molto da aggiungere. Mi ritengo già fortunato a vivere qua, non voglio cercare scorciatoie e voglio lavorare con trasparenza. Tutti noi siamo credibili solo se abbiamo l’onestà intellettuale di produrre un vino pulito, ben fatto e di territorio.

Il Brunello Riserva Franci 2015 ha ottenuto i 100 punti da James Suckling. Che impatto ha avuto sulla percezione della vostra azienda questo riconoscimento?

Per prima cosa siamo molto fieri, perché Suckling è un grande esperto di vini di Montalcino e per questo territorio ha fatto moltissimo. E del resto ha ricevuto la cittadinanza onoraria non a caso!

È stato molto importante per noi perché i 100 punti alla Riserva hanno supportato un’annata che, nel suo insieme, ha ricevuto buonissimi punteggi da tutti i critici. Si è trattato di una sorta di coronamento della qualità del nostro lavoro in tutte le sue declinazioni. Nella percezione esterna ha certamente avuto un impatto positivo perché ha aumentato la nostra credibilità: la nostra è una realtà abbastanza giovane, ricevere riconoscimenti così prestigiosi vuol dire che siamo giovani ma solidi e che stiamo facendo un lavoro serio.

Redazione 18.05.2021

Vini di vulcano: un viaggio verso il centro della terra

L’Italia, nella sua estrema ricchezza in termini di biodiversità, presenta un mosaico complesso anche per quanto riguarda i vini da terreni vulcanici. Se di primo acchito, infatti, il pensiero va subito ai più grandi vulcani attivi come Etna e Vesuvio, la verità è che la mappa è ben più variegata. Basti pensare alla zona di Soave, conosciuta per la produzione di vini bianchi. Garganega e Trebbiano di Soave, i principali vitigni, raggiungono i propri vertici qualitativi anche grazie ai terreni di matrice vulcanica che caratterizzano queste terre. Lo stesso vale per la denominazione Lessini Durello, posizionata tra le colline a nord delle provincie di Verona e Vicenza, dove l’impronta dei suoli tufacei permette alla Durella di esprimersi in modo unico soprattutto negli spumanti. Gambellara e Colli Euganei sono altre due denominazioni dove il timbro vulcanico guida lo stile dei vini più importanti, e anche allontanandoci dal Veneto non mancano le zone caratterizzate in questo senso. Tra queste l’area intorno a Orvieto, quella di Montefiascone, nell’Alta Tuscia, o la doc Bianco di Pitigliano, nella Maremma toscana. E ancora i Campi Flegrei vicino a Napoli, Ischia e gli arcipelaghi della Sicilia.

Difficile, in un collage così composito, tracciare delle direttrici univoche, tuttavia i vini di vulcano tratteggiano alcune inclinazioni che in qualche modo li accomunano. Come evidenzia John Szabo nel suo libro “Volcanic Wines”, la tendenza sembra essere quella di mettere in evidenza maggiormente il corredo di durezze rispetto a quello delle morbidezze.

Grande freschezza, dunque, spiccata sapidità, e notevole mineralità, che si esprime ad esempio con sentori di pietra focaia. Quasi come se il vino fosse proteso nello sforzo di raccontare i vulcani da cui nasce, le loro rocce e la loro natura: collegare il mondo agli strati più profondi del pianeta.

Tra le zone vulcaniche l’Etna rappresenta certamente il caso più emblematico, sia per la ricchezza di stili ed espressioni, sia per l’attenzione che ha ricevuto negli ultimi vent’anni. Intanto è importante sottolineare che non esiste un Etna ma tanti Etna. Non solo la zona si distingue dal resto della Sicilia per clima e condizioni generali; le differenze sono notevoli anche tra le diverse aree del vulcano, con svariati fattori a incidere sulle loro caratteristiche tra cui altimetria e vicinanza al mare. Come minimo è utile suddividere l’Etna nei suoi tre versanti principali. Il versante Sud, punteggiato da vigneti che in certe contrade arrivano a superare i 1.000 metri di altitudine. Il versante Nord, dove nascono i rossi più noti, tra cui quelli prodotti con il nobile Nerello Mascalese. E il versante Est, affacciato sullo Ionio, dove prospera il Carricante e nascono i migliori bianchi dell’Etna, caratterizzati da un intreccio sorprendente di finezza e freschezza.

Uno dei nomi di spicco per la riscoperta dell’Etna è quello di Salvo Foti, grande esperto e conoscitore della zona, autore di diversi libri tra cui “Etna, i vini del vulcano”, “La Sicilia del Vino” e “La Montagna di fuoco”. Alla fine degli anni Novanta è proprio Foti, insieme a Giuseppe Benanti, a far esplodere la riscoperta dell’Etna vinicolo con Pietra Marina.

Un vino iconico, che nasce da uve Carricante e che con la versione 1999 innesca una vera e propria rivoluzione. La reazione della critica enologica infatti è unanime: Pietra Marina ottiene i massimi riconoscimenti e catalizza l’attenzione intorno al vulcano più alto d’Europa. Il livello eccellente si conferma con il passare degli anni e il vino di punta di casa Benanti continua a toccare vertici di qualità assoluta fino ad arrivare ai nostri giorni. Pietra Marina nasce nel comune di Milo, in Contrada Rinazzo, caratterizzata da un’eccellente esposizione, una ventilazione ottimale e un’altitudine di 800 metri sul livello del mare. Da qui le importanti escursioni termiche, ideali soprattutto per la coltivazione dei vitigni a bacca bianca. Il mare è poco distante, per questo qui piove di più. I terreni, naturalmente di matrice vulcanica, hanno conformazione sabbiosa e si caratterizzano per la ricchezza di sostanza minerali. Le viti, allevate ad alberello, arrivano fino a novant’anni di età.

Pietra Marina trascorre almeno 24 mesi sulle proprie fecce nobili in acciaio, con frequenti bâtonnages, seguiti da 12 mesi di bottiglia. Nella versione 2016, prima ancora che l’olfatto, colpisce lo sguardo con una splendida luminosità. Il naso apre elegante con un intreccio di fiori bianchi, agrumi e mela verde. Al palato i sentori sono freschi, tesi, affilati. Iodio, ribes, poi la conferma degli agrumi con sensazioni di limone e cedro. La sapidità guida un allungo che si mostra sorprendentemente dinamico, con la succosità sferzante che si alterna ai sentori minerali di pietra focaia. Uno slancio gustativo dove l’immediatezza del sorso cede il passo a una complessità affascinante, una profondità tutta da scoprire. La stessa profondità che contraddistingue questa terra, il vulcano, testimonianza terrestre di quanto si possa andare oltre la superficie per esplorare strati sempre più nascosti. Come in un viaggio verso il centro della terra.

di Graziano Nani 04.05.2021

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Tenuta Guado al Tasso: come nasce un’eccellenza

Guado al Tasso è tenuta dalla storia antica che si è profondamente reinventata a partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, diventando una delle realtà più preziose e stimate della prestigiosa DOC di Bolgheri. I suoi vini sono sinonimo di pura eccellenza, amatissimi in Italia e all’estero. Abbiamo chiesto a Marco Ferrarese, che della tenuta è direttore ed enologo, di guidarci alla scoperta della sua storia e della genesi delle sue etichette.

Partirei dal contesto ambientale di Guado al Tasso che, oltre ad essere di una bellezza speciale, è anche estremamente peculiare per quanto riguarda la composizione del terreno e l’esposizione delle vigne. Ce lo può raccontare e ci può spiegare che impronta conferisce ai vini della tenuta?

Tenuta Guado al Tasso ha la peculiarità di abbracciare tutta la variabilità di suoli che questo territorio presenta e che di fatto costituisce una delle sue caratteristiche più importanti. I vigneti si compongono di tre corpi principali: il più importante è quello che si estende a partire dalle pendici delle colline e che si trova in posizione centrale rispetto all’Anfiteatro Bolgherese (così viene chiamata la splendida piana circondata da colline), a metà distanza tra Bolgheri e Castagneto Carducci. È inoltre il luogo dove si trovano gli uffici amministrativi e le cantine. Abbiamo poi alcuni vigneti a nord della DOC vicino al paese di Bolgheri e a sud, sotto la Torre di Donoratico presso Castagneto Carducci.

I nostri ettari vitati sono costituiti da un mosaico di tante parcelle di vigneto diverse, ognuna delle quali suddivisa in base alla destinazione enologica, la quale è strettamente legata alle caratteristiche del suolo, all’omogeneità dello stesso, all’esposizione, all’età delle piante e infine all’esperienza maturata negli anni di vinificazione di quelle uve, che è forse la cosa più rilevante. Ciò fa sì che in ogni parcella di vigneto sia coltivata quella che secondo la nostra esperienza è la varietà che, in quella determinata parcella, è in grado di esprimersi al meglio.

Tutto questo ci aiuta a donare a ciascuno dei nostri vini un proprio stile e una personalità che si ripete negli anni, con le dovute sfumature legate all’annata, e che li rende in qualche modo riconoscibili.

Antinori rappresenta qualcosa di unico nel contesto italiano del vino, sia per la lunga storia che ha alle spalle, sia per il patrimonio enologico rappresentato dalle sue tenute.
 Cosa significa fare parte di una realtà di questo tipo, dove c’è una forte e coerente visione imprenditoriale d’insieme ma allo stesso tempo ogni tenuta ha una chiara e indiscutibile identità? Come si coniuga la singolarità di un progetto con la cornice d’insieme?

Marchesi Antinori è una realtà senza dubbio unica, dove ogni tecnico, pur dedicandosi alla propria tenuta di riferimento, ha l’opportunità di confrontarsi costantemente con tutti gli altri. Così come nelle tenute storiche, di cui fa parte Tenuta Guado al Tasso, anche nelle realtà più giovani si lavora per produrre vini di eccellenza che siano la massima espressione di un’uva coltivata in un determinato territorio. In alcune di queste realtà sono già venuti alla luce dei progetti, mentre in altre c’è chi ci sta ancora lavorando. Questo sprona ognuno di noi al costante miglioramento, che in primis è legato alla qualità dei vini. Ma nel seguire un’azienda agricola sono tanti gli aspetti da considerare per essere ritenuti “bravi tecnici”, e in questo l’avere dei confronti interni diretti e chiari non è cosa da poco per la crescita sia personale che dell’azienda alla quale si fa riferimento. La particolarità di ogni nuovo progetto, secondo me, viene fuori in maniera si può dire naturale, perché ogni tecnico ci mette del suo e soprattutto perché ogni territorio ha le sue peculiarità. Una cabina di regia ovviamente esiste ed è rappresentata dalla famiglia Antinori e da Renzo Cotarella che, oltre a essere l’Amministratore Delegato dell’azienda, è anche a capo dell’enologia. E questo serve in primo luogo a garantire che lo stile di ogni vino, dai nuovi agli storici, sia quello desiderato dalla famiglia.

Una cosa che in qualche modo mi sorprende di quest’azienda è che, pur avendo come dice lei una lunga storia, conserva un approccio al lavoro che per certi aspetti è simile a una start-up, e questa è una cosa che mi entusiasma.

Parlando dell’identità di Guado al Tasso: la sua storia è antica, legata alla famiglia Della Gherardesca e non solo a quella degli Antinori, ma la tenuta così come la conosciamo oggi deve la sua fama e il suo prestigio ai vini che avete iniziato a produrre a partire dagli anni Novanta. Cosa è successo in quegli anni e cosa è cambiato a livello produttivo e di filosofia aziendale per portare a vini come l’omonimo Guado al Tasso, Il Bruciato, il Matarocchio?


Quello che cambiò tutto alla fine degli anni ’80 fu la decisone del Marchese Piero di produrre il “suo” vino rosso a Bolgheri. Fino a quel momento infatti Antinori commercializzava il Sassicaia che, anche se fatto dal suo enologo Giacomo Tachis, era di proprietà dello zio Mario Incisa Della Rocchetta. Le strade si separarono nel 1989 e nel 1990 nasce la prima annata di Guado al Tasso. All’epoca l’azienda aveva poco più di 60 ettari vitati, in parte destinati al già esistente rosato Scalabrone. Dal 1995 al 2001 furono destinate risorse importanti volte alla realizzazione di nuovi vigneti arrivando a una superficie vitata di 300 ettari. Da ricordare che sono gli anni in cui vengono inserite le tipologie Rosso, Rosso Superiore e Sassicaia nel Disciplinare della DOC (1994) che prima menzionava solamente le tipologie bianco e rosato, mentre nel 1995 viene costituito il Consorzio di Tutela della DOC. La filosofia aziendale cambia, così come cambia anche quella del territorio che incomincia a crearsi una propria identità.

È per questo che, secondo il Marchese Piero, si sentiva la mancanza un vino all’epoca che potesse far conoscere il territorio di Bolgheri a un più ampio numero di consumatori, mantenendo una qualità importante e allo stesso tempo un prezzo più accessibile. Così nel 2002 nasce Il Bruciato, dalla volontà di raccontare e far conoscere secondo uno stile moderno il terroir unico di Bolgheri. Un vino molto apprezzato fin da subito, che ha avuto un grande successo di pubblico e che rappresenta ancora oggi una porta d’accesso per conoscere Tenuta Guado al Tasso e il territorio che rappresenta. La voglia di sperimentare è nel DNA dell’azienda e c’era da soddisfare un desiderio che il Marchese aveva da tempo; quello di produrre un vino ambizioso, estremamente elegante e di carattere, che fosse la massima espressione di un singolo vigneto e di una singola varietà. Ecco che da un vigneto piantato a Cabernet Franc, in un area a noi già ben nota per la vocazione al Cabernet Sauvignon, si ottiene un vino che ci entusiasma per la sua straordinaria complessità aromatica, energico e allo stesso tempo dotato di una grazia, eleganza e finezza uniche. Nel 2007 questo eccezionale Cabernet Franc sostituisce il Syrah nell’uvaggio del Guado al Tasso, determinandone l’inizio di un nuovo stile, e in parte viene imbottigliato in purezza per verificarne l’evoluzione in bottiglia. Beh, dopo 2 anni in cantina, quelle bottiglie diventarono la prima annata di Matarocchio, un vino che ancora oggi esce solamente nelle annate eccezionali e sempre in una quantità limitata di bottiglie, tutte numerate.

Per il Guado al Tasso e il Matarocchio, lavorate in maniera parcellizzata, vinificando e in parte affinando separatamente ogni singola parcella. Solo in una fase successiva viene definito quello che voi chiamate “masterblend”, ci può spiegare in cosa consiste, il perché di questa scelta e cosa comporta dal punto di vista delle pratiche in cantina?

Partiamo da un presupposto basilare: in natura non ci sono certezze assolute per cui se ripeti le stesse cose ogni anno hai lo stesso risultato. Ci piacerebbe ma non è così purtroppo! Quindi è per questo che in ogni parcella di vigneto per Guado al Tasso e Matarocchio, pur facendo le cose nel migliore dei modi, con un approccio artigianale volto alla massima qualità e attento al minimo dettaglio, abbiamo bisogno di un po’ di tempo per valutare il risultato. Questo significa mantenere separati i singoli vini, lasciandoli ad affinare in barriques per almeno 3-4 mesi.

Solamente dopo questo periodo abbiamo le condizioni ideali per poter selezionare i lotti da utilizzare nel “masterblend”. Non è sempre stato fatto così; per molti anni abbiamo effettuato l’assemblaggio solamente alla fine dell’affinamento poiché avevamo necessità di conoscere fino in fondo le potenzialità di ogni parcella. Adesso che il know how in tenuta è maggiore, possiamo anticipare l’assemblaggio e lavorare più nel dettaglio con un altro determinante fattore che va ad incidere sullo stile ed evoluzione dei nostri vini ovvero la scelta delle giuste barriques. Scelta che è strettamente influenzata dalle caratteristiche dell’annata, la quale ci condiziona nella scelta del livello di tostatura, della stagionatura delle doghe, della grana, dello spessore, ecc.

Il Matarocchio è un Cabernet Franc in purezza. Leggevo sulla cartella stampa che, all’epoca dei primi esperimenti, è stata per certi versi una sorpresa vedere quanto bene questo vitigno riuscisse a esprimersi sui vostri terreni. Dunque, che carattere ha questo Carbernet Franc, cosa lo contraddistingue?

Si è vero, il Cabernet Franc del Matarocchio è stata una sorpresa perché, pur sapendo che quello era un ottimo terreno per il Cabernet Sauvignon, non immaginavamo che anche il Franc vi si sarebbe adattato così bene. Quello che caratterizza Il Matarocchio, è la spiccata dote naturale che ha il Cabernet Franc di produrre tannini setosi e dolci, abbinati però a un’energia e consistenza insoliti, che ne fanno un vino capace di evolvere splendidamente negli anni mantenendo, proprio perché in purezza, un forte carattere identitario legato sia alla componente aromatica varietale (più o meno enfatizzata a seconda dell’annata) che alla natura del territorio dove nasce con la sua forte componente di solarità, esuberanza e fascino, unici.

L’inizio della trasformazione di Bolgheri in territorio altamente vocato si deve sicuramente alle intuizioni degli anni Quaranta di Niccolò Antinori e Mario Incisa della Rocchetta e alla loro collaborazione. Il sugello a questo lavoro è arrivato nel ’94 con il disciplinare per i rossi e nel ’95 con la nascita del Consorzio per la tutela della DOC. Quanto è stato importante questo passaggio formale/istituzionale per il consolidamento di Bolgheri?

È stato un atto fondamentale perché ha reso possibile l’identificazione di un nuovo territorio in Toscana, andando pian piano a sostituire per i nostri vini la definizione “Super Tuscan” con la quale, in particolar modo all’estero, venivano catalogati i già importanti vini all’epoca prodotti nella zona, senza che però vi fosse, da parte dei consumatori, la cognizione del luogo esatto di produzione.

Dal Trentino alla Sicilia, dai tradizionalisti “solo acciaio e botte grande” ai più innovatori “barriccai”, è incredibile quanto stia prendendo piede l’uso dell’anfora. Indipendentemente dal vitigno e dalla filosofia di cantina, insomma, quest’oggetto misterioso sta comparendo in tutte le cantine… cos’ha di tanto speciale secondo lei? Prevede di integrarne?

Di speciale ha sicuramente il fatto di essere un oggetto antico e quindi questo crea fascino, curiosità e accende l’entusiasmo e la voglia di sperimentare soprattutto a chi desidera distinguersi in qualche modo.
Noi al momento non prevediamo di integrare anfore nel processo produttivo in quanto crediamo che sui nostri vini tecnicamente il migliore materiale per la fermentazione sia l’acciaio inox, e per i rossi l’affinamento per un certo periodo in barriques, scelte con cura e attenzione.

Redazione 16.04.2021

Pasqua da Nord a Sud

“Pasqua con chi vuoi”, recita il detto. Quest’anno saremo un po’ più vincolati del solito nella scelta della compagnia e del luogo in cui trascorrere la festività primaverile. Almeno per quel che riguarda il cibo e il vino, però, per una volta non mettiamoci alcuna limitazione. Anzi, approfittiamo delle celebrazioni pasquali per viaggiare con la mente (e con il palato) portando in tavola ricette e sapori che appartengono alle diverse tradizioni regionali italiane – non per forza quelle più note – con un menu piacevolmente “contaminato”.

E per quanto riguarda gli abbinamenti nel calice? Anche in questo caso, il suggerimento è di andare oltre la logica territoriale per spaziare liberamente dal Trentino alla Sicilia, lasciandoci guidare dal gusto e dalla voglia di bere bene. Partiamo dagli antipasti. Non può mancare un assaggio della gustosa “pizza” al formaggio della tradizione umbra, un soffice lievitato insaporito dall’abbondante presenza di formaggio (pecorino e altri) da accompagnare magari con una fetta di salame o di capocollo. Per iniziare alla grande, con un brindisi benaugurale, consigliamo di versare l’Annamaria Clementi di Ca’ del Bosco (versione brut o rosè): una bollicina avvolgente ed elegante che al naso ricorda frutta bianca e note mentolate e in bocca si rivela piena e ricca, con un perlage fine ma presente. I suoi nove anni di affinamento sui lieviti si avvertono nel gioco tra freschezza e profondità che invita a un nuovo assaggio, contrastando piacevolmente l’opulenza della pizza e dei salumi.

Arriva dal Veneto la ricetta dell’insalata pasqualina che apre tradizionalmente il pranzo della Domenica di Resurrezione: inaspettatamente ricca, affianca la delicatezza di lattuga, asparagi e gamberetti alla presenza più decisa della salsa a base di tuorli, olive verdi, aceto, vino, erbe aromatiche e olio extravergine d’oliva. Senza allontanarci troppo geograficamente, possiamo aprire lo Chardonnay Löwengang di Alois Lageder (versione magnum o doppio magnum): di un bel colore giallo dorato, al naso si esprime con note di pesca e fiori gialli con un accenno di tè nero. In bocca è snello, con sentori di fiori e vaniglia e qualche nota fumé nella chiusura sapida. Come primo piatto, tra una minestra maritata di origine campana e un timballo di riso all’abruzzese, noi propenderemmo per le lasagne verdi della tradizione emiliana, che con il colore della sfoglia (dovuto all’aggiunta di spinaci, oppure di ortiche) trasmettono allegria e un senso di primavera solo a guardarle. Farcite con ragù e besciamella, all’assaggio rivelano il loro carattere grasso e strutturato e richiedono una “spalla” adeguata: per esempio il poderoso Gewürztraminer Konrad Oberhofer Vigna Pirchschrait di Hofstätter. Un vero gioiello enologico dell’Alto Adige, affina per ben 10 anni sui propri lieviti in botti da 500 litri. Straordinariamente ampio, al naso si avvertono note di fiori di zagara, crosta di pane e frutta matura. Il sorso è importante, con freschezza e mineralità che viaggiano insieme per un lungo finale.

Dal vicino Trentino arriva un’idea per un secondo piatto che interpreta in modo diverso dal solito la carne ovina, un grande classico – insieme al capretto – delle tavole pasquali. Nella regione del Nord Italia si preparano le gustose polpette di agnello: profumate dall’aggiunta di erbe e cotte al forno, hanno un sapore delizioso ma non invadente. Cerchiamo quindi un rosso “di montagna”, intenso ma dotato di buona freschezza, e anziché guardare alle Dolomiti planiamo sulle pendici dell’Etna – “A Muntagna” siciliana per eccellenza – dove, da uve Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Alicante e Francisi, nasce il Profumo di Vulcano di Federico Graziani. Il nome racconta l’essenza di questo vino: al naso si avvertono frutti rossi ed erbe aromatiche. In bocca è morbido, con un accenno di alcol e il tannino presente ma perfettamente integrato. Sul finale torna la frutta rossa con un bel sottofondo minerale.

Gioca su un carattere decisamente più robusto e strutturato la ricetta abruzzese della pecora alla Neretese, cucinata in umido con pomodori, chiodi di garofano e peperoni fritti. Abbastanza per chiamare in causa uno dei “re” dell’enologia toscana, il Brunello. Per esempio il Tenuta Nuova di Casanova di Neri (standard o magnum): dal naso intenso di frutti rossi arricchito da note balsamiche; in bocca è corposo, con un tannino importante ma che già si lascia apprezzare. Dal profilo fruttato con una bella progressione sapida, chiude su leggere note di spezie.

Ottima scelta anche il Brunello Campo del Drago di Castiglion del Bosco(standard o magnum); dal naso leggiadro, molto floreale e con note di frutta che sembra quasi fresca, con qualche accenno fumé, in bocca è saporito, con dei tannini presenti ma morbidi, mentre ritorna la frutta la cui freschezza lo accompagna per tutto il sorso.

Arrivati al dolce, potremmo pensare di sostituire l’immancabile colomba lievitata – che è buonissima anche se mangiata prima o dopo Pasqua – con dei dolci dall’impronta più casereccia. In Toscana, ad esempio, si prepara la schiacciata (o ciaccia) livornese, altro soffice dolce lievitato profumato dall’aggiunta di semi di anice. Quest’ultimo potrebbe rendere arduo l’abbinamento con un vino dolce, eppure se la scelta ricade sull’8’9’10 di Gravner il problema non si pone: a base di Ribolla gialla in purezza, è un vino che nel bicchiere brilla di luce propria. Avvicinando il naso sembra di entrare in pasticceria, tra note di canditi, frutta secca di ogni tipo, zafferano e resina. In bocca è suadente come un elisir: la dolcezza, la frutta, le spezie e una bellissima nota salmastra accompagnano il sorso verso un finale lunghissimo e indimenticabile.

Viene dalla Calabria, infine, la ricetta delle nepitelle (o pitte co niepita): friabili mezzelune di pasta frolla farcite con confettura d’uva, cacao, frutta secca e un’erba locale che ricorda la menta. Provate ad accompagnarle con il Vin Santo Occhio di Pernice di Avignonesi: tra i vini dolci più importanti d’Italia, già dal nome regala l’idea di qualcosa di prezioso. Si avvertono immediatamente note di frutta secca, cuoio e cacao e molte altre spezie, come se si annusasse un ottimo panpepato. In bocca la sua imponente dolcezza è mitigata da straordinaria freschezza e sapidità, tutto intrecciato in una finissima trama tannica che invoglia nuovamente alla beva. L’ideale per trascorrere un pomeriggio in piena serenità dopo un lauto pasto.

– Luciana Squadrilli 26.03.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

L’eroe della Toscana, il Sangiovese

Quanto amiamo la Toscana, terra d’ingegni arditi, dove ogni paesaggio sembra un dipinto, ogni calice di vino un’opera d’arte. Camminare la terra toscana, significa mettere i piedi nella storia dell’enologia, passeggiando dov’è nato il mito del Brunello, del Chianti Classico, del Nobile di Montepulciano e dei più recenti Supertuscan. Tutte queste denominazioni hanno in comune un vitigno, il Sangiovese, l’eroe incontrastato del Granducato di Toscana. Ma non si può fare di tutti i Sangiovese un fascio, sia ben chiaro.

Sono molti i Sangiovese, o meglio i cloni, esattamente come lo sono i nomi con cui è chiamata localmente quest’uva. Il nome autoctono più celebre è senza dubbio proprio “Brunello”, ma l’elenco è pressocché infinito, quanto curioso: Morellino, Calabrese, Negretta, Nerina, Prugnolo Gentile, Primaticcio, Pignolo, Uva Abruzzi, Tignolo, Sangioveto, San Zoveto, Sangiovetino e così a seguire per pagine intere. Il vitigno è presente anche in Romagna, dove ha avuto meno successo storico-commerciale, ma dalla cui terra nascono oggi dei rossi da Sangiovese di grande potenza.

Il nostro eroe, il Sangiovese, in Toscana specie in passato, veniva distinto in Grosso per la produzione di Brunello e Vino Nobile di Montepulciano, e in Piccolo utilizzato nel resto delle produzioni. Oggi questa differenza non è più strettamente tenuta in considerazione, ma ci si riferisce ai singoli cloni creati nei vivai, o alle selezioni massali dei produttori, come quello di Biondi Santi. Proprio nella fattoria Il Greppo della Biondi Santi nasce il rosso toscano più famoso della storia, il Brunello di Montalcino. Si devono a Clemente Santi quei singolari esperimenti di vinificazione, che portarono nel 1865 alla presentazione al pubblico della prima bottiglia di Brunello. Un nome iconico scelto all’epoca per celebrare la sua uva a bacca nera, denominata dai contadini proprio “brunello”. Questo celeberrimo rosso toscano è oggi tutelato da un rigido disciplinare di produzione, che prevede una resa massima di 80 q.li/ha, l’immissione in commercio a partire dal quinto anno dopo la vendemmia, un affinamento di non meno di due anni in botte di legno e di almeno altri quattro mesi in bottiglia.

Ogni anno nel mese di gennaio una speciale commissione di degustazione, composta da 20 tecnici di Montalcino, assaggia i campioni dell’annata in corso conferendo delle stelle qualitative, da una a cinque. Tra le annate considerate eccezionali, che si sono meritate il massimo di stelle previsto, ci sono la 1995, la 2006 e la 2012, delle bombe per serbevolezza, profumi ed evoluzione. La storica e pluripremiata annata 1995 di Biondi Santi, in particolare, oltre a rientrare tra le migliori per il Consorzio, e ad aver ottenuto ben 97/100 da Wine Spectator, è quella che per volere della proprietà è rimasta più a lungo ad affinare nella cantina del Greppo, addirittura fino al 2019!

Tra le denominazioni che vantano una storia antica e gloriosa c’è quella del Chianti Classico prodotto con Sangiovese in purezza o in blend con l’80% minimo di Sangiovese, più un 20% massimo di altri vitigni a bacca rossa. Per la Riserva occorrono 24 mesi di invecchiamento, mentre per la Gran Selezione non meno di 30, di cui 3 mesi in bottiglia. Nel cuore del Chianti Classico, ossia della zona più antica di produzione di questo vino, c’è un vino entrato nel mito, al punto tale da essersi emancipato dalla denominazione nel 1981 per scegliere una propria strada produttiva. Ci riferiamo al Pergole Torte di Montevertine, il primo Sangiovese in purezza vinificato nel 1977 nella zona di Radda in Chianti, le cui etichette da collezione create dall’artista Alberto Manfredi sono diventate famose al pari del vino stesso. Raffinato al naso, con quelle pennellate olfattive ritmate, che cambiano nel calice istante dopo istante, dal pepe, ai chiodi di garofano, dall’arancia sanguinelle al cacao, questo vino rappresenta con eleganza tutte le potenzialità dalla zona, emancipandosene con classe. Nessuna sfida col Chianti Classico, sono prodotti affini, ma diversi, ognuno con propria straordinaria dignità.

Tornando proprio al simbolo del territorio e della Docg, il Gallo Nero riportato su tutte le bottiglie di Chianti Classico, il cui emblema rappresenta l’antica Lega Militare chiantigiana, c’è una curiosa leggenda che aleggia da secoli sulla sua nascita. Sembra che per porre fine alle contese di territorio tra le Repubbliche di Firenze e Siena, che si combattevano sanguinosamente per strappare una zolla di terra l’una all’altra, fu escogitata una disfida tra due cavalieri. Entrambi, partiti dai rispettivi territori al canto del proprio gallo, di piumaggio bianco per i senesi, nero per i fiorentini, avrebbero fissato il confine tra le due Repubbliche nel loro punto d’incontro. La beffa fu ordita dagli astuti fiorentini che lasciarono il povero gallo nero a digiuno per molti giorni, inducendo il povero pennuto a cantare non appena liberato, con largo anticipo rispetto al gallo senese. Questo escamotage permise al cavaliere fiorentino di partire per primo, segnando a Fonterutoli il confine tra le due Repubbliche, ad appena 12 chilometri da Siena.

Supertuscan è un termine usato per la prima volta da Nicholas Belfrage, giornalista e Master of Wine. C’è un nome che rappresenta una seconda via a questi vini, che crearono all’epoca un vero e proprio spartiacque tra il prima e il dopo. Parliamo del Tignanello di Marchesi Antinori, prodotto a partire dagli anni Settanta con un blend di Sangiovese e Cabernet Sauvignon e inizialmente con l’aggiunta di una piccola parte di uve bianche. Giacomo Tachis, enologo di straordinario talento, fu determinante, per la nascita di questo celeberrimo vino, assieme a Piero Antinori. Nel 1975 le uve bianche furono definitivamente abbandonate e nel 1982 il blend del Tignanello divenne quello che ancora oggi conosciamo – Sangiovese (80%), Cabernet Sauvignon (15%) e Cabernet Franc (5%) – e che matura per 14-16 mesi in barrique francesi e ungheresi di primo e secondo passaggio. L’annata 2017 ha una componente di aromi fruttati molto evoluti, quasi masticabili, dove vince la marasca rispetto all’usuale ciliegia rossa.

Anche il Vino Nobile di Montepulciano è figlio del Sangiovese. In questo paesino a 25 chilometri da Siena, Montepulciano, si produce il vino dal tempo degli Etruschi. Il successo del Nobile, tuttavia, è ben più recente. Citato persino da Voltaire nel suo Candide nel 1759, il Nobile assurge alla fama, quando diventa il rosso preferito dall’aristocrazia. Dall’Ottocento il Chianti ne prende il posto nelle Corti e occorrerà aspettare fino agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, per vederlo tornare in auge.

Quel vitigno “morello”, infine, con cui si fa il Morellino di Scansano è ancora il nostro eroe, il Sangiovese, i cui vigneti circondano le colline di Scansano, in provincia di Grosseto. In questa terra il Sangiovese trova un’evoluzione leggermente più rapida, rispetto ai cugini del nord della Toscana, tanto da dare vini mediamente più pronti e rotondi in meno tempo.

Siete dunque pronti a sfidare il nostro eroe? Lui vi attendere in cantina con la nobiltà e lo stile di un vero cavaliere. Cin cin!

di Giordana Talamona 11.11.2021

Giordana Talamona, giornalista specializzata in enogastronomia e consulente wine&food, collabora con testate di settore e lifestyle come La Wine, Bubble’s, The Italian Wine Journal, Style.it del Corriere e Life Style Made in Italy Magazine. Per dare solidità alla sua preparazione è diventata sommelier, qualifica che le ha permesso di tenere degustazioni guidate, corsi di avvicinamento al vino per scuole di cucina e di organizzare tasting per il lancio di prodotti con la stampa come PR.