The Winefully Magazine

MAZZON E IL PINOT NERO IN ALTO ADIGE

Parlando di Pinot Nero è interessante provare a capire perché sia così amato, ricercato, e in qualche modo venerato dagli appassionati di tutto il mondo. Parte del fascino nasce dal fatto che si tratta di un vitigno particolarmente difficile da coltivare. È una varietà delicata, precoce, tutt’altro che versatile, anzi, adatta soltanto ad alcuni particolari luoghi e climi. Il punto è che quando sussistono le giuste condizioni, compresa la mano di uomini capaci di valorizzare il vitigno, i risultati possono raggiungere livelli straordinari. Il Pinot Nero ha inoltre la particolare capacità di restituire le caratteristiche di zone anche molto piccole, e delle micro-differenze che esistono tra loro, in maniera precisa e sfaccettata. Basta un dislivello di pochi metri, o una minima discrepanza a livello di suoli, e due parcelle anche molto vicine possono portare nel bicchiere vini essenzialmente diversi.

La patria di questo vitigno è la Francia e in particolare la Borgogna, dove arriva a esprimere i livelli qualitativi più elevati. Lo si può trovare poi in diverse altre zone del mondo caratterizzate da climi freschi ed escursioni termiche importanti. Tra queste la Germania, l’Austria, il Sud Africa, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti, soprattutto in Oregon e California. Anche in Italia si può trovare in diverse regioni. Nell’Oltrepò Pavese, dove storicamente viene utilizzato per produrre gli spumanti, così come in Franciacorta. In Friuli, in Toscana, in Umbria, Marche e Abruzzo. Ultimamente si è diffuso anche al sud, in Campania, Basilicata e Sicilia, nella zona dell’Etna. E poi si trova un po’ ovunque sull’arco alpino: in Alto Adige, in particolare, dove viene chiamato anche Blauburgunder, diversi produttori hanno saputo dare vita a etichette che spiccano per stoffa ed espressività.

Il Pinot Nero è una presenza storica in Alto Adige, dove viene coltivato da oltre due secoli. Per descrivere i picchi qualitativi che è in grado di raggiungere in questa regione bisogna esplorare la zona dei borghi di Egna e di Montagna, e in particolare l’altopiano di Mazzon. Qui, a un’altitudine compresa tra i 250 e i 450 metri circa, si trova il Vigneto Mazzon, dove verso la metà del Novecento alcuni produttori hanno iniziato a concentrarsi proprio su questo vitigno. Stiamo parlando di un vigneto
che si estende per circa 60 ettari e vanta una posizione particolarmente felice per la coltivazione del Pinot Nero. Mazzon è esposto a ovest. Le montagne a nord svolgono una funzione importantissima, perché nelle prime ore del giorno proteggono dai raggi solari evitando che il calore sia eccessivo. Inoltre, riparano il vigneto dai venti più rigidi che provengono da nord e da est, lasciando campo invece all’Ora, la brezza mite che soffia dal Lago di Garda. Il vigneto gode poi di un’ottima quantità di luce, che si estende a lungo nel pomeriggio. Quando il sole cala le temperature si abbassano bruscamente, determinando quell’escursione termica fondamentale per la qualità del Pinot Nero.

Mazzon vede protagonisti circa una decina di produttori altoatesini, che riescono a ottenere risultati di notevole interesse. I vini dei diversi artigiani che lavorano il vigneto mostrano alcuni tratti comuni. Tra questi un frutto nitido, fresco e sprizzante, spesso intrecciato a note speziate, per un profilo complessivo in grado di dare soddisfazioni già dopo pochi anni, e al tempo stesso di moltiplicarle con il passare del tempo. Tra i nomi di queste realtà spicca Gottardi, oggi guidata da Elisabeth Gottardi, che negli anni Ottanta ha iniziato un lavoro specifico sul Pinot Nero, e nell’arco di una decade è riuscita a ottenere livelli di eccellenza assoluta.

Riserva Mazzon” viene prodotto dall’azienda esclusivamente nelle migliori annate, lavorando le uve dei vigneti più vecchi. 100% Pinot Nero, matura un anno in barriques nuove e 14 mesi in botti grandi, per poi affinare 6 mesi in bottiglia. Ne nasce un rosso complesso, tratto tipico dei vini che nascono da questo importante vigneto. Si presenta alla vista con un rosso brillante, lucente. Al naso profuma di frutti di bosco, con una particolare inclinazione verso la fragolina; sullo sfondo, spezie ed erbe officinali. In bocca articola una struttura ricca, con un tannino leggiadro, elegante, integrato a un profilo aromatico di grande ampiezza. Lungo, persistente, rintocchi freschi e sapidi di rincorrono e prolungano le sensazioni piacevoli al palato. Intrigante da subito, ha le caratteristiche giuste anche per restare in cantina ed evolvere nel tempo il proprio profilo.

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

Parlando di Pinot Nero è interessante provare a capire perché sia così amato, ricercato, e in qualche modo venerato dagli appassionati di tutto il mondo. Parte del fascino nasce dal fatto che si tratta di un vitigno particolarmente difficile da coltivare. È una varietà delicata, precoce, tutt’altro che versatile, anzi, adatta soltanto ad alcuni particolari luoghi e climi. Il punto è che quando sussistono le giuste condizioni, compresa la mano di uomini capaci di valorizzare il vitigno, i risultati possono raggiungere livelli straordinari. Il Pinot Nero ha inoltre la particolare capacità di restituire le caratteristiche di zone anche molto piccole, e delle micro-differenze che esistono tra loro, in maniera precisa e sfaccettata. Basta un dislivello di pochi metri, o una minima discrepanza a livello di suoli, e due parcelle anche molto vicine possono portare nel bicchiere vini essenzialmente diversi.

La patria di questo vitigno è la Francia e in particolare la Borgogna, dove arriva a esprimere i livelli qualitativi più elevati. Lo si può trovare poi in diverse altre zone del mondo caratterizzate da climi freschi ed escursioni termiche importanti. Tra queste la Germania, l’Austria, il Sud Africa, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti, soprattutto in Oregon e California. Anche in Italia si può trovare in diverse regioni. Nell’Oltrepò Pavese, dove storicamente viene utilizzato per produrre gli spumanti, così come in Franciacorta. In Friuli, in Toscana, in Umbria, Marche e Abruzzo. Ultimamente si è diffuso anche al sud, in Campania, Basilicata e Sicilia, nella zona dell’Etna. E poi si trova un po’ ovunque sull’arco alpino: in Alto Adige, in particolare, dove viene chiamato anche Blauburgunder, diversi produttori hanno saputo dare vita a etichette che spiccano per stoffa ed espressività.

Il Pinot Nero è una presenza storica in Alto Adige, dove viene coltivato da oltre due secoli. Per descrivere i picchi qualitativi che è in grado di raggiungere in questa regione bisogna esplorare la zona dei borghi di Egna e di Montagna, e in particolare l’altopiano di Mazzon. Qui, a un’altitudine compresa tra i 250 e i 450 metri circa, si trova il Vigneto Mazzon, dove verso la metà del Novecento alcuni produttori hanno iniziato a concentrarsi proprio su questo vitigno. Stiamo parlando di un vigneto
che si estende per circa 60 ettari e vanta una posizione particolarmente felice per la coltivazione del Pinot Nero. Mazzon è esposto a ovest. Le montagne a nord svolgono una funzione importantissima, perché nelle prime ore del giorno proteggono dai raggi solari evitando che il calore sia eccessivo. Inoltre, riparano il vigneto dai venti più rigidi che provengono da nord e da est, lasciando campo invece all’Ora, la brezza mite che soffia dal Lago di Garda. Il vigneto gode poi di un’ottima quantità di luce, che si estende a lungo nel pomeriggio. Quando il sole cala le temperature si abbassano bruscamente, determinando quell’escursione termica fondamentale per la qualità del Pinot Nero.

Mazzon vede protagonisti circa una decina di produttori altoatesini, che riescono a ottenere risultati di notevole interesse. I vini dei diversi artigiani che lavorano il vigneto mostrano alcuni tratti comuni. Tra questi un frutto nitido, fresco e sprizzante, spesso intrecciato a note speziate, per un profilo complessivo in grado di dare soddisfazioni già dopo pochi anni, e al tempo stesso di moltiplicarle con il passare del tempo. Tra i nomi di queste realtà spicca Gottardi, oggi guidata da Elisabeth Gottardi, che negli anni Ottanta ha iniziato un lavoro specifico sul Pinot Nero, e nell’arco di una decade è riuscita a ottenere livelli di eccellenza assoluta.

Riserva Mazzon” viene prodotto dall’azienda esclusivamente nelle migliori annate, lavorando le uve dei vigneti più vecchi. 100% Pinot Nero, matura un anno in barriques nuove e 14 mesi in botti grandi, per poi affinare 6 mesi in bottiglia. Ne nasce un rosso complesso, tratto tipico dei vini che nascono da questo importante vigneto. Si presenta alla vista con un rosso brillante, lucente. Al naso profuma di frutti di bosco, con una particolare inclinazione verso la fragolina; sullo sfondo, spezie ed erbe officinali. In bocca articola una struttura ricca, con un tannino leggiadro, elegante, integrato a un profilo aromatico di grande ampiezza. Lungo, persistente, rintocchi freschi e sapidi di rincorrono e prolungano le sensazioni piacevoli al palato. Intrigante da subito, ha le caratteristiche giuste anche per restare in cantina ed evolvere nel tempo il proprio profilo.

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

MAZZON E IL PINOT NERO IN ALTO ADIGE

Parlando di Pinot Nero è interessante provare a capire perché sia così amato, ricercato, e in qualche modo venerato dagli appassionati di tutto il mondo. Parte del fascino nasce dal fatto che si tratta di un vitigno particolarmente difficile da coltivare. È una varietà delicata, precoce, tutt’altro che versatile, anzi, adatta soltanto ad alcuni particolari luoghi e climi. Il punto è che quando sussistono le giuste condizioni, compresa la mano di uomini capaci di valorizzare il vitigno, i risultati possono raggiungere livelli straordinari. Il Pinot Nero ha inoltre la particolare capacità di restituire le caratteristiche di zone anche molto piccole, e delle micro-differenze che esistono tra loro, in maniera precisa e sfaccettata. Basta un dislivello di pochi metri, o una minima discrepanza a livello di suoli, e due parcelle anche molto vicine possono portare nel bicchiere vini essenzialmente diversi.

La patria di questo vitigno è la Francia e in particolare la Borgogna, dove arriva a esprimere i livelli qualitativi più elevati. Lo si può trovare poi in diverse altre zone del mondo caratterizzate da climi freschi ed escursioni termiche importanti. Tra queste la Germania, l’Austria, il Sud Africa, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti, soprattutto in Oregon e California. Anche in Italia si può trovare in diverse regioni. Nell’Oltrepò Pavese, dove storicamente viene utilizzato per produrre gli spumanti, così come in Franciacorta. In Friuli, in Toscana, in Umbria, Marche e Abruzzo. Ultimamente si è diffuso anche al sud, in Campania, Basilicata e Sicilia, nella zona dell’Etna. E poi si trova un po’ ovunque sull’arco alpino: in Alto Adige, in particolare, dove viene chiamato anche Blauburgunder, diversi produttori hanno saputo dare vita a etichette che spiccano per stoffa ed espressività.

Il Pinot Nero è una presenza storica in Alto Adige, dove viene coltivato da oltre due secoli. Per descrivere i picchi qualitativi che è in grado di raggiungere in questa regione bisogna esplorare la zona dei borghi di Egna e di Montagna, e in particolare l’altopiano di Mazzon. Qui, a un’altitudine compresa tra i 250 e i 450 metri circa, si trova il Vigneto Mazzon, dove verso la metà del Novecento alcuni produttori hanno iniziato a concentrarsi proprio su questo vitigno. Stiamo parlando di un vigneto
che si estende per circa 60 ettari e vanta una posizione particolarmente felice per la coltivazione del Pinot Nero. Mazzon è esposto a ovest. Le montagne a nord svolgono una funzione importantissima, perché nelle prime ore del giorno proteggono dai raggi solari evitando che il calore sia eccessivo. Inoltre, riparano il vigneto dai venti più rigidi che provengono da nord e da est, lasciando campo invece all’Ora, la brezza mite che soffia dal Lago di Garda. Il vigneto gode poi di un’ottima quantità di luce, che si estende a lungo nel pomeriggio. Quando il sole cala le temperature si abbassano bruscamente, determinando quell’escursione termica fondamentale per la qualità del Pinot Nero.

Mazzon vede protagonisti circa una decina di produttori altoatesini, che riescono a ottenere risultati di notevole interesse. I vini dei diversi artigiani che lavorano il vigneto mostrano alcuni tratti comuni. Tra questi un frutto nitido, fresco e sprizzante, spesso intrecciato a note speziate, per un profilo complessivo in grado di dare soddisfazioni già dopo pochi anni, e al tempo stesso di moltiplicarle con il passare del tempo. Tra i nomi di queste realtà spicca Gottardi, oggi guidata da Elisabeth Gottardi, che negli anni Ottanta ha iniziato un lavoro specifico sul Pinot Nero, e nell’arco di una decade è riuscita a ottenere livelli di eccellenza assoluta.

Riserva Mazzon” viene prodotto dall’azienda esclusivamente nelle migliori annate, lavorando le uve dei vigneti più vecchi. 100% Pinot Nero, matura un anno in barriques nuove e 14 mesi in botti grandi, per poi affinare 6 mesi in bottiglia. Ne nasce un rosso complesso, tratto tipico dei vini che nascono da questo importante vigneto. Si presenta alla vista con un rosso brillante, lucente. Al naso profuma di frutti di bosco, con una particolare inclinazione verso la fragolina; sullo sfondo, spezie ed erbe officinali. In bocca articola una struttura ricca, con un tannino leggiadro, elegante, integrato a un profilo aromatico di grande ampiezza. Lungo, persistente, rintocchi freschi e sapidi di rincorrono e prolungano le sensazioni piacevoli al palato. Intrigante da subito, ha le caratteristiche giuste anche per restare in cantina ed evolvere nel tempo il proprio profilo.

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

GLI ORANGE WINE TRA SPIGOLI E SINTONIE

Se dovessimo raccontare in sintesi cosa sono gli orange wine, o macerati, potremmo dire che si tratta di vini prodotti partendo da uve bianche, ma utilizzando il processo produttivo dei rossi, ovvero tenendo le bucce a contatto con il mosto. Il tempo di questo contatto è variabile: può andare da alcune ore a diversi mesi

Da qualche anno c’è un interesse crescente per questa tipologia di vini, che a primo impatto possono far pensare a un fenomeno nuovo. In realtà gli orange wine hanno origini antichissime, si parla di migliaia di anni fa. Da sempre, in Georgia, vengono prodotti utilizzando i kvevri, tradizionali anfore in terracotta tipiche della regione. Non si tratta dell’unica zona che ha un legame storico con i macerati. Anche l’area che si sviluppa intorno al confine tra Friuli e Slovenia ha una stretta connessione con gli orange wine.Questa zona geografica, in particolare, ha avuto un ruolo fondamentale nella riscoperta di questo particolare metodo produttivo.

Bicchieri visti dall'alto

Negli ultimi anni si è detto molto sui macerati. Spesso sono stati inquadrati come vini estremi, come la scelta giusta quando si vuole provare qualcosa di audace, magari anche un po’ ostico. Come vini difficili, in poche parole. Da un lato questa prospettiva ha un fondo di verità. La presenza dei tannini, dovuta al contatto con le bucce, porta al vino una terza dimensione fatta di durezze e spigoli. Il connubio uve bianche e macerazione, inoltre, dà al vino sentori che per molti possono risultare selvaggi, o poco familiari. Altro punto: spesso i macerati, soprattutto nel caso di contatto con le bucce prolungato per mesi, risultano vini materici, di grande consistenza. Tanto che qualcuno, scherzosamente, a volte li chiama vini “mangia e bevi”.

Questa struttura importante, dall’altro lato, apre un tema ugualmente significativo e meno evidenziato: gli orange wine sono molto versatili, soprattutto quando si tratta di cibo e abbinamenti. Le ragioni di questa adattabilità sono molteplici. Una, appena citata, è certamente quella del corpo. Una struttura più presente rispetto a quella dei classici bianchi permette ai vini macerati di uscire dai perimetri di abbinamento più comuni, che li vogliono accostati principalmente a piatti delicati, spesso a base di pesce.

I tempi di macerazione, e la relativa intensità che ne deriva, sono determinanti per valutare precisamente gli abbinamenti più indicati. Possiamo dire, ad esempio, che spesso si tratta di una buona scelta per le carni bianche e i formaggi di media e lunga stagionatura. Andando più nello specifico dei vini caratterizzati da lunghe macerazioni, un punto fondamentale è l’intensità che ne deriva.

Proprio questa intensità apre svariate opportunità di abbinamento, che in alcune circostanzepuò risolvere casi di accostamenti complessi. È il caso, ad esempio, dei piatti speziati, tipici della cucina orientale. Un orange wine di buona intensità spesso ha le caratteristiche giuste per sostenere il confronto con un’altra intensità importante, quella delle spezie appunto. L’importante, in questo caso, è tenere d’occhio i tannini; se troppo accentuati, con i loro spigoli potrebbero entrare in conflitto con la personalità spiccata delle spezie

Cucina asiatica

Un tema importantissimo è poi quello della temperatura. Giocare con i gradi centigradi, nel mondo dei macerati, può dare risultati interessanti. Partendo dal presupposto che la temperatura di servizio di questi vini si aggira intorno ai 15 gradi, bisogna tener conto che temperature più basse enfatizzano le durezze, quindi acidità, sapidità e tannini, mentre temperature più elevate portano in evidenza le morbidezze, dunque gli zuccheri, l’alcol e la componente glicerica. Se questo accade per qualsiasi tipo di vino, con gli orange wine l’ampiezza dei sentori che di dischiudono alle diverse temperature a mio avviso è davvero notevole.

Tanto che mi capita spesso, al ristorante, di scegliere per l’intera cena un solo vino, un orange wine, caratterizzato da un tempo di macerazione significativo. Servito fresco, per iniziare, può accompagnare tanti tipi di antipasti, ad esempio delle polpette di vitello. Man mano che il vino sale di temperatura, è come se gradualmente si rendesse adattabile ad ogni passaggio della cena. Un po’ meno freddo per accompagnare un primo, ad esempio della pasta fresca con un sugo d’anatra. E poi, con una temperatura ancora un po’ più alta, un secondo piatto importante, magari una carne anche di grande intensità, ad esempio l’agnello.

Come già detto, tutto è relativo alla quantità di tempo che il vino ha trascorso sulle bucce, e conseguentemente alla sua intensità. Nel caso di macerazioni meno marcate, gli accostamenti vanno riconsiderati in modo proporzionale. Munjebel VA Bianco 2019 Di Frank Cornellissen può rappresentare un buon esempio. Nasce sulle pendici dell’Etna da un blend di uve autoctone a bacca bianca e la lavorazione prevede 4 giorni di macerazione. È un vino elegante, complesso, reso ancora più speciale dal fatto che la cuvée proviene interamente da vecchie viti a piede franco che hanno tra i 60 e i 90 anni. Il contatto con le bucce è un tocco garbato che va ad accentuare ulteriormente le caratteristiche di ampiezza e finezza. E in questo caso specifico, tornando a parlare di cibo, la scelta giusta può ricadere nel mondo delle carni bianche oppure in quello del pesce, ad esempio con una zuppa alla mediterranea.


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier Ais, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

ZUCCHERO CHIAMA ZUCCHERO: I VINI DA ABBINARE AI DOLCI DI NATALE.

Le feste natalizie sono uniche anche perché, per molti, è il momento giusto per concedersi qualcosa di speciale a tavola. Salumi particolari, magari quel caviale da gustare una volta ogni tanto, oppure un buon torrone lavorato a mano o un panettone artigianale. Il mondo dei dolci natalizi, in particolare, è decisamente ricco di alternative tra cui scegliere per chiudere un pranzo o una cena a casa.
A volte si tende a pensare che un Brut Metodo Classico, oltre a essere perfetto per aprire il pasto, può essere una buona alternativa anche da abbinare al dessert. La verità è che in questo caso uno spumante può funzionare solo se presenta una certa quantità di residuo zuccherino. Uno spumante demi-sec, ad esempio, ci può stare, perché i suoi zuccheri oscillano tra i 33 e i 50 grammi per litro; così come uno spumante dolce, dove si supera la soglia dei 50 gr/l.
Senza entrare negli aspetti tecnici, è sufficiente tenere a mente una formula molto semplice: dolce chiama dolce. Non si tratta di un principio assoluto ed esistono tante eccezioni, ad esempio quando si parla di cioccolato fondente, ma è una buona regola base. Non solo per evitare accostamenti poco riusciti, ma anche per non sprecare una bottiglia di pregio, magari quel Metodo Classico conservato mesi e mesi in attesa dell’occasione giusta. È un rischio tipico delle feste, e non accade solo con gli spumanti: abbiamo una bottiglia di valore da parte, aspettiamo da tempo l’occasione giusta per aprirla, e presi dall’entusiasmo del clima natalizio non pensiamo all’abbinamento, perdendo l’occasione di valorizzarla come merita. Dunque a fine pasto, per non sbagliare, ricordiamo che si può sempre assecondare la presenza dello zucchero con altro zucchero. Tecnicamente è quello che si chiama abbinamento per concordanza, alternativa all’accostamento per contrapposizione. La formula non riguarda solo gli spumanti, ma tutti i vini dolci. Tra questi, in particolare, ci sono i passiti, di cui l’Italia è ricchissima a tutte le latitudini, dall’Alto Adige a Pantelleria. Si tratta di vini realizzati attraverso la lavorazione di acini appassiti. L’appassimento può avvenire in pianta, con una vendemmia tardiva che innesca un processo di surmaturazione, oppure dopo la raccolta dell’uva, lasciando disidratare gli acini per un certo periodo di tempo. Quello che si cerca attraverso l’appassimento è una maggior concentrazione diaromi e zuccheri, che si ritroverà poi anche nel bicchiere dopo la lavorazione. Per accostare bene un vino a un dessert non basta scegliere un passito qualsiasi. Anche questo tipo di abbinamento richiede qualche considerazione e permette di giocare tra un ventaglio di opzioni e interpretazioni. Un fattore da tener presente è quello della struttura del dolce che andremo a mangiare. Una torta paradiso, ad esempio, ha una struttura molto diversa rispetto a quella di un panforte, decisamente più importante, dove abbiamo tra gli ingredienti il miele, le mandorle, la frutta candita e diverse spezie. Se nel primo caso possiamo optare per un vino delicato, ad esempio un Moscato d’Asti, nel secondo caso la scelta può andare su un prodotto più strutturato, come ad esempio un Vin Santo. Un altro punto da considerare riguarda il livello di dolcezza, ovvero la quantità di zuccheri presenti nella ricetta, perché c’è dolce e dolce. Un plumcake allo yogurt, in questo senso, è molto diverso da una crostata alla confettura di albicocche. Nel primo caso uno spumante leggero da uve Malvasia può essere una buona soluzione. Nel secondo caso invece si può optare per uno Zibibbo passito che arriva dalla Sicilia, dove il clima caldo favorisce la dolcezza degli acini, e conseguentemente del prodotto finale. Continuando con i fattori da tenere a mente quando cerchiamo l’abbinamento giusto per un dolce, possiamo considerare anche la sua aromaticità. Questa può derivare dalle erbe aromatiche previste dalla ricetta, oppure dal profumo intrinseco di uno specifico ingrediente. Un esempio può essere quello, inconfondibile, dei canditi nel panettone, caratterizzati appunto da spiccata aromaticità. In questo caso per l’abbinamento, sempre in una logica di concordanza, si può valutare un vino di
buona intensità. L’intensità, per intenderci, è quel parametro che descrive in termini quantitativi la forza con cui i sentori si esprimono al naso e al palato. Tipicamente presentano grande intensità diversi vini ottenuti da uve aromatiche come Moscato, Malvasia o Gewürztraminer. Proprio quest’ultima è alla base del passito Rechtenthaler Schlossleiten firmato dalla storica azienda altoatesina Hofstätter, ideale appunto da abbinare a un buon panettone. Un Gewürztraminer da vendemmia tardiva di grande spessore, che prende il nome da uno dei prestigiosi cru dei vigneti di proprietà. Caratteristica chiave è la sua sorprendente freschezza, decisamente sopra la media nella categoria dei vini dolci, e fondamentale per evitare di appesantire la fine di pasti che a Natale possono risultare già di per sé impegnativi. Anche il ridotto contenuto di alcol, intorno al 7%, aiuta a delineare un profilo snello ed elegante. Al naso miele ed erbe aromatiche, in bocca albicocche, pere e agrumi canditi. La lunghissima persistenza connota questo Gewürztraminer come la scelta giusta per chiudere in bellezza un pranzo o una cena natalizia, con l’idea di portare con sé il più a lungo possibile il sapore dolce delle feste.

ZUCCHERO CHIAMA ZUCCHERO: I VINI DA ABBINARE AI DOLCI DI NATALE.

Le feste natalizie sono uniche anche perché, per molti, è il momento giusto per concedersi qualcosa di speciale a tavola. Salumi particolari, magari quel caviale da gustare una volta ogni tanto, oppure un buon torrone lavorato a mano o un panettone artigianale. Il mondo dei dolci natalizi, in particolare, è decisamente ricco di alternative tra cui scegliere per chiudere un pranzo o una cena a casa.
A volte si tende a pensare che un Brut Metodo Classico, oltre a essere perfetto per aprire il pasto, può essere una buona alternativa anche da abbinare al dessert. La verità è che in questo caso uno spumante può funzionare solo se presenta una certa quantità di residuo zuccherino. Uno spumante demi-sec, ad esempio, ci può stare, perché i suoi zuccheri oscillano tra i 33 e i 50 grammi per litro; così come uno spumante dolce, dove si supera la soglia dei 50 gr/l.
Senza entrare negli aspetti tecnici, è sufficiente tenere a mente una formula molto semplice: dolce chiama dolce. Non si tratta di un principio assoluto ed esistono tante eccezioni, ad esempio quando si parla di cioccolato fondente, ma è una buona regola base. Non solo per evitare accostamenti poco riusciti, ma anche per non sprecare una bottiglia di pregio, magari quel Metodo Classico conservato mesi e mesi in attesa dell’occasione giusta. È un rischio tipico delle feste, e non accade solo con gli spumanti: abbiamo una bottiglia di valore da parte, aspettiamo da tempo l’occasione giusta per aprirla, e presi dall’entusiasmo del clima natalizio non pensiamo all’abbinamento, perdendo l’occasione di valorizzarla come merita. Dunque a fine pasto, per non sbagliare, ricordiamo che si può sempre assecondare la presenza dello zucchero con altro zucchero. Tecnicamente è quello che si chiama abbinamento per concordanza, alternativa all’accostamento per contrapposizione. La formula non riguarda solo gli spumanti, ma tutti i vini dolci. Tra questi, in particolare, ci sono i passiti, di cui l’Italia è ricchissima a tutte le latitudini, dall’Alto Adige a Pantelleria. Si tratta di vini realizzati attraverso la lavorazione di acini appassiti. L’appassimento può avvenire in pianta, con una vendemmia tardiva che innesca un processo di surmaturazione, oppure dopo la raccolta dell’uva, lasciando disidratare gli acini per un certo periodo di tempo. Quello che si cerca attraverso l’appassimento è una maggior concentrazione diaromi e zuccheri, che si ritroverà poi anche nel bicchiere dopo la lavorazione. Per accostare bene un vino a un dessert non basta scegliere un passito qualsiasi. Anche questo tipo di abbinamento richiede qualche considerazione e permette di giocare tra un ventaglio di opzioni e interpretazioni. Un fattore da tener presente è quello della struttura del dolce che andremo a mangiare. Una torta paradiso, ad esempio, ha una struttura molto diversa rispetto a quella di un panforte, decisamente più importante, dove abbiamo tra gli ingredienti il miele, le mandorle, la frutta candita e diverse spezie. Se nel primo caso possiamo optare per un vino delicato, ad esempio un Moscato d’Asti, nel secondo caso la scelta può andare su un prodotto più strutturato, come ad esempio un Vin Santo. Un altro punto da considerare riguarda il livello di dolcezza, ovvero la quantità di zuccheri presenti nella ricetta, perché c’è dolce e dolce. Un plumcake allo yogurt, in questo senso, è molto diverso da una crostata alla confettura di albicocche. Nel primo caso uno spumante leggero da uve Malvasia può essere una buona soluzione. Nel secondo caso invece si può optare per uno Zibibbo passito che arriva dalla Sicilia, dove il clima caldo favorisce la dolcezza degli acini, e conseguentemente del prodotto finale. Continuando con i fattori da tenere a mente quando cerchiamo l’abbinamento giusto per un dolce, possiamo considerare anche la sua aromaticità. Questa può derivare dalle erbe aromatiche previste dalla ricetta, oppure dal profumo intrinseco di uno specifico ingrediente. Un esempio può essere quello, inconfondibile, dei canditi nel panettone, caratterizzati appunto da spiccata aromaticità. In questo caso per l’abbinamento, sempre in una logica di concordanza, si può valutare un vino di
buona intensità. L’intensità, per intenderci, è quel parametro che descrive in termini quantitativi la forza con cui i sentori si esprimono al naso e al palato. Tipicamente presentano grande intensità diversi vini ottenuti da uve aromatiche come Moscato, Malvasia o Gewürztraminer. Proprio quest’ultima è alla base del passito Rechtenthaler Schlossleiten firmato dalla storica azienda altoatesina Hofstätter, ideale appunto da abbinare a un buon panettone. Un Gewürztraminer da vendemmia tardiva di grande spessore, che prende il nome da uno dei prestigiosi cru dei vigneti di proprietà. Caratteristica chiave è la sua sorprendente freschezza, decisamente sopra la media nella categoria dei vini dolci, e fondamentale per evitare di appesantire la fine di pasti che a Natale possono risultare già di per sé impegnativi. Anche il ridotto contenuto di alcol, intorno al 7%, aiuta a delineare un profilo snello ed elegante. Al naso miele ed erbe aromatiche, in bocca albicocche, pere e agrumi canditi. La lunghissima persistenza connota questo Gewürztraminer come la scelta giusta per chiudere in bellezza un pranzo o una cena natalizia, con l’idea di portare con sé il più a lungo possibile il sapore dolce delle feste.

Georgia Dimitriou, l’anfitrione de Le Mortelle

L’enologa della tenuta maremmana dei Marchesi Antinori ci porta alla scoperta di questa splendida realtà parlando di identità, di terroir, di architettura e sostenibilità, temi perfettamente integrati all’interno di una delle più importanti aziende vinicole italiane.

Prima di tutto, ci vuole raccontare un po’ di sé, di come si è avvicinata al mondo del vino e del suo affascinante percorso professionale?

Per quanto affascinante può sembrare oggi il mio percorso, confesso che il mio avvicinamento è stato quasi casuale. Studiavo agronomia ad Atene, la mia città di origine, quando mi ha colpito la magia, come la chiamo, della viticoltura; il fatto che da una materia semplice com’è l’uva possa uscire un prodotto talmente complesso ed elegante come può essere il vino. Il ruolo dell’uomo nel centro di questa trasformazione mi ha intrigato cosi tanto da decidere di voler assolutamente fare questo lavoro. Quindi sono partita dalla Grecia per perseguire questa passione in giro per il mondo. Dopo il mio Master in Francia ho lavorato in varie regioni vitivinicole come Bordeaux, Napa Valley, Yarra Valley, Malborough per poi arrivare in Toscana esattamente sette anni fa.

Le Mortelle, come le altre splendide tenute dei Marchesi Antinori, presenta un contesto ambientale unico che, oltre ad essere di una bellezza speciale, è anche estremamente peculiare per quanto riguarda la composizione del terreno e l’esposizione delle vigne. Ce lo può descrivere e spiegare la personalità conferita ai vini della tenuta?

La tenuta, circondata da piccole colline che creano una sorta di anfiteatro, si trova nel sud della Toscana, in Maremma, a una distanza di circa 7 km dal mare. È proprio questa vicinanza al mare, insieme alle caratteristiche pedologiche, a rendere Le Mortelle un posto unico. I nostri terreni, di origine alluvionale/marina, sono ricchi di scheletro con percentuali elevate di sabbia e una piccola percentuale di argilla. La ricchezza di scheletro in superficie tende a mantenere il calore e, insieme alla sabbia, permette un buon drenaggio, limitando eventuali stress idrici estivi. Allo stesso tempo, le vigne hanno un’esposizione Est-Ovest così da sfruttare al meglio il Maestrale pomeridiano che mitiga le temperature. Queste condizioni favoriscono una maturazione lenta e ottimale, soprattutto per le nostre varietà tardive come il Cabernet Sauvignon e il Carménère, dando vita a vini di grande eleganza aromatica e raffinatezza tannica.

Come Winefully abbiamo imparato a conoscere Le Mortelle per mezzo del Poggio alle Nane e dell’Ampio, due rossi complessi e strutturati che sono ambasciatori della Tenuta: come ce li può descrivere e che similitudini (e differenze) troviamo nei due?

A entrambi i vini sono dedicate le migliori parcelle della tenuta e le cure più attente durante tutte le fasi della loro produzione, cominciando dalle operazioni nel vigneto.
Poggio alle Nane è un vino concepito su un’espressione molto elegante del Cabernet Franc della tenuta. La complessità aromatica ottenuta dalle nostre migliori uve di questa varietà, con note di pepe bianco, di mirtillo e di menta, unita alla fitta trama tannica conferita dal Cabernet Sauvignon e il carattere speziato e vellutato del Carménère, creano un vino complesso con un grande potenziale di invecchiamento. Un vino che può offrire soddisfazioni immediate ma che rivela ancora di più il suo carattere a chi ha la pazienza di aspettare.
Ampio invece è un’espressione del tutto particolare di Carménère. Una varietà della stessa famiglia del Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon con cui condivide molte similitudini, soprattutto a livello aromatico, con sfumature di ribes nero e di liquirizia, spesso predominanti. Il Carménère, vitigno di origine bordolese e faro dei vini cileni, viene spesso considerata una varietà meno elegante che però, come mi piace dire, ha trovato nel nostro territorio la sua grazia. L’uvaggio di Ampio, frutto di una conoscenza profonda dei nostri vigneti, ha un’identità più pronunciata e fortemente caratterizzata dalla varietà. Con un lungo affinamento in rovere francese 100% nuovo, ha un bouquet complesso di grande finezza, tannini setosi e una persistenza degustativa straordinaria.

Antinori ci ha abituato a confrontarci con vini straordinari che rappresentano oggi l’enologia italiana nel mondo e che si sono spesso spinti ben oltre le denominazioni locali: è il caso di Poggio alle Nane e di Ampio delle Mortelle. Da produttori come vengono visti i disciplinari odierni?

Storicamente in Italia, come anche in altri paesi tradizionali del vino, i disciplinari hanno spesso contribuito alla notorietà dei vini nel mondo e al miglioramento della qualità all’interno delle regioni viticole. Oggi giorno però, la forte competizione dei vini del Nuovo Mondo spinge ancora di più al superamento delle frontiere enologiche e il caso dei Supertuscans è più che mai attuale. In più, Le Mortelle fa parte di una zona vitivinicola molto giovane e allo stesso tempo molto variegata, di 8.700 ettari vitati. La Maremma ha indubbiamente un grande potenziale enologico ma deve ancora concretizzare la sua identità. Noi come azienda rispettiamo il nostro territorio creando vini rappresentativi e identitari di altissimo livello. Questo è il nostro contributo a tale obiettivo. Avere la flessibilità per farlo è altrettanto importante.

Le Mortelle, oltre ad essere una delle più belle realtà italiane dal punto di vista estetico ed architettonico, è anche all’avanguardia nelle pratiche di cantina: struttura interrata, processo produttivo per gravità, sfruttamento massimo delle condizioni ambientali sono solo alcuni degli aspetti più interessanti. 
Come si riflette tale complessità nei vini della tenuta?

La cura delle uve e la qualità di ciascun acino è un valore fondamentale per la produzione dei vini come Poggio alle Nane e Ampio. Al tempo stesso abbiamo la fortuna di essere in una zona vitivinicola dove la maturazione delle uve raggiunge un tale livello da renderli estremamente delicati. Tutte le operazioni in cantina hanno quindi come obiettivo quello di ottimizzare al massimo la precisione e diminuire al minimo le condizioni di stress per la materia prima. La vinificazione per gravità, i serbatoi troncoconici, le estrazioni con follatori pneumatici, la barricaia interrata sono solo alcuni degli strumenti che garantiscono una lavorazione delle uve meno traumatica, preservando i profumi varietali e facilitando l’estrazione di tannini setosi. Solo cosi riusciamo a esprimere al meglio il carattere del nostro territorio.

Oggi si parla sempre di sostenibilità nella filiera del vino e sappiamo che tale filosofia è fondamentale nel business model di Antinori: come viene interpretata la sostenibilità a Le Mortelle e cosa restituisce la cantina all’ambiente circostante?

Il progetto di costruzione della cantina de Le Mortelle è stato concepito fin dall’inizio come un progetto eco-sostenibile con sistemi innovativi come quello della fitodepurazione delle acque reflue, ma anche con semplici meccanismi che sfruttano la gravità, la luce naturale e la termoregolazione della roccia. Così Le Mortelle pone il rispetto per l’ambiente e il risparmio energetico al centro della sua attenzione.
 Il principio della sostenibilità si riflette quindi su ogni passaggio, cominciando dal vigneto e in tutte le fasi della produzione. Ad esempio, negli ultimi 10 anni abbiamo investito nella difesa integrata contro gli insetti, con l’uso si feromoni e lanci di insetti predatori, in modo tale da arrivare all’abbandono di insetticidi senza compromettere la qualità dei nostri vini.
 La sostenibilità è per Le Mortelle un approccio sano e rispettoso dell’ambiente, nella migliore tradizione agricola, unito alla ricerca e alla tecnologia.

Antinori è una delle realtà principali nel contesto italiano del vino, sia per la lunga storia che ha alle spalle, sia per il patrimonio enologico rappresentato dalle sue tenute. Cosa significa fare parte di una realtà di questo tipo, dove c’è una forte e coerente visione imprenditoriale d’insieme ma allo stesso tempo ogni tenuta ha una chiara e indiscutibile identità? Come si coniuga la singolarità di un progetto con la cornice d’insieme?

Immagino sia possibile perché l’obiettivo è comune e al centro del modello aziendale; produrre vino di qualità. Per quanto sembri banale è un obiettivo che talvolta viene trascurato dalle aziende. Il vino non può essere visto come un prodotto alimentare qualsiasi, è un prodotto agricolo, dipendente dalla Natura e da lei fortemente influenzato. Proprio per questo il vino di qualità non può essere standardizzato e l’uomo diventa il fattore chiave. La famiglia Antinori e Renzo Cotarella, CEO e capo enologo dell’azienda, sono nati nel mondo del vino e questo principio lo conoscono benissimo. Per questo hanno ritenuto fondamentale che ogni tenuta avesse la sua identità e la sua autonomia, ciascuna con la sua propria squadra.

Nel chiudere l’intervista ci piacerebbe, per quanto possibile, guardare al futuro: Georgia cosa aspettarci (o augurarci di aspettare) dal prossimo futuro di Le Mortelle?

Penso che il prossimo futuro de Le Mortelle sarà ancora più “green”. La famiglia Antinori è da sempre convinta che il rispetto per l’ambiente debba essere al centro delle attenzioni e sforzi. Per Le Mortelle la sfida è ancora più importante perché siamo in una zona di grande bellezza naturalistica, dove gran parte della Maremma costiera è considerata Riserva Naturale.
Quindi, nei prossimi anni vorremmo ulteriormente diminuire il nostro consumo energetico, aumentando l’uso di energie rinnovabili. Vorremmo sensibilizzare tutti i nostri dipendenti verso questa direzione, perché solo cambiando la nostra mentalità possiamo migliorare veramente le cose. Di una cosa sono certa, che il rispetto per l’ambiente e la sua biodiversità sia importante sia per motivi etici che per motivi tecnici; più lavoriamo in armonia con il nostro territorio, più saremo in grado di produrre dei vini di grande espressione.

Georgia Dimitriou Enologa de Le Mortelle

La forza dell’etichetta (e non solo)

Immaginiamo uno scaffale ben rifornito di vino o, in alternativa, la pagina web di un e-shop che preveda una chiara e facile navigazione oltre che una corretta prospettiva di osservazione: questa è di sicuro una situazione classica che ognuno di noi ha vissuto (a maggior ragione essendo all’interno del Magazine di Winefully) e che ha visto entrare in gioco una serie di dinamiche tali da governare la scelta del proprio vino da acquistare.

Le ragioni a guidare la selezione sono varie e molte di essere sono legate alla motivazione intrinseca all’acquisto: un’occasione da celebrare, un presente da omaggiare, una bottiglia da collezionare, un vino desiderato da tempo finalmente disponibile, un’etichetta scelta in funzione di un consiglio diretto di un amico o indiretto da parte di social media o di guide internazionali, la disponibilità di determinati formati ed infine anche la dinamica prezzo, vuoi perchè legata ad un determinato budget o perchè in grado di generare un risparmio se confrontata ad altre opportunità di acquisto. In cosa consiste il fil rouge che connette, in modo più o meno intenso, le motivazioni menzionate, sicuramente non esaustive di tutte le opportunità di acquisto che possiamo vivere? L’estetica, ovvero la percezione mediata attraverso i sensi delle caratteristiche di un prodotto che, al momento dell’acquisto, non si conosce o si conosce solo in parte.

E’ fuori dubbio che l’antico detto secondo cui “anche l’occhio vuole la sua parte” si applica molto bene a tali situazioni d’acquisto, da qui il ruolo chiave del Marketing nel creare un certo appeal nel prodotto, la bottiglia di vino, tanto da motivare l’acquirente a selezionarlo in modo congiunto o disgiunto rispetto ad altre variabili parte del processo decisionale.

Non tutti i cinque sensi sono però stimolati nella fase di studio in cui si captano le informazioni di interesse: una bottiglia chiusa difficilmente potrà stimolare l’olfatto salvo che le condizioni di stoccaggio del sito di acquisto non siano all’altezza e ci motivino ad allontanarci al più presto (vedi anche l’articolo “Bottiglie preziose: come conservarle a regola d’arte”), o il gusto; maggiori possono invece essere gli stimoli nei confronti dell’udito, soprattutto se combinato al tatto nel tastare una bottiglia ed immagazzinare una serie di informazioni dal suo profilo, da eventuali scritte impresse sul vetro o dalla qualità e grana di etichetta e capsula, ove presente.

Lasciamo inevitabilmente per ultima la vista, essendo questo il senso che condiziona maggiormente la scelta di un vino in sede di acquisto in persona condividendo, appunto, altri dettagli con tatto ed udito, e condizionando esclusivamente l’acquisto nel caso in cui si opti per piattaforme online.

Nel mondo dei vino è da tempo chiara la strategicità del packaging di una bottiglia: si investe moltissimo affinchè il prodotto trasmetta i valori della cantina, comunichi chiaramente ed in modo immediato al consumatore, permetta di andare oltre le informazioni di etichetta e retroetichetta, fornisca dettagli in linea con le legislazioni vigenti, menzioni il progressivo della bottiglia in caso di edizioni limitate o, e non in ultimo, fornisca un messaggio legato al posizionamento del prodotto a livello di Marketing.

Anche il più piccolo dettaglio conta e può realmente fare la differenza: oggettivamente, in quanti ci siamo trovati nella condizione di dover scegliere uno o più vini facendoci guidare sì dalle nostre conoscenze o da referenze di terzi, ma anche dal nostro istinto e dalle nostre preferenze visive? Quante volte ci siamo trovati di fronte ad etichette ammiccanti, packaging fantasiosi che generano curiosità e voglia di approfondire o a delle mise semplicemente eleganti perfettamente in linea con la nomea di un determinato vino? E quante volte ci siamo sottratti all’acquisto di vini non in grado di comunicare o il cui packaging non è stato considerato all’altezza della situazione specifica?

E’ accaduto, accade ed accadrà essendo il consumatore sempre più informato ed essendoci mezzi a disposizione che forniscono informazioni che un tempo magari non erano così rilevanti (o lo erano ma solo per gli esperti di settore).

Il trend è comune a tutti i mercati (non solo del vino visto che sia i superalcolici che l’acqua e bevande gassate non sono da meno) ma nel nostro mondo si notano con maggiore chiarezza le scelte aziendali volte ad un maggior focus sull’apparenza e la percezione del prodotto al cliente (consumatore o meno).

Questo avviene perchè ovviamente il mercato del vino è fortemente eterogeneo e caratterizzato da una storia spesso legata ai singoli territori ed alle singole cantine, a loro volta custodi di una tradizione il più delle volte familiare che i trend del mercato non hanno modo di scalfire (o almeno non riescono a farlo, al momento).

Risulterà quindi sempre difficile ed anche limitante confrontare vini dove l’essenza è contenuta all’interno del vetro e vini dove l’involucro esterno risulta fondamentale per finalizzarne la vendita. Entrambi hanno l’esigenza di incontrare il potere d’acquisto del cliente ma le modalità in cui lo fanno sono radicalmente diverse, attivando il modo diametralmente opposto i sensi alla base del processo decisionale oltre che l’emozione, il trasporto ed il sentimento che possono caratterizzare determinati acquisti.

A supporto della scelta di un vino possiamo categorizzare elementi decisionali interni ed esterni. I primi fanno riferimento al vino di per sè, alla sua storia, alle tecniche di vinificazione ed affinamento, all’annata ed al terroir. I secondi sono invece riconducibili al modo in cui viene presentato il vino, all’etichetta, al packaging, al prezzo e altri fattori che permettono di raccontare il prodotto di per sè.

Come è emerso nello studio “Il neuromarketing incontra l’arte dell’etichetta” commissionato da UPM Raflatac a SenseCatch nel 2018, emerge chiaramente che, tralasciando la variabile prezzo, sono l’etichetta con il suo design, le tipologie di carta e di nobilitazioni ad influenzare la scelta di un vino piuttosto che un altro.

Come accennato dal titolo, la materia è stata analizzata a livello scientifico utilizzando la metodologia di ricerca di SenseCatch, che integra neuroscienze e consumer behavior per analizzare le ragioni dietro i processi decisionali del consumatore in modo oggettivo e scientifico.

Il lavoro di ricerca è stato pubblicato in questo libro e nell’articolo scientifico “Neuromarketing Meets the Art of Labelling. How Papers and Finishing on Labels Affect Wine Buying Decisions” della rivista American Association of Wine Economics.

Esistono quindi delle ragioni oggettive, oltre che soggettive, dietro determinate scelte d’acquisto che coinvolgono uno o più sensi nel valutare più alternative così da scremarle progressivamente per identificare il prodotto di maggiore interesse.

L’estetica intesa come ciò che più aggrada l’occhio tanto da creare soddisfazione per un acquisto entra quindi in gioco e ci porta a propendere per determinate opzioni a seconda che gli stimoli siano più o meno allineati alle aspettative.

L’aspetto esteriore di una bottiglia di vino, quindi, risulta chiave in questo scenario, con l’etichetta che gioca il ruolo più importante insieme ad un eventuale packaging esterno che rende il prodotto unico e da subito riconoscibile, oltre che fortemente attraente.

Anche focalizzando la riflessione soltanto sull’etichetta, il vero e proprio carattere distintivo di ogni vino, avremmo uno spettro molto ampio di messaggi da recepire ed analizzare: da qui il focus sulle dinamiche che spingono un acquirente a selezionare specifiche etichette a seguito di stimoli specifici legati alla grafica, alla percezione tattile, al mix di colori che contraddistinguono i singoli vini.

A seconda delle specifiche necessità che sottintendono al processo di acquisto, ciascuna o tutte insieme possono svolgere un ruolo più o meno decisivo, dai risultati fortemente eterogenei a seguito di un ragionamento razionale per buona parte ma, inevitabilmente (ed aggiungiamo, fortunatamente) anche emozionale.

Drengot: il rinascimento dell’Asprinio

Alberto Verde è un quarantaduenne dallo spirito indomito, orgogliosamente campano, che per argomentare le ragioni del suo incondizionato amore per la Campania arriva a citare il filosofo francese Régis Debray, che nel suo ultimo libro (Contro Venezia, pubblicato qualche mese fa) definisce Napoli come «la vitalità incarnata. […] La città meno narcisista che ci sia, l’unica in Europa dove il mito si incontra per strada, dove il passato si vive al presente».

Da questo amore e dalla conoscenza profonda del territorio è nato un progetto ambizioso di riscoperta e valorizzazione dell’Asprinio, un vitigno autoctono dell’aversano con una vicenda unica, che si intreccia con quella degli Angiò ma anche quella dello champagne e del Greco di Tufo e che testimonia le profonde trasformazioni (non sempre positive) vissute dal territorio campano nel corso della storia. Con la sua cantina, Drengot – in omaggio al conte normanno Rainulf Drengot, che nel 1030 fondò Aversa – oggi Alberto produce tre ottimi vini, a base di Asprinio proveniente dalle vigne ultracentenarie di famiglia.

Lo abbiamo incontrato prima della pausa estiva e ci siamo fatti raccontare qualcosa di più su Drengot e sulla sua visione.

Sei partito da una vigna di famiglia e da lunga storia, operando una piccola rivoluzione nel territorio di Cesa e di tutto l’aversano. Ci racconti come è nato il tuo progetto e perché hai scelto di lavorare solo con Asprinio?

Per raccontarti come siamo arrivati a Drengot voglio fare una premessa, per me importante, che riguarda il territorio in cui ci troviamo.

La provincia di Caserta è una delle migliori di Italia per la vitivinicoltura perché è estremamente fertile – siamo nel cuore di quella che gli antichi chiamavano Campania Felix – ma proprio la sua fertilità ha fatto sì che, soprattutto dal dopoguerra in avanti, ci si concentrasse su coltivazioni intensive, per sfruttare al massimo la ricchezza del territorio. Anche perché i prodotti alimentari del casertano non hanno eguali in Italia dal punto di vista qualitativo e, quindi, sono sempre stati molto richiesti. Non lo dico per partigianeria, è la realtà e lo dimostra il fatto che ancora oggi la gran parte dell’industria agroalimentare del paese viene qui a comprare materie prime e prodotti per poi rivenderli con la propria etichetta. Il limite di questo sistema qual è, però? Che questa zona, speciale dal punto di vista agronomico, ricchissima in biodiversità e con una lunga tradizione agroalimentare, è diventata, nel tempo, una terra di contoterzisti a servizio di tutte le aziende del paese. È stata la sorte di molte zone del Sud Italia, a seguito del boom economico e con la parallela perdita della vocazione agricola di queste zone. Sembra, però, che le cose stiano piano piano cambiando, anche se ci vorrà tempo per vedere i risultati.

Sì, è vero, gli imprenditori agricoli di nuova generazione stanno cercando di fare un lavoro diverso. Per esempio, qui nell’aversano ci sono tantissime aziende agricole che operano in biologico e soprattutto si stanno facendo strada molte realtà che hanno scelto di entrare nella grande distribuzione con un marchio proprio e con un posizionamento e una strategia di comunicazione a supporto. Stiamo cercando di uscire dalla logica contoterzista per riappropriarci della nostra identità, anche per poter dare il giusto valore – economico e culturale – ai nostri prodotti, che sono davvero di qualità altissima, che si tratti di frutta, di verdura, di vino o di formaggi.

La cosa più difficile è capovolgere la prospettiva e allontanare tutti quei pregiudizi che si sono nel tempo accumulati e che, nella maggior parte dei casi, sono frutto di una pessima narrazione delle nostre terre e della nostra storia.

Tu con Drengot stai cercando di dare un tuo contributo per quanto riguarda il vino, dando una nuova vita a varietà autoctona come l’Asprinio. Mi sembra che il tuo progetto sia animato da un certo spirito battagliero.

Assolutamente sì. Quando ho iniziato a pensare di avviare un progetto sui terreni di famiglia, non avevo in mente di fare vino ma ero sicuro di voler qualcosa per restituire a questo territorio quello che merita, con un misto di orgoglio e di senso di riscatto, per tutto quello che ci è stato tolto e le opportunità che non ci sono state date.

La scelta dell’Asprinio è arrivata strada facendo, ci sono stati due episodi piccoli ma decisivi. Il primo è stato una lunga chiacchierata con un produttore di vino del Veneto, per il quale l’Asprinio è uno dei bianchi migliori d’Italia. Per me è stata una sorta di illuminazione, che mi ha portato a riflettere molto, anche perché la mia famiglia alleva Asprinio da sempre, almeno dal 1800, ma sicuramente potremmo andare ancora più indietro, volendo fare un po’ di ricerca. E io stesso sono cresciuto in mezzo alle vigne, insieme ai miei cugini ho passato tutte le mie estati di bambino e ragazzino lì. Quindi, dopo questo incontro ho fatto un giro nella vecchia cantina di mio nonno e per le vigne e così ho deciso, immaginandolo subito come un progetto di lungo respiro, a venti – ma anche trenta – anni. Volevo costruire qualcosa che potesse durare nel tempo e che desse davvero valore a questa terra. L’Asprinio ha caratteristiche che lo rendono unico nel panorama vinicolo italiano. Ci dici qualcosa di più?

Per prima cosa bisogna dire che è un vitigno che qui si alleva fin dall’antichità e che definire territoriale è poco, perché cresce solo qui e quando dico “qui” intendo i quindici comuni dell’aversano, perché se già provi a spostare l’Asprinio di pochi chilometri, diciamo a Caserta, non cresce più.

E fammi fare anche un piccolo excursus storico: nel Settecento, a causa di una pandemia a Napoli e dintorni, un nobile locale decise di trasferirsi e isolarsi – non abbiamo certo inventato noi il lockdown –  nel castello di Tufo, portando con sé, fra i vari beni, anche alcune viti di Asprinio per impiantarle nei terreni circostanti. Ora, una delle caratteristiche di questa varietà è che si sviluppa in altezza, raggiungendo e superando i 15 metri,  a Tufo però le viti non riuscivano a crescere e presero nel tempo un’altra fisionomia e altre caratteristiche: il Greco di Tufo è nato dall’evoluzione di quelle prime viti di Asprinio.

E proprio dalla straordinaria altezza di cui ti parlavo deriva la peculiare struttura delle alberate aversane: le viti di Asprinio crescono intrecciate – o “maritate” come si dice da noi – ai pioppi che vengono utilizzati come supporti, mentre i tralci si attorcigliano a cavi di ferro zincato, creando quasi dei muri vegetali. È un’altra di quelle meraviglie che si trovano solo qui, tanto che le alberate sono state riconosciute come patrimonio immateriale della Regione Campania.

La leggenda dice che l’Asprinio è stato il primo spumante dalla storia. Quanto c’è di vero?

È tutto vero! Semplicemente perché l’Asprinio ha un’acidità di dieci decimi. Non esiste nessun’altra uva che raggiunge questi livelli, quindi si può dire che dall’Asprinio nasce un vino naturalmente frizzante. È uno spumante naturale di fatto e quando diciamo che le bollicine sono nate qui, lo diciamo perché alla corte degli Angiò si beveva solo Asprinio, proprio perché frizzante. Tutto questo è documentato.

Il primo documento ufficiale in cui si cita l’Asprinio è datato 1495 ed è una scrittura privata fra un proprietario terriero e il suo colono ma, come ti dicevo, nell’aversano si alleva da sempre.

È incredibile come un vino così speciale sia stato così poco valorizzato, quasi dimenticato. Credo che sia una dinamica collegata anche al contoterzismo di cui parlavi prima.

Sì, certo. In realtà a livello locale non si è mai smesso di consumare Asprinio ma diciamo che è sempre stato il classico vino da vendere sfuso o da produrre e destinare a uso privato e questo perché dal secondo dopoguerra fino agli anni Novanta il grosso della produzione era destinato alla cantina della Vecchia Romagna, che pagava molto bene le uve per due utilizzi: l’uva era usata per ottenere una base spumante da vendere ai produttori francesi di champagne; con la vinaccia, invece, si otteneva il famoso brandy. Quindi, per decenni – fino alla chiusura di questa cantina – non è stato più redditizio produrre un nostro vino.

Per quanto riguarda la nostra azienda agricola, alla morte di mio nonno (nel 1990), mio padre ha preso in mano la sua gestione, dedicandosi soprattutto alla vigna che è antica, tutte le nostre piante hanno circa 200 anni. Drengot nella sua fisionomia attuale quando è nata, quindi?

Le prime due annate sono state la 2015 e 2016, ma nei fatti sono state dei test, non abbiamo mai pensato di commercializzarle. Nel 2017 ho ripensato tutta la struttura, con un nuovo gruppo di lavoro che funziona molto bene e, così, siamo arrivati a una formula convincente: il lancio sul mercato del vino è avvenuto nel 2018 e quello dello spumante nel 2019.

Avevo in mente un prodotto “ultra-territoriale”, lavorando solo ed esclusivamente con Asprinio, per tutti i motivi che già ti ho raccontato, e volevo che fosse un prodotto di alta qualità che rendesse finalmente giustizia al grande potenziale di quest’uva. Volevo dimostrare, ai miei conterranei prima di tutto, che quel vino, che qui chiamavano tradizionalmente “il vinello”, poteva essere un ottimo vino, di grande piacevolezza e con buon potenziale evolutivo. Un vino di fascia alta.

Ho scelto il nome Drengot per dichiarare da subito il legame con il territorio. Mentre le nostre tre referenze hanno nomi connessi alla storia locale: Terramasca significa terra vulcanica, quindi rimanda al carattere delle nostre terre, Scalillo è un omaggio alla scala che usiamo durante la vendemmia e che ha una particolare forma rastremata per consentire la raccolta manuale sulle nostre alberate e, infine, Asprinium per celebrare fino in fondo la nostra varietà, con un rimando al mondo latino, quindi alle nostre radici.

Terramasca è la vostra referenza di punta, lo definirei un metodo Charmat “nobile” perché matura un anno in acciaio, fa diciotto mesi di affinamento sui lieviti, con un riposo, poi, in bottiglia di almeno altri sei mesi. Considerando, però, il carattere naturalmente frizzante dell’Asprinio, mi viene spontaneo chiederti se pensi di produrre anche un metodo classico.

In realtà ci stiamo già lavorando e ti posso dire che, nel futuro prossimo, Terramasca sarà esclusivamente un metodo classico, non posso essere più preciso perché vogliamo prenderci tutto il tempo che ci serve per arrivare a una bollicina perfetta, che ci soddisfi a pieno. Quest’uva se lo merita!

Sicuramente, Terramasca rimarrà la nostra eccellenza, ma non abbandoneremo del tutto lo Charmat. Lo useremo, infatti, per una nuova referenza un po’ più giovane e non più di annata e per questo più accessibile nel prezzo. Per me è importante, in questo momento, far arrivare l’Asprinio a un pubblico ampio, senza naturalmente abbassare la qualità. Il tuo progetto sta dimostrando fin dove può arrivare l’Asprinio. Che impatto ha avuto il tuo approccio a livello locale? Come è stato recepito?

Ciò che ho portato io qui è stata soprattutto una mentalità positiva: il prodotto c’era ma era poco considerato, da noi per primi. E per questo motivo, nonostante tutte le peculiarità dell’Asprinio, il vino è sempre stato di bassa qualità; quello che ho scelto di fare io, invece, è stato nobilitarlo al massimo, mettendo in piedi un gruppo di lavoro di alto livello e mostrando a tutti tutto il potenziale che abbiamo. E nel farlo ho stupito positivamente i consumatori ma anche gli altri imprenditori agricoli. Diciamo che sono riuscito a smuovere le acque.

Per me, personalmente, Drengot va oltre le opportunità imprenditoriali, è un progetto che riguarda soprattutto il territorio nella sua interezza: sono partito dall’Asprinio per dare nuovo valore a tutto quello che abbiamo qui. Però ammetto che c’è tantissimo da fare e che sono solo agli inizi, con la complicazione che ci troviamo a dover fare il lavoro di un consorzio, che qui non c’è.

Capisco, anche perché per portare avanti certi discorsi servono le istituzioni e serve anche una visione di marketing territoriale, che sono può essere affidata solo a un singolo.

Devo dire che le Pro Loco qui stanno facendo un gran lavoro di supporto. L’inserimento dell’Asprinio fra i beni immateriali campani, si deve al loro impegno. È un riconoscimento importantissimo, non solo a livello simbolico ma anche perché vincola tutti a una tutela delle viti e a una cura del territorio che prima non c’erano. Recentemente è stato fatto anche il passo successivo per ottenere il riconoscimento dall’UNESCO.

Inizia a esserci un certo movimento e una certa attenzione che prima mancavano e che riguardano l’Asprinio ma anche tutti i nostri prodotti locali. Vedo, per esempio, un rinascimento complessivo del vino del casertano, qui c’è un lunghissima e preziosa tradizione: abbiamo tanti rossi e tanti bianchi da splendide uve autoctone, sono poco conosciuti ma stanno trovando nuovo vigore, come il Casavecchia, che è davvero ottimo. È un bene perché si può creare, con il tempo e con il lavoro, un circolo virtuoso per tutto il territorio.

Per quanto riguarda me, sono molto ottimista perché credo molto nella qualità del mio prodotto, so che la storia dell’Asprinio ha un fascino tutto suo e sono molto determinato a contribuire alla rinascita della mia terra. Si tratta unicamente di dare tempo al tempo e lavorare con tenacia.

Redazione 7.09.2021

Nicola Biasi: l’importanza di rimettere al centro il territorio

Miglior giovane enologo d’Italia 2021 per Vinoway, premiato come Cult Oenologist per il Merano Wine Festival 2021 (il più giovane di sempre a ricevere questo riconoscimento), nel 2015 il premio Next in Wine di Simonit & Sirch – in collaborazione con Fondazione Italiana Sommelier Bibenda – e un carnet di esperienze professionali davvero ricco, sia come enologo all’interno di numerose aziende, sia come consulente: è il profilo molto (troppo) sintetico di Nicola Biasi, talentuoso enologo e vignaiolo che in questa intervista ci racconta come è nato il suo Vin de la Neu e qual è la strada, secondo lui, per raggiungere una reale sostenibilità.

Sia come enologo interno alle aziende, sia come consulente hai lavorato e lavori ancora in zone sicuramente vocate, una su tutte Montalcino. Quando però, si è trattato di fare il tuo vino, hai scelto un territorio non blasonato e, all’apparenza, anche difficile (ndr. Coredo, Trentino). Come mai?

Perché penso che le zone vocate non siano solo quelle “famose” e che non conosciamo ancora tutte le potenzialità dei nostri territori. L’esempio più evidente è proprio quello di Montalcino: è una delle denominazioni storiche italiane ma, in realtà, ha iniziato a fare vino seriamente e a concentrarsi sul Sangiovese solo una quarantina di anni fa. La zona è palesemente vocata e lo è sempre stata evidentemente, quello che è cambiato, nel tempo, è stato il nostro sguardo. Questa deve essere una lezione: bisogna continuare a studiare perché ci sono potenzialmente territori capaci di diventare i nuovi Montalcino.

Ovviamente, non sto dicendo che possiamo iniziare ad allevare vite dappertutto. Ma bisogna mettere il territorio al centro dei nostri pensieri. Cosa intendi? Non è sempre così, secondo te?

Sì e no. Per me il territorio è più importante del vitigno, che deve essere una sorta medium per far emergere il carattere del luogo. È un approccio, lo so, che fa passare in secondo piano il vitigno dal punto di vista dell’espressività organolettica ma che gli dà un’importanza di altro tipo, perché lo fa diventare lo strumento capace di far esprimere nella maniera più compiuta un territorio.

La scelta dello Johanniter per il tuo Vin de la Neu nasce da queste riflessioni, immagino.

Sì. Mi sono anche assunto il rischio di sbagliare ma ero convinto che lo Johanniter fosse il vitigno migliore per Coredo. Siamo in Alta Val di Non, dunque un terreno povero, che tende a farti produrre molto poco e questo eliminava già alcune scelte perché per certi vini il “poco” non è bene, né qualitativamente né quantitativamente. A quelle altitudini, poi, doveva essere per forza un bianco. E poi, volevo che fosse capace di durare nel tempo.

Mettendo insieme tutti questi fattori, sono arrivato allo Johanniter, perché ha i geni del Pinot Grigio e del Riesling: da un lato c’è la precocità del primo, di cui ho bisogno in una zona così fredda, dall’altro c’è il Riesling, importante per il potenziale evolutivo del vino.

Il terreno era un terreno di famiglia?

Era la casa dei miei nonni, una volta che sono ritornati in Italia dall’Australia e, per noi, è sempre stata il luogo delle vacanze. Noi vivevamo in Friuli all’epoca e i terreni sono sempre stati dati in affitto e ovviamente destinati alla coltivazione di mele. Dopo cinque anni di lavoro come enologo delle tenute Allegrini in Toscana, avevo voglia di fare un vino mio. Volevo mettermi alla prova e capire se e quanto ero bravo, facendo tutto da solo, senza la struttura di una grande azienda alle spalle. È stato abbastanza naturale guardare a un terreno di famiglia. Ho piantato nel 2012 e la prima annata è stata quella successiva.

Tornando allo Johanniter, quanto ha contato nella scelta il fatto che sia un vitigno PIWI?

Molto perché in questo modo ho praticamente azzerato i trattamenti. È la stata la chiusura del cerchio: fare un vino tutto mio, nel giardino di casa e per giunta realmente sostenibile. Sinceramente mi stimolava molto anche il fatto di provare a fare qualcosa che lì ancora non aveva fatto nessuno. Addirittura, ho scelto lo Johanniter quando ancora non aveva l’autorizzazione, che è arrivata solo nel 2014.

Possiamo già azzardare un bilancio di questo primi nove anni? Come si sta comportando il vitigno?

Innanzitutto, posso smentire molti detrattori dei vitigni resistenti, che sostengono che dopo alcuni anni i PIWI non resistono più alle malattie. Per ora le mie viti funzionano perfettamente dal punto di vista agronomico e sono resistenti. Poi non so cosa succederà da qui a trent’anni ma oggi è così.

Chiaramente, le vigne con qualche anno in più sulle spalle danno dei risultati diversi, i vini stanno migliorando costantemente, acquisendo col tempo una maggiore profondità organolettica. Ma fin da subito ho avuto una buonissima risposta, perché le vigne, aiutate dal terreno che le fa produrre poco, hanno sempre dato uve di alta qualità.

Vin de la Neu è una sola etichetta attualmente. Ti piacerebbe sperimentare con altre varietà?

Sono davvero molto soddisfatto di come si comporta lo Johanniter su quel terreno e, prima di tutto, vorrei incrementare la produzione: da 1000 a 2000 bottiglie. Nel 2017 ho piantato ancora perché il primo vigneto era davvero piccolo e nel 2025 amplierò ulteriormente, così arriverò a circa un ettaro di vigna e potrò far crescere la produzione.  Non escludo di piantare altro per capire come si comporta un’altra varietà, ma allo stesso tempo sono certo che farò solo un’etichetta. Forse più in là, Vin de la Neu potrebbe diventare un blend: un’evoluzione di questo tipo potrebbe interessarmi.

Ma è un progetto con una identità così forte e semplice che non voglio snaturarla con altre referenze. Quando la mattina della prima vendemmia – il 12 ottobre 2013 – ci siamo svegliati e tutto ero coperto di neve, ho pensato di aver trovato la mia storia. Il vino si chiama Vin de la Neu per questo motivo.

Con Vin de la Neu volevi fare un bianco capace di invecchiare, grazie anche al ricorso alla fermentazione malolattica. In Italia per i bianchi, tutto sommato, è ancora poco diffusa, perché secondo te?

C’è diffidenza verso la malolattica perché si teme sempre che appesantisca troppo i bianchi, li privi di freschezza. Ma è un pregiudizio, se è ben fatta conferisce stabilità al vino e quindi, al contrario, gli aromi si preservano meglio. Si perde forse qualcosa all’inizio ma in prospettiva si ha un vino bianco che può durare molto nel tempo. In Italia, i bianchi che invecchiano sono ancora troppo pochi e, siccome il potenziale evolutivo è fondamentale per dare valore a un vino, penso che dobbiamo iniziare a farne di più.

Anche per poterci confrontare davvero alla pari con i francesi, andando oltre la gara facile degli ettolitri prodotti o del numero complessivo di bottiglie vendute.

L’eterna rivalità Italia-Francia…

Guarda, io non credo che i francesi siano più bravi di noi a fare vino, credo siano più bravi a vinificare in un modo più adatto per fare vini di valore. Hanno la tranquillità e la forza di lavorare per fare vini che durano. Si sanno far aspettare. Su questo fronte, per me, siamo noi a dover cambiare, se lo vogliamo naturalmente.

Dato che la sostenibilità è una delle chiavi del tuo progetto, ti chiedo cosa rende un’azienda agricola sostenibile?

In fondo è molto semplice: alla fine del suo ciclo deve inquinare poco. Il paradosso, in questo momento, è che un’azienda può essere a tutti gli effetti certificata biologica ma inquinare comunque troppo.

Guardare solo quanti e quali prodotti vengono usati non dice abbastanza delle buone pratiche di un’azienda. Ti faccio un esempio semplice: posso usare solo zolfo e rame ma se poi devo fare più di 20 trattamenti e per ogni trattamento spreco 200 o 300 litri d’acqua l’impatto ambientale è enorme. Senza considerare la CO2 prodotta a ogni intervento. La sostenibilità deve riguardare un’azienda nella sua interezza: ogni passaggio produttivo, ogni singolo gesto quotidiano. E qui torniamo al tuo interesse per le varietà resistenti.

Ho assoluta certezza che le varietà resistenti oggi siano l’unica risposta concreta in viticoltura. Dico “oggi” perché non escludo che fra qualche tempo si scopriranno cose nuove ma allo stato attuale è così.

È per questo che, alla fine di luglio, è nata una rete di impresa che raggruppa le aziende che seguo come consulente e che hanno scelto questa strada. Nello statuto si parla di sostenibilità concreta, di vitigni resistenti, ma non solo, perché noi il focus deve essere, appunto, sulla sostenibilità e non sui mezzi che si usano per raggiungere questo obiettivo. Ogni iniziativa che tende a questo scopo per noi è ben accetta.

A questo punto mi sembra inevitabile chiederti cosa pensi della definizione di “vini naturali”.

A me non piace il termine perché divide in una maniera un po’ manichea i buoni dai cattivi: se sei naturale, sei dalla parte giusta, sennò sei un bandito. E invece le cose sono un po’ più complesse di così.

Inoltre, sono dell’idea che meno si vuole intervenire più si deve conoscere. E, invece, molto spesso – ovviamente non sempre – chi sta sotto il cappello del naturale queste conoscenze non le ha e ricorre all’idea un po’ romantica del vino una volta, del vino del contadino.

Si pensa che il vino sia soggettivo, ma non è così. O meglio, c’è il gusto personale ma prima di questo, per fare un buon prodotto – e questo vale per il vino e per ogni altra cosa – ci sono dei parametri oggettivi che arrivano dalla competenza e dal saper fare. Se un vino ha una volatile che supera le soglie di legge o comunque che devia gli aromi del vino, naturale e meno che sia, non può essere definito buono.

Diciamo che, come nel biologico, forse il naturale è un grande cappello sotto il quale si trova un po’ di tutto.

Ci deve essere un’etica in tutte le scelte che un’azienda compie, ma queste scelte devono essere indirizzate a ottenere un buon vino. Se scelgo il biologico o il biodinamico, lo devo fare non perché è una bandiera ideologica ma perché è il modo di operare che mi consente di fare il miglior vino possibile, nel contesto territoriale e ambientale in cui mi muovo.  È una prospettiva questa sulla quale mi confronto tantissimo anche con le aziende che seguo e che usano i vitigni resistenti.

Per me non ha senso mettere davanti a tutto la scelta dei PIWI, bisogna, invece, partire dalla qualità del vino, che è l’unica cosa, insieme a un approccio etico, che dà senso al nostro lavoro. Immagino che sia per questo che quando parli di Vin de la Neu parli molto poco di PIWI.

Sì, perché io credo molto nel potenziale dei PIWI ma credo anche che l’unico modo per arrivare a una loro diffusione sia quella di fare vini davvero buoni. Dobbiamo convincere i consumatori partendo dalla qualità del vino, è solo così che si può innescare un cambiamento, sennò rimarranno una bella nicchia, animata da valori sostenibili ma troppo piccola per fare la differenza.

All’inizio ho parlato del tuo curriculum molto ricco. Ci vuoi raccontare qualcosa di te?

Sono friulano e mio padre era enologo, dunque sono cresciuto in vigna e in cantina. Dopo la scuola di enologia, ho deciso di iniziare subito a lavorare perché avevo fretta di iniziare a fare. Dopo due vendemmie con Jermann, ho iniziato a lavorare con Patrizia Felluga, per Zuani, dove si facevano solo bianchi ed ero l’unico dipendente. E lì ho potuto mettere mano in tutte la parti del processo, ne avevo bisogno per capire, rendermi davvero conto.

Dopo cinque anni da Zuani, sono andato in Australia, poi una volta tornato ho lavorato per qualche mese al Castello di Fonterutoli e poi sono andato in Sud Africa. Qui mi ha chiamato Marilisa Allegrini per propormi di seguire Poggio San Polo. Non potevo rifiutare e, successivamente, ho iniziato a occuparmi anche di Poggio al Tesoro.

A Marilisa devo moltissimo ma dopo qualche anno avevo, di nuovo, bisogno di cambiare: prima ho piantato la vigna a Coredo e poi nel 2016 ho deciso di fare il consulente, mi piaceva l’idea di lavorare contemporaneamente su territori diversi. Nel 2021, in piena pandemia, ho creato la Nicola Biasi Consulting una società di consulenze per le aziende che fanno vino. L’obbiettivo è di poterle seguire a 360 gradi, collaborando con professionisti dalla formazione specifica.

Un’ultima domanda: fai anche parte del progetto Wine Research Team. Di cosa vi occupate?

È una rete d’impresa voluta da Riccardo Cotarella nel 2012 e composta da quaranta aziende che fanno ricerca e sperimentazione in viticoltura ed enologia. È una sorta di snodo fra l’università e le aziende. Diciamo che cerchiamo di trovare applicazioni pratiche, sperimentando sul territorio, tecnicamente, quanto studiato dalle università o dagli enti di ricerca scientifica.  E le soluzioni che troviamo sono messe a disposizione delle aziende associate. È un lavoro per me molto bello, molto stimolante e che ci sta dando grandissime soddisfazioni.

Quattro brindisi (in rosa) per la nostra estate

È uno dei trend di mercato degli ultimi anni: finalmente – diciamo noi – le bollicine rosate iniziano ad avere il successo che meritano; certo, siamo ancora lontanissimi dai grandi numeri dei bianchi – che forse rimarranno irraggiungibili – ma gradualmente i rosé stanno uscendo dalla nicchia, attirando un numero sempre maggiore di estimatori. Una delle ragioni di questo nuovo interesse risiede probabilmente nella versatilità: il panorama delle bolle rosate, infatti, è così variegato per carattere ed espressività (e anche fasce di prezzo) che è possibile trovare un rosé giusto per ogni circostanza. E così abbandonando una volta per tutte l’obsoleto cliché del “vino da donne” e abbracciando le tante sfaccettature di questa tipologia di vini, si scopre che uno spumante rosé può essere un ottimo vino a tutto pasto – di pesce ma anche di carne, con i giusti abbinamenti – e che d’estate quel mix seducente di struttura e morbidezza, in proporzioni variabili a seconda dei casi, può essere un rinfrescante antidoto al caldo afoso.

Calendario alla mano, quale momento più propizio di questo, dunque, per proporvi quattro eccellenti bollicine per accompagnare le vostre vacanze? Uberti – Francesco I Franciacorta Rosé Brut. La bollicina rosata di Uberti fa parte della linea dedicata a Francesco I, un omaggio al re francese che – secondo la tradizione – nel Cinquecento decise di sostenere la produzione di vini spumanti, fino a quel momento poco diffusi perché considerati “difettosi”.

È una cuvée di Chardonnay (60%) e Pinot Noir (40%) che, con il suo piacevole color rosa confetto dai riflessi aranciati, declina in rosa la filosofia territoriale della famiglia Uberti. Le uve sono raccolte manualmente, sottoposte a una rigorosa selezione, per poi attraversare percorsi di vinificazione differenti – il Pinot Noir, infatti, sosta per qualche giorno a contatto con le bucce – ed essere infine assemblati. Dopo il tiraggio, Francesco I Rosé trascorre un minimo di trenta mesi sui lieviti prima della sboccatura e altri sei mesi in bottiglia prima del rilascio al pubblico. Il risultato è una bollicina fruttata e di grande morbidezza, non priva di freschezza e mineralità e, per questo, di un’eleganza pulita e bilanciata, come sempre accade con i vini di Uberti.

Ci piace perché: è una bollicina versatile, capace di intercettare il gusto contemporaneo senza rinunciare al proprio carattere elegante e identitario. Un rosé dalla beva facile ma non banale, perfetto per uno spensierato aperitivo estivo o per accompagnare un’intera cena vista mare. Ferrari – Giulio Ferrari Riserva del Fondatore Rosé 2008. Presentata alla fine del 2020, l’annata 2008 del Giulio Ferrari Rosé è solo la terza rilasciata sul mercato di questa riserva anagraficamente giovane ma già considerata un’icona delle bollicine italiane rosate. Il rosé alla maniera di Ferrari esalta il Pinot Noir di montagna, che costituisce il 70% del blend e che, grazie all’affinamento di dieci anni sui lieviti, si fonde armoniosamente con lo Chardonnay, in una sintesi elegante e finissima delle migliori uve destinate alle riserve dell’azienda.

Color salmone con riflessi ramati e un perlage fine e persistente, l’annata 2008 trasmette una vibrante intensità da subito, grazie al suo bouquet olfattivo complesso, nel quale le note agrumate si fondono con quelle fruttate di fragola e tamarindo, accenni speziati e note minerali di iodio e calcare. L’assaggio è strutturato e potente e allo stesso tempo lungo ed equilibrato, guidato dal filo rosso della freschezza, che costituisce l’inconfondibile cifra stilistica di casa Ferrari.

Ci piace perché: per tutti coloro che amano la freschezza e la mineralità delle bollicine di montagna, ma anche la struttura del rosé, Giulio Ferrari Rosé è quasi la bottiglia perfetta, la quadratura del cerchio che armonizza con eleganza questi due mondi. Un Trentodoc di grande carattere, che sicuramente può essere il brillante compagno di un’intera cena a base di pesce; il nostro consiglio, però, è di osare e lasciarvi sorprendere da abbinamenti più insoliti. Non vi deluderà. Dom Pérignon – Rosé Vintage 2006. Un mito nel mito, se è possibile. Un grande vino che nasce da uve provenienti da alcuni dei più prestigiosi Grand Cru e Premier Cru della Champagne e che viene prodotto, naturalmente, solo nelle annate migliori. Protagonista assoluto, il Pinot Noir che, supportato dall’immancabile Chardonnay e parzialmente vinificato in rosso, dona a questa riserva la struttura tannica che la rende unica.

Più di dieci anni di affinamento sui lieviti nobilitano questo champagne, che la stessa maison ha definito “paradossale” per l’equilibrio che riesce a raggiungere tra poli opposti: maturità e giovinezza, essenzialità ed espressività.

Vincent Chaperon – Chef de Cave di Dom Pérignon dal 2019, dopo tanti anni passati al fianco del grande Richard Geoffroy – dice a proposito del Rosé e dell’annata 2006 in particolare: «Trasgredisce le regole e ci mostra sicuramente una doppia anima: quella tenace, che viene fuori grazie alla forza sorprendente del vino rosso fermo e quella leggiadra e armonica che ci riporta nel cuore della produzione della Champagne. Trovare questo equilibrio è sempre una sfida. Fare il Rosé ci proietta sempre in una situazione di pericolo. Che solo con l’assaggio, dopo un lungo affinamento in bottiglia, viene scongiurato».

Ci piace perché: come potrebbe non piacerci? Siamo al cospetto di un vero capolavoro, che offre un’esperienza sensoriale intensissima. Con crostacei e crudi di mare è pura sensualità ma il consiglio migliore arriva da Chaperon che suggerisce di assaggiare il Rosé Vintage 2006 con spirito sperimentale e assolutamente libero.

Da non dimenticare che questo champagne ha anche un grande potenziale di invecchiamento, per chi vorrà e saprà aspettare. Perrier-Jouët – Belle Epoque Rosé 2007. È un paradigma quando si parla di bollicine rosé per via dell’armonia e dell’espressività che sono la sua cifra distintiva e non a caso lo Chef de Cave di Perrier-Jouët, Hervé Deschamps, lo definisce «un vino delicato e al tempo stesso ricco e voluttuoso; intenso, generoso e vigoroso ma anche di grande finezza». Il Belle Epoque Rosé è un assemblaggio di uve Chardonnay, Pinot Noir e Pinot Meunier provenienti dai più blasonati cru della Champagne, affina sei anni sui lieviti e viene prodotto, come si confà a uno champagne così prestigioso, solo nelle annate eccezionali.

Dall’elegantissimo colore rosa antico e da un perlage finissimo e cremoso, è un rosé dalla personalità stravagante, nella quale gli aromi floreali e fruttati si intrecciano a note agrumate, di spezie e frutta secca. Al palato è fresco e vivace ma anche intenso e cremoso. Perfetta espressione dello stile raffinato che da sempre caratterizza la Maison.

Ci piace perché: anche in questo caso sarebbe impossibile il contrario. Il Belle Epoque Rosé è uno champagne prezioso che trasmette lo spirito gioioso e vitale di quella Belle Epoque a cui deve il nome e che, anche per questo, regala un’esperienza gustativa sensuale ed espressiva. È una di quelle bottiglie che non dovrebbe mai mancare in una cantina ideale.

E – sorprendentemente se si pensa alla sua complessità – è uno champagne molto versatile e in virtù di questo può essere protagonista di diversi abbinamenti, dai più classici ai più inaspettati, che non faranno altro che esaltare quel carattere stravagante di cui parlavamo.

Redazione 10.08.2021

Speciale bollicine Ferrari

Il perlage del Trento Doc firmato dalla famiglia Lunelli incontra ricette a base di pesce perfette per l’estate (e per tutto l’anno).

Una cena in terrazza, un aperitivo in spiaggia o a bordo piscina, un pranzo con il mare sullo sfondo. E ancora, una buona compagnia e un menu a base di pesce, crostacei e molluschi: ecco il necessario per mettere su una situazione ideale in questi mesi estivi, tanto in città quanto in vacanza. A completare il tutto non mancano che delle “bolle” ben fresche, che accompagnino le portate e la conversazione.

Diversificata ma accomunata dalla grande attenzione alla qualità (e all’ambiente) e da una cifra stilistica incentrata sull’eleganza, la produzione trentina di Cantine Ferrari – l’azienda ultracentenaria creata da Giulio Ferrari e acquisita nel 1952 da Bruno Lunelli, oggi guidata dai nipoti Marcello, Matteo, Camilla e Alessandro – offre una gamma di etichette che permette di stappare e brindare a tutto pasto, realizzate con le uve Chardonnay e Pinot Noir dei vigneti trentini, secondo il disciplinare del Trento DOC che segue il metodo classico. Il Riserva Lunelli – Blanc de Blanc Extra Brut rotondo e dal bouquet complesso, tra gli ultimi nati in casa Ferrari – è un ottimo avvio per sciogliere il ghiaccio e accompagnare qualche assaggio iniziale, magari in versione finger food: dal classico e sempre buonissimo pane con burro e acciughe agli originali “crostini” di croccante pane carasau conditi con un’insalata di muggine, sedano e patate (o anche con la sapida bottarga, sempre smussata dalle patate).

Il sapore iodato ma con tendenza dolce delle cozze – cucinate al vapore e insaporite appena da olio extravergine, poco vino bianco e prezzemolo, con al massimo qualche goccia di limone – viene esaltato dal profilo avvolgente ma molto equilibrato e armonico della Gran Cuvée millesimata, nonché dal suo perlage fine e persistente, con sentori floreali e fruttati bilanciati da spezie e frutta secca. Disponibile solo in grandi formati, è una bottiglia da aprire con una compagnia (giustamente) numerosa e ideale anche per accompagnare primi piatti con delicati sughi a base di crostacei.

Caratterizzato da un naso vibrante di note agrumate e speziate e da un sorso che è insieme morbido, fresco e minerale, il Giulio Ferrari Riserva del Fondatore Rosé , realizzata con il 70% di Pinot Noir ad affiancare lo Chardonnay, è ideale per accompagnare tanto una croccante frittura di pesce quanto un sontuoso “cuoccio” (pesce cappone o gallinella di mare) cucinato all’acqua pazza secondo l’antica tradizione dei pescatori campani. Cotto in un tegame da forno con olio, aglio tritato e pomodori, ricoperto d’acqua e con abbondante aggiunta di prezzemolo a fine cottura, è un piatto saporito ma delicato la cui sapidità marina viene esaltata alla perfezione dall’eleganza delle bollicine.

– Luciana Squadrilli 15.07.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

Venissa e il senso profondo della sostenibilità

Matteo Bisol, insieme al padre Gianluca, gestisce l’universo Venissa in tutte le sue espressioni. Parlare con lui significa indagare una parola oggi spesso abusata, a volte sfruttata, sempre di tendenza, ma quasi mai esplorata nella sua accezione più profonda. Sostenibilità. Con Matteo scopriamo che in fondo il concetto è lineare e risponde a una semplice domanda: la terra che abitiamo ha le risorse per sostenere il nostro progetto? Stiamo arricchendo il territorio, o gravando su di esso?

Ciao Matteo, per parlare del mondo Venissa e dei suoi equilibri, potremmo partire dalla vendemmia che ha seguito la grande acqua alta di due anni fa. Un episodio specifico che, però, presenta una serie di elementi peculiari del mondo lagunare tout court.

Tu sei stato da Venissa proprio nel novembre del 2019, il mese della grande acqua alta. Quello è stato un evento che ci ha fatto preoccupare molto, perché l’acqua ha raggiunto livelli record, simili a quelli che cinquant’anni fa avevano dato un durissimo colpo alla viticoltura in laguna. Poi fino ad aprile, quando è ripartita la vigna, non abbiamo avuto modo di capire come stessero le cose, perché durante la fase invernale non puoi sapere se le viti siano sopravvissute o meno. Quindi sono stati mesi di grande apprensione, e in primavera è stato poi un sollievo veder ripartire le piante. Una dimostrazione di come la vite in generale, e la Dorona nello specifico, sappia adeguarsi a ogni tipo di condizione. È la magia di questo vitigno, che si è saputo adattare al clima, al terreno, a tanti fenomeni tipicamente lagunari. Credo che questo rappresenti anche il senso più profondo di Venezia e del suo mondo. Un continuo adattarsi dell’uomo alla natura, che porta a qualcosa di meraviglioso.

Come è stata la vendemmia del 2020, che ha seguito l’acqua alta di cui hai raccontato?

Per noi è stata letteralmente la miglior vendemmia di sempre. Il tema da sciogliere è quello degli effetti del sale nella coltivazione dell’uva. Se andiamo a vedere le analisi, non ritroviamo un livello di sodio differente da quello di vini prodotti in altri luoghi. Questo perché la vite non ha un buon rapporto con il sale, e quindi tende a non assumerlo, lo lascia nel terreno. Quindi non esiste una trasposizione diretta del sodio nel vino. Quello che invece esiste è una trasposizione indiretta dello stesso, nel senso che la quantità di sale presente nel terreno diminuisce la vigoria e la quantità di uva prodotta. L’effetto è simile a quello di tanti terreni calcarei, o gessosi. Terreni difficili, non fertili, non generosi, che in qualche modo mettono in difficoltà la pianta. Questa condizione di difficoltà permette di fare una produzione limitata, e di arrivare a vini con più carattere, e più complessità. Nel 2020, dopo l’acqua alta, è successo proprio questo. E chissà quante altre cose scopriremo. Noi abbiamo iniziato meno di vent’anni fa, un tempo brevissimo nel mondo del vino. Il vigneto ha quindici anni, e solo negli ultimi tempi ha iniziato a esprimersi nella sua fase adulta. È ancora un vigneto giovane. Noi stessi stiamo cercando di capire come esprimere tutto il suo potenziale, e lo possiamo fare solo di anno in anno, aspettando i tempi della natura.

Parlando di Dorona, come è nata la vostra storia con questo vitigno?

Nel 2002 mio padre ha trovato le prime piante. Con un barchino, e una bicicletta a bordo, giravamo tra le isole meno conosciute, in cerca degli ultimi contadini attivi nella coltivazione di varietà quasi scomparse. Abbiamo trovato un’ottantina di piante e abbiamo piantato il vigneto di Venissa, sull’isola di Mazzorbo. Abbiamo scelto un’area che è sempre stata dedicata all’agricoltura, e alla viticoltura in particolare. Stiamo parlando di terreni difficili, e siamo rimasti sorpresi dalla capacità della Dorona di portare a vini di grande armonia e finezza.

Equilibrio e finezza. È questa, dunque, la cifra stilistica dei vini di Venissa?

Sì, direi di sì, sono proprio queste le caratteristiche principe dei nostri vini. Lo stesso equilibrio che la varietà vive in relazione con il suo ambiente, lo ritroviamo nel bicchiere. Io credo in generale che i grandi vini non siano semplicemente frutto di un terroir, ma dell’equilibrio tra il terroir, il vitigno e l’uomo che ha imparato a far dialogare queste componenti.

E cosa ci dici di Venissa 2016 nello specifico?

Guarda, forse direi che è l’annata migliore del decennio. Sicuramente superiore alla 2015, in termini di freschezza innanzitutto. È anche più elegante. Siamo davvero molto soddisfatti. E siamo rimasti colpiti da come il vigneto, anno dopo anno, abbia saputo adattarsi al contesto ambientale. Più gli anni passano, più le viti entrano in simbiosi con la natura che le circonda, e meno hanno bisogno del nostro intervento. Pensa che in certi punti della vigna si trovano un sacco di piante tipicamente lagunari, come la salicornia. In altre zone leggermente più alte, stiamo parlando di qualche decina di centimetri, ne vedi spuntare di altri tipi. Come i papaveri, ad esempio. E poi tanti insetti e altri animali come anatre, aironi, colibrì. E tutto naturalmente dialoga con il resto del contesto. Questo nasce da una scelta ragionata. A Venissa abbiamo deciso di contenere la superficie dedicata alla vigna per lasciare spazio ad alberi, prati, orti. Per noi era un punto imprescindibile.

Parliamo invece del mondo dei rossi. Rosso Venissa ha una storia differente, e anche dal punto di vista geografico nasce su un’altra isola, corretto?

Sì, è vero, stiamo parlando dell’isola di Santa Cristina. Un’isola unica, che si trova in una zona della laguna difficilissima da raggiungere. In questo caso davvero si può parlare di viticoltura eroica, perché abbiamo grossissime difficoltà nel lavorare quella vigna. Intanto perché non tutte le barche possono raggiungere l’isola. Non ci sono canali, quindi chi conduce la barca deve sapere esattamente dove andare, per non rimanere “in secca”. In più, l’isola si può raggiungere solo in condizioni di alta marea, quindi tutte le lavorazioni sono scandite dalle maree, di fatto.

Cosa c’è sull’isola? È abitata?

Di base non ci abita nessuno. L’idea di René, proprietario dell’isola e discendente della famiglia Swarovski, era quella di creare una sorta di ashram per esperienze di meditazione. Ci sono orti, animali, e una grossa parte di peschiera, con tantissimi pesci come orate e branzini. È davvero un ecosistema a sé. Sono trenta ettari, se non sbaglio, di cui quindici sono acqua. Mentre il vigneto è di tre ettari. Abbiamo principalmente Merlot, che in Veneto è un vitigno molto diffuso da diversi secoli, e poi c’è un 20% di Cabernet Sauvignon. Lì, fortunatamente, non abbiamo il problema dell’acqua alta, perché l’isola è leggermente rialzata e circondata da argini in pietra.

Tra l’altro l’isola di Santa Cristina ha una storia antichissima

Sì, è l’unica isola rimasta di quello che era l’arcipelago di Ammiana, scomparso da secoli. Rappresentava, insieme a Torcello, uno dei primi insediamenti della Venezia romana, dove di fatto è nata Venezia. Sono luoghi di grande storia.

Quali risultati state ottenendo con Rosso Venissa? Quali sono le sue caratteristiche salienti?

Siamo contenti dei risultati che stiamo avendo. Ad oggi la salinità e la mineralità tipiche della Laguna ci salvano dal clima caldo. Io non credo che in generale l’Italia sia la terra adatta per produrre grandi Merlot. Masseto, ad esempio, fa eccezione proprio perché nasce da terreni con una salinità molto elevata. Anche loro, come noi, spesso hanno piante che soffrono e muoiono a causa della tossicità del sale. L’agronomo con cui lavoriamo segue anche loro, e ci ha più volte confermato che esistono tante similarità tra i due vigneti, pur trovandosi in zone completamente diverse. Perché il clima della Laguna di Venezia è più simile a quello della Toscana, piuttosto che al clima Veneto. È un clima che, per temperature medie e precipitazioni, ci porta più a sud.

Come evolverà Rosso Venissa, e con quali tempi?

Guarda, è proprio questo il punto del nostro lavoro, il tempo. Si tratta di processi lunghi, servono anni per capire il potenziale espressivo dei due vitigni. Arrivare al vino che abbiamo in testa richiede pazienza. Se vuoi da qui deriva un po’ anche il bello del nostro lavoro: il vino che hai in testa oggi, è un’evoluzione di quello che stai mettendo sul mercato. Con il Rosso stiamo proponendo la 2012, che è splendida, e nel frattempo ci sono state evoluzioni, noi stessi siamo cambiati. Io credo che si possa lavorare ancora per trovare la massima espressione del Merlot, e questo mi dà grande speranza. Perché oggi siamo già arrivati a un punto molto interessante, e l’idea che ci sia ancora tanta strada da fare fa ben sperare per il futuro.

di Graziano Nani 15.06.2021

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Non si è mai troppo dolci

Chi lo ha detto che passiti e muffati possano accompagnare solo i dessert? Ecco qualche idea diversa per abbinamenti salati.

Il bianco con il pesce, il rosso con la carne e il vino dolce a fine pasto: queste erano, fino a pochi anni fa, le regole canoniche degli abbinamenti tra cibo e vino, sempre più spesso superate dalle indicazioni dei sommelier meno ingessati e dalle evidenti dimostrazioni di gusto. Quella di relegare i vini dolci e liquorosi al momento del dessert, però, resta la più difficile da scardinare, con l’eccezione del mondo dei formaggi che – in particolare per quanto riguarda erborinati e formaggi cremosi a pasta fiorita – trovano da sempre eccellenti compagni in questi calici.

Anche se è innegabile che in linea generale l’abbinamento dolce/dolce funzioni, guardando magari alle cucine lontane dalle nostre – dove l’agrodolce è un concetto piuttosto diffuso – si può trovare qualche idea diversa per bere ottime bottiglie di questa tipologia anche con cibi salati. Di certo non a tutto pasto ma piuttosto con un’entrata a sorpresa nel menu, e avendo cura di servirli alla temperatura giusta: con il freddo, infatti, le percezioni cambiano notevolmente e questo aiuta ad ammorbidire la sensazione di dolcezza e di alcolicità di questi vini. Così ad esempio, servendolo intorno ai 12°C, anche l’esplosiva dolcezza (comunque mai stucchevole) dell’Epokale Gewurztraminer Spätlese di Cantina Tramin – forgiata nei suoi profumi speziati e di frutta esotica da sette anni di riposo in una grotta situata a 2000 metri d’altezza e 450 sotto la montagna – potrà accompagnare in modo sicuramente non banale un’anguilla laccata alla giapponese, con il grasso della carne e l’equilibrata dolcezza della laccatura bilanciata dall’inattesa freschezza ed eleganza del vino.

Restando su abbinamenti più territoriali, un Recioto della Valpolicella Classico (in questo caso non eccessivamente freddo, sui 14°C) come quello “A Roberto” di Quintarelli, con le sue note vellutate e avvolgenti di frutti rossi sotto spirito, potrebbe ben accompagnare un tradizionale cinghiale al cacao o in salmì – a esaltare i profumi di cannella e altre spezie – ma pure una guancia di maialino cotta a bassa temperatura in salsa di cioccolato fondente. Guardiamo invece al confine tra Francia e Germania, e in particolare all’Alsazia, per proporre un abbinamento decisamente fuori dai canoni con un vino unico che nasce in un’altra terra di frontiera: l’8’9’10 di Gravner – Ribolla gialla da uve botritizzate, fermentata in anfora e affinata almeno 48 mesi in piccole botti di rovere – tra i 10° e i 12°C può accompagnare non solo formaggi stagionati e particolarmente intensi come l’eccellente Jamar friulano ma anche una Baeckeoffe, tipica casseruola al forno della regione francese in cui la carne viene marinata nel vino e poi cotta nel forno con cipolle e patate in una pentola sigillata con l’impasto del pane.

Azzardando ancora di più, potrebbe essere una bella sfida – ideale anche per la stagione estiva, sempre tenendo d’occhio la temperatura di servizio che in questo caso dovrebbe essere di circa 14°C– quella di proporre il Vin Santo Occhio di Pernice di Avignonesi, con il suo complesso profilo aromatico che ricorda datteri, fichi secchi, amarene e agrumi canditi, con una soffice pizza condita con prosciutto (o ancora meglio, culatello) e fichi, invece dei soliti cantucci. Mentre in inverno, anche con qualche grado in più, una scaloppa di foie gras di certo non lascerà deluso nessuno. Fegato grasso in terrina e formaggi erborinati – come un Roquefort o un Bleu d’Auvergne, per restare in Francia, ma anche un Blue Stilton inglese o un italianissimo Gorgonzola – sono abbinamenti ben collaudati anche per l’immenso Château d’Yquem, con le sue sfumature affascinanti di frutta essiccata e candita, miele e spezie. Noi però vogliamo divertirci a proporvi un abbinamento decisamente più insolito, mediterraneo ed estivo affiancando a un calice ben freddo (intorno ai 7°C) un delizioso cocktail di scampi o di gamberi con un salsa rosa realizzata a dovere.

– Luciana Squadrilli 04.06.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

I vini iper-territoriali di Fabio Tassi

Fare la conoscenza di Fabio Tassi significa prima di tutto incontrare un uomo profondamente innamorato di Montalcino e della sua famiglia. Un sentimento che traspare da ognuna delle sue attività – tanto quelle ricettive quanto la cantina – e che dimostra come si possa trovare un perfetto equilibrio fra il rispetto del passato e della tradizione e uno spirito imprenditoriale solidamente contemporaneo.

Lei è un imprenditore molto attivo a Montalcino da diversi anni, quasi una sorta di ambasciatore ormai dell’enorme bellezza di questi luoghi. Ci racconta il suo percorso?

Parto dalla vicenda di mio nonno materno, perché tutto è iniziato grazie al suo carattere intraprendente. Lui è nato e cresciuto al Greppo – i suoi genitori erano mezzadri lì – ma appena ha potuto, è andato alla ricerca della sua strada. Quando ha scoperto l’apicoltura se ne è innamorato, imparando il mestiere completamente da autodidatta e portando la pratica a Montalcino, che poi nel tempo è diventata uno dei luoghi di riferimento in Italia per la produzione di miele. Ha trasmesso poi questa passione al resto della famiglia: a mia mamma, a mio zio e in seguito anche a mio padre. L’apicoltura e il miele sono stati la loro attività principale per tanti anni, anche se poi c’erano le altre attività collaterali legate al territorio. Io vengo da questa storia: da ragazzo mi sono iscritto a Giurisprudenza ma in pratica non ho nemmeno iniziato il corso perché già sapevo di voler lavorare in azienda.

E poi è arrivata la Drogheria Franci.

Esatto. Verso la fine degli anni Ottanta c’è stato il boom dell’enoturismo, ero giovane, avevo voglia di fare e ho iniziato a vendere vino, miele naturalmente ed eccellenze del territorio. Abbiamo aperto la Drogheria nel 1993, dandole il nome della famiglia di mia madre. All’inizio eravamo solo io e mia nonna in uno spazio abbastanza piccolo, al piano terra della nostra casa. Poi, con gli anni, la drogheria è cresciuta, diventando, infine, ristorante e locanda. Oggi ci sono tre bellissime camere, arredate con molta cura. È una trasformazione di cui sono molto contento perché lo trovo un bel modo di tenere vivo il ricordo dei nonni.

A questa attività, nel 2001 si è aggiunta la gestione dell’Enoteca della Fortezza. Non c’è nemmeno bisogno di raccontare la bellezza di questo posto, per me è stata ed è una grandissima gioia lavorare lì.

La produzione di vino a che punto è arrivata? Era un obiettivo che aveva in mente da sempre?

È stata più che altro un’evoluzione naturale, quando nel 2000 abbiamo avuto la possibilità di avere, in quanto coltivatori e apicoltori, un ettaro di Brunello e mezzo di Rosso. A quel punto, siccome gli altri nostri terreni avevano esposizioni molto a nord e molto in alto, abbiamo iniziato a cercare qualcos’altro di più adatto al Brunello. E con l’aiuto del mio grande amico Beppe Bianchini di Ciacci Piccolomini abbiamo individuato tre bellissimi ettari sotto il Castello della Velona e così abbiamo iniziato. Il 2004 è stato l’anno della prima vendemmia. In questo vigneto – che definirei “moderno”, con cloni di nuova generazione e molto fitto – adesso produciamo il cru Giuseppe Tassi (un omaggio a mio padre) e il nostro Brunello base.

Sempre nel 2004 abbiamo iniziato a imbottigliare il vino proveniente da una vecchia vigna di mio nonno, la Vigna Franci.

Siete abbastanza giovani come cantina, dunque, ma possiamo tentare un bilancio di questi vent’anni. Come siete cresciuti?

Di certo sono molto cambiato io per primo, perché ho più esperienza – quando ho iniziato ero un appassionato e un conoscitore ma non avevo sufficiente competenza per potermi occupare della produzione, perciò l’enologo aveva molto più spazio – e poi perché col tempo sono cambiati i gusti e le idee. È naturale che sia così.

L’importantissima storia del Brunello va salvaguardata, anche attraverso il rispetto del disciplinare, ma è evidente che i tempi sono cambiati: se vent’anni fa si cercavano vini molto potenti, molto strutturati, molto concentrati, ora si cerca maggiormente l’eleganza e la finezza. Progressivamente anche la mia testa si è spostata in questa direzione: più passa il tempo più cerco vini che siano “naturali”, con pochissime trasformazioni, dove la mano dell’uomo si sente il meno possibile e quello che emerge sono la vigna, l’annata e il suo andamento. Oggi per arrivare ad avere dei vini così – sempre più di territorio – sono disposto a correre più rischi che in passato.

Se questi vini raccontano il territorio, qual è la lingua comune che parlano?

In realtà, cerco sempre di differenziare molto i vini, proprio per far venire fuori il carattere del luogo. Noi ci siamo ma non dobbiamo essere invadenti, dobbiamo accompagnare il vino. È proprio per valorizzare al massimo le singole vigne che i nostri Brunelli sono quattro e sono lavorati separatamente fino all’imbottigliamento. E in prospettiva, vorrei marcare ancora di più queste differenze. Per assurdo, il tratto comune dei miei quattro Brunelli è che sono tutti diversi fra loro e sempre anche un po’ da se stessi, perché il loro carattere finale dipende molto dall’andamento dell’annata.

Vorrei applicare questa idea anche al Rosso di Montalcino: sto pensando di farne almeno due e non più uno solo. Credo che sia importante valorizzare l’identità di territorio anche di un vino come il Rosso, più fragrante, con un frutto più presente e che, per questo, intercetta un pubblico diverso rispetto al Brunello. Mi piacerebbe che il Rosso di Montalcino fosse considerato non un secondo vino ma l’altra faccia del Sangiovese di Montalcino.

Per quanto riguarda il Brunello, l’ultimo nato è il Colombaio, giusto?

Sì, abbiamo acquisito la vigna nel 2016. Vigna Colombaio si trova vicinissima all’Abbazia di Sant’Antimo, in mezzo al bosco, è un posto di una bellezza straordinaria; vorrei che chi beve questo Brunello venisse almeno una volta a visitarlo perché è davvero un’esperienza che fa entrare nel vino in profondità. È un luogo che non smette di meravigliarmi, ma devo dire che alla bellezza di Montalcino, di ogni suo angolo, è impossibile abituarsi. Io stesso, che ho sempre abitato qui, continuo a stupirmi ogni giorno.

Qualsiasi aggettivo, in effetti, è scontato quando si parla del vostro territorio. La cosa che mi colpisce sempre è la luce, che è bellissima sempre in tutte le stagioni, a tutte le ore.

È una delle caratteristiche speciali del luogo, credo che sia una delle cose che qui fa la differenza, proprio in termini qualitativi per il vino, come anche la presenza costante del vento, che aiuta a ridurre tantissimo i trattamenti perché ostacola l’umidità. Questo è un territorio straordinariamente vocato, lo è da sempre, ce lo dice anche la storia. Dobbiamo solo essere bravi ad assecondarlo e onesti nel tutelarlo.

Abbiamo l’obbligo morale di salvaguardare quello che le generazioni precedenti ci hanno lasciato così integro e intatto. È un patrimonio di tutti di cui dobbiamo avere cura.

La scelta del biologico mi sembra inevitabile in questa visione.

Infatti. Noi siamo sempre stati biologici, perché in vigna abbiamo sempre utilizzato solo zolfo e rame. Quando ho iniziato, eravamo in pochi tutto sommato a lavorare in biologico, ma mi è sembrata la scelta più naturale che potessi fare, quindi non ho mai nemmeno sentito il bisogno di schierarmi. Poi nel 2013 abbiamo preso la decisione di ufficializzare, ma nella pratica non è cambiato nulla.

Credo che non abbracciare il biologico a Montalcino sia un controsenso, come prendere le medicine, pur essendo sani.

Una curiosità dato che stiamo parlando di biologico e territorio: continuate anche oggi a lavorare con le api?

Sì ma ho ridotto esponenzialmente, prima l’azienda era piuttosto grossa, avevamo tantissime api e praticavamo il nomadismo. Adesso le teniamo solo dove ci sono le vigne e abbiamo una piccola produzione di miele millefiori. Ci tengo a portarla avanti anche se su scala ridotta, da un lato per una questione di equilibrio dell’habitat, e dall’altro per una questione affettiva: l’amore di mio nonno per le api era grandissimo e davvero contagioso.

Lei per vocazione è un curioso, ha intenzione di sperimentare, uscendo dall’imprescindibile binomio Brunello – Rosso di Montalcino?

In realtà lo sto già facendo, nel 2018, dopo un viaggio in Borgogna, ho deciso di sperimentare con l’anfora. Ho iniziato con una da 800 litri, usando lo stesso Sangiovese del cru Giuseppe Tassi, con 15% di grappolo intero e lunghissima macerazione. Dopo tre mesi lo abbiamo svinato e rimesso in anfora fino a settembre 2019. È stato commercializzato a gennaio 2020 con il nome di Brunò: un Brunello no, insomma.

All’inizio in tanti qui mi prendevano in giro ma una volta assaggiato hanno cambiato idea. Sono molto contento perché è piaciuto molto e perché per me è stato un esperimento molto interessante. E alla fine, ho deciso di prendere altre due anfore per continuare.

Poi ho tante altre idee in testa: ho piantato vicino a casa, su un terreno acquistato quattro anni fa, una vigna ad alberello e qui vedremo che cosa succederà. Poi c’è un terreno in alto a cui sono molto affezionato perché era uno dei posti preferiti di mio nonno e lì sto pensando di piantare un Trebbiano, perché in futuro vorrei cimentarmi con un bianco.

Il ricordo dei suoi nonni è ritornato molte volte nel corso di questa chiacchierata.

Sono legatissimo alla mia famiglia. Più passano gli anni e più capisco l’importanza di quello che hanno fatto i miei nonni, è il loro lavoro che mi ha dato l’opportunità di essere qui ora.

Il mondo va avanti e cambia ed è giusto così e a me piace guadare sempre avanti ma mi piace anche mantenere una connessione forte con la nostra storia e sono molto felice che le mie figlie, pur abitando a Milano, siano legate a Montalcino. Stanno entrando anche loro nell’azienda di famiglia e non potrei desiderare di meglio.

Questo rapporto così stretto con la famiglia e con le radici mi sembra che sia un tassello importante del suo impegno per il territorio.

Sì, credo di sì. Va da sé che ritengo importante assecondare il business ma senza stravolgere quello che c’è. Nel nostro lavoro bisogna procedere con molta lentezza e avere pazienza, assecondando quello che viene; per esempio, quest’anno c’è stata una grossa gelata e io stesso ho subito molti danni, ma bisogna accettarlo e guardare oltre, senza cedere a soluzioni facili. Giulio Gambelli ripeteva spesso che se un anno è andato male, vorrà semplicemente dire che il prossimo andrà meglio. Non c’è molto da aggiungere. Mi ritengo già fortunato a vivere qua, non voglio cercare scorciatoie e voglio lavorare con trasparenza. Tutti noi siamo credibili solo se abbiamo l’onestà intellettuale di produrre un vino pulito, ben fatto e di territorio.

Il Brunello Riserva Franci 2015 ha ottenuto i 100 punti da James Suckling. Che impatto ha avuto sulla percezione della vostra azienda questo riconoscimento?

Per prima cosa siamo molto fieri, perché Suckling è un grande esperto di vini di Montalcino e per questo territorio ha fatto moltissimo. E del resto ha ricevuto la cittadinanza onoraria non a caso!

È stato molto importante per noi perché i 100 punti alla Riserva hanno supportato un’annata che, nel suo insieme, ha ricevuto buonissimi punteggi da tutti i critici. Si è trattato di una sorta di coronamento della qualità del nostro lavoro in tutte le sue declinazioni. Nella percezione esterna ha certamente avuto un impatto positivo perché ha aumentato la nostra credibilità: la nostra è una realtà abbastanza giovane, ricevere riconoscimenti così prestigiosi vuol dire che siamo giovani ma solidi e che stiamo facendo un lavoro serio.

Redazione 18.05.2021

Vini di vulcano: un viaggio verso il centro della terra

L’Italia, nella sua estrema ricchezza in termini di biodiversità, presenta un mosaico complesso anche per quanto riguarda i vini da terreni vulcanici. Se di primo acchito, infatti, il pensiero va subito ai più grandi vulcani attivi come Etna e Vesuvio, la verità è che la mappa è ben più variegata. Basti pensare alla zona di Soave, conosciuta per la produzione di vini bianchi. Garganega e Trebbiano di Soave, i principali vitigni, raggiungono i propri vertici qualitativi anche grazie ai terreni di matrice vulcanica che caratterizzano queste terre. Lo stesso vale per la denominazione Lessini Durello, posizionata tra le colline a nord delle provincie di Verona e Vicenza, dove l’impronta dei suoli tufacei permette alla Durella di esprimersi in modo unico soprattutto negli spumanti. Gambellara e Colli Euganei sono altre due denominazioni dove il timbro vulcanico guida lo stile dei vini più importanti, e anche allontanandoci dal Veneto non mancano le zone caratterizzate in questo senso. Tra queste l’area intorno a Orvieto, quella di Montefiascone, nell’Alta Tuscia, o la doc Bianco di Pitigliano, nella Maremma toscana. E ancora i Campi Flegrei vicino a Napoli, Ischia e gli arcipelaghi della Sicilia.

Difficile, in un collage così composito, tracciare delle direttrici univoche, tuttavia i vini di vulcano tratteggiano alcune inclinazioni che in qualche modo li accomunano. Come evidenzia John Szabo nel suo libro “Volcanic Wines”, la tendenza sembra essere quella di mettere in evidenza maggiormente il corredo di durezze rispetto a quello delle morbidezze.

Grande freschezza, dunque, spiccata sapidità, e notevole mineralità, che si esprime ad esempio con sentori di pietra focaia. Quasi come se il vino fosse proteso nello sforzo di raccontare i vulcani da cui nasce, le loro rocce e la loro natura: collegare il mondo agli strati più profondi del pianeta.

Tra le zone vulcaniche l’Etna rappresenta certamente il caso più emblematico, sia per la ricchezza di stili ed espressioni, sia per l’attenzione che ha ricevuto negli ultimi vent’anni. Intanto è importante sottolineare che non esiste un Etna ma tanti Etna. Non solo la zona si distingue dal resto della Sicilia per clima e condizioni generali; le differenze sono notevoli anche tra le diverse aree del vulcano, con svariati fattori a incidere sulle loro caratteristiche tra cui altimetria e vicinanza al mare. Come minimo è utile suddividere l’Etna nei suoi tre versanti principali. Il versante Sud, punteggiato da vigneti che in certe contrade arrivano a superare i 1.000 metri di altitudine. Il versante Nord, dove nascono i rossi più noti, tra cui quelli prodotti con il nobile Nerello Mascalese. E il versante Est, affacciato sullo Ionio, dove prospera il Carricante e nascono i migliori bianchi dell’Etna, caratterizzati da un intreccio sorprendente di finezza e freschezza.

Uno dei nomi di spicco per la riscoperta dell’Etna è quello di Salvo Foti, grande esperto e conoscitore della zona, autore di diversi libri tra cui “Etna, i vini del vulcano”, “La Sicilia del Vino” e “La Montagna di fuoco”. Alla fine degli anni Novanta è proprio Foti, insieme a Giuseppe Benanti, a far esplodere la riscoperta dell’Etna vinicolo con Pietra Marina.

Un vino iconico, che nasce da uve Carricante e che con la versione 1999 innesca una vera e propria rivoluzione. La reazione della critica enologica infatti è unanime: Pietra Marina ottiene i massimi riconoscimenti e catalizza l’attenzione intorno al vulcano più alto d’Europa. Il livello eccellente si conferma con il passare degli anni e il vino di punta di casa Benanti continua a toccare vertici di qualità assoluta fino ad arrivare ai nostri giorni. Pietra Marina nasce nel comune di Milo, in Contrada Rinazzo, caratterizzata da un’eccellente esposizione, una ventilazione ottimale e un’altitudine di 800 metri sul livello del mare. Da qui le importanti escursioni termiche, ideali soprattutto per la coltivazione dei vitigni a bacca bianca. Il mare è poco distante, per questo qui piove di più. I terreni, naturalmente di matrice vulcanica, hanno conformazione sabbiosa e si caratterizzano per la ricchezza di sostanza minerali. Le viti, allevate ad alberello, arrivano fino a novant’anni di età.

Pietra Marina trascorre almeno 24 mesi sulle proprie fecce nobili in acciaio, con frequenti bâtonnages, seguiti da 12 mesi di bottiglia. Nella versione 2016, prima ancora che l’olfatto, colpisce lo sguardo con una splendida luminosità. Il naso apre elegante con un intreccio di fiori bianchi, agrumi e mela verde. Al palato i sentori sono freschi, tesi, affilati. Iodio, ribes, poi la conferma degli agrumi con sensazioni di limone e cedro. La sapidità guida un allungo che si mostra sorprendentemente dinamico, con la succosità sferzante che si alterna ai sentori minerali di pietra focaia. Uno slancio gustativo dove l’immediatezza del sorso cede il passo a una complessità affascinante, una profondità tutta da scoprire. La stessa profondità che contraddistingue questa terra, il vulcano, testimonianza terrestre di quanto si possa andare oltre la superficie per esplorare strati sempre più nascosti. Come in un viaggio verso il centro della terra.

di Graziano Nani 04.05.2021

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Tenuta Guado al Tasso: come nasce un’eccellenza

Guado al Tasso è tenuta dalla storia antica che si è profondamente reinventata a partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, diventando una delle realtà più preziose e stimate della prestigiosa DOC di Bolgheri. I suoi vini sono sinonimo di pura eccellenza, amatissimi in Italia e all’estero. Abbiamo chiesto a Marco Ferrarese, che della tenuta è direttore ed enologo, di guidarci alla scoperta della sua storia e della genesi delle sue etichette.

Partirei dal contesto ambientale di Guado al Tasso che, oltre ad essere di una bellezza speciale, è anche estremamente peculiare per quanto riguarda la composizione del terreno e l’esposizione delle vigne. Ce lo può raccontare e ci può spiegare che impronta conferisce ai vini della tenuta?

Tenuta Guado al Tasso ha la peculiarità di abbracciare tutta la variabilità di suoli che questo territorio presenta e che di fatto costituisce una delle sue caratteristiche più importanti. I vigneti si compongono di tre corpi principali: il più importante è quello che si estende a partire dalle pendici delle colline e che si trova in posizione centrale rispetto all’Anfiteatro Bolgherese (così viene chiamata la splendida piana circondata da colline), a metà distanza tra Bolgheri e Castagneto Carducci. È inoltre il luogo dove si trovano gli uffici amministrativi e le cantine. Abbiamo poi alcuni vigneti a nord della DOC vicino al paese di Bolgheri e a sud, sotto la Torre di Donoratico presso Castagneto Carducci.

I nostri ettari vitati sono costituiti da un mosaico di tante parcelle di vigneto diverse, ognuna delle quali suddivisa in base alla destinazione enologica, la quale è strettamente legata alle caratteristiche del suolo, all’omogeneità dello stesso, all’esposizione, all’età delle piante e infine all’esperienza maturata negli anni di vinificazione di quelle uve, che è forse la cosa più rilevante. Ciò fa sì che in ogni parcella di vigneto sia coltivata quella che secondo la nostra esperienza è la varietà che, in quella determinata parcella, è in grado di esprimersi al meglio.

Tutto questo ci aiuta a donare a ciascuno dei nostri vini un proprio stile e una personalità che si ripete negli anni, con le dovute sfumature legate all’annata, e che li rende in qualche modo riconoscibili.

Antinori rappresenta qualcosa di unico nel contesto italiano del vino, sia per la lunga storia che ha alle spalle, sia per il patrimonio enologico rappresentato dalle sue tenute.
 Cosa significa fare parte di una realtà di questo tipo, dove c’è una forte e coerente visione imprenditoriale d’insieme ma allo stesso tempo ogni tenuta ha una chiara e indiscutibile identità? Come si coniuga la singolarità di un progetto con la cornice d’insieme?

Marchesi Antinori è una realtà senza dubbio unica, dove ogni tecnico, pur dedicandosi alla propria tenuta di riferimento, ha l’opportunità di confrontarsi costantemente con tutti gli altri. Così come nelle tenute storiche, di cui fa parte Tenuta Guado al Tasso, anche nelle realtà più giovani si lavora per produrre vini di eccellenza che siano la massima espressione di un’uva coltivata in un determinato territorio. In alcune di queste realtà sono già venuti alla luce dei progetti, mentre in altre c’è chi ci sta ancora lavorando. Questo sprona ognuno di noi al costante miglioramento, che in primis è legato alla qualità dei vini. Ma nel seguire un’azienda agricola sono tanti gli aspetti da considerare per essere ritenuti “bravi tecnici”, e in questo l’avere dei confronti interni diretti e chiari non è cosa da poco per la crescita sia personale che dell’azienda alla quale si fa riferimento. La particolarità di ogni nuovo progetto, secondo me, viene fuori in maniera si può dire naturale, perché ogni tecnico ci mette del suo e soprattutto perché ogni territorio ha le sue peculiarità. Una cabina di regia ovviamente esiste ed è rappresentata dalla famiglia Antinori e da Renzo Cotarella che, oltre a essere l’Amministratore Delegato dell’azienda, è anche a capo dell’enologia. E questo serve in primo luogo a garantire che lo stile di ogni vino, dai nuovi agli storici, sia quello desiderato dalla famiglia.

Una cosa che in qualche modo mi sorprende di quest’azienda è che, pur avendo come dice lei una lunga storia, conserva un approccio al lavoro che per certi aspetti è simile a una start-up, e questa è una cosa che mi entusiasma.

Parlando dell’identità di Guado al Tasso: la sua storia è antica, legata alla famiglia Della Gherardesca e non solo a quella degli Antinori, ma la tenuta così come la conosciamo oggi deve la sua fama e il suo prestigio ai vini che avete iniziato a produrre a partire dagli anni Novanta. Cosa è successo in quegli anni e cosa è cambiato a livello produttivo e di filosofia aziendale per portare a vini come l’omonimo Guado al Tasso, Il Bruciato, il Matarocchio?


Quello che cambiò tutto alla fine degli anni ’80 fu la decisone del Marchese Piero di produrre il “suo” vino rosso a Bolgheri. Fino a quel momento infatti Antinori commercializzava il Sassicaia che, anche se fatto dal suo enologo Giacomo Tachis, era di proprietà dello zio Mario Incisa Della Rocchetta. Le strade si separarono nel 1989 e nel 1990 nasce la prima annata di Guado al Tasso. All’epoca l’azienda aveva poco più di 60 ettari vitati, in parte destinati al già esistente rosato Scalabrone. Dal 1995 al 2001 furono destinate risorse importanti volte alla realizzazione di nuovi vigneti arrivando a una superficie vitata di 300 ettari. Da ricordare che sono gli anni in cui vengono inserite le tipologie Rosso, Rosso Superiore e Sassicaia nel Disciplinare della DOC (1994) che prima menzionava solamente le tipologie bianco e rosato, mentre nel 1995 viene costituito il Consorzio di Tutela della DOC. La filosofia aziendale cambia, così come cambia anche quella del territorio che incomincia a crearsi una propria identità.

È per questo che, secondo il Marchese Piero, si sentiva la mancanza un vino all’epoca che potesse far conoscere il territorio di Bolgheri a un più ampio numero di consumatori, mantenendo una qualità importante e allo stesso tempo un prezzo più accessibile. Così nel 2002 nasce Il Bruciato, dalla volontà di raccontare e far conoscere secondo uno stile moderno il terroir unico di Bolgheri. Un vino molto apprezzato fin da subito, che ha avuto un grande successo di pubblico e che rappresenta ancora oggi una porta d’accesso per conoscere Tenuta Guado al Tasso e il territorio che rappresenta. La voglia di sperimentare è nel DNA dell’azienda e c’era da soddisfare un desiderio che il Marchese aveva da tempo; quello di produrre un vino ambizioso, estremamente elegante e di carattere, che fosse la massima espressione di un singolo vigneto e di una singola varietà. Ecco che da un vigneto piantato a Cabernet Franc, in un area a noi già ben nota per la vocazione al Cabernet Sauvignon, si ottiene un vino che ci entusiasma per la sua straordinaria complessità aromatica, energico e allo stesso tempo dotato di una grazia, eleganza e finezza uniche. Nel 2007 questo eccezionale Cabernet Franc sostituisce il Syrah nell’uvaggio del Guado al Tasso, determinandone l’inizio di un nuovo stile, e in parte viene imbottigliato in purezza per verificarne l’evoluzione in bottiglia. Beh, dopo 2 anni in cantina, quelle bottiglie diventarono la prima annata di Matarocchio, un vino che ancora oggi esce solamente nelle annate eccezionali e sempre in una quantità limitata di bottiglie, tutte numerate.

Per il Guado al Tasso e il Matarocchio, lavorate in maniera parcellizzata, vinificando e in parte affinando separatamente ogni singola parcella. Solo in una fase successiva viene definito quello che voi chiamate “masterblend”, ci può spiegare in cosa consiste, il perché di questa scelta e cosa comporta dal punto di vista delle pratiche in cantina?

Partiamo da un presupposto basilare: in natura non ci sono certezze assolute per cui se ripeti le stesse cose ogni anno hai lo stesso risultato. Ci piacerebbe ma non è così purtroppo! Quindi è per questo che in ogni parcella di vigneto per Guado al Tasso e Matarocchio, pur facendo le cose nel migliore dei modi, con un approccio artigianale volto alla massima qualità e attento al minimo dettaglio, abbiamo bisogno di un po’ di tempo per valutare il risultato. Questo significa mantenere separati i singoli vini, lasciandoli ad affinare in barriques per almeno 3-4 mesi.

Solamente dopo questo periodo abbiamo le condizioni ideali per poter selezionare i lotti da utilizzare nel “masterblend”. Non è sempre stato fatto così; per molti anni abbiamo effettuato l’assemblaggio solamente alla fine dell’affinamento poiché avevamo necessità di conoscere fino in fondo le potenzialità di ogni parcella. Adesso che il know how in tenuta è maggiore, possiamo anticipare l’assemblaggio e lavorare più nel dettaglio con un altro determinante fattore che va ad incidere sullo stile ed evoluzione dei nostri vini ovvero la scelta delle giuste barriques. Scelta che è strettamente influenzata dalle caratteristiche dell’annata, la quale ci condiziona nella scelta del livello di tostatura, della stagionatura delle doghe, della grana, dello spessore, ecc.

Il Matarocchio è un Cabernet Franc in purezza. Leggevo sulla cartella stampa che, all’epoca dei primi esperimenti, è stata per certi versi una sorpresa vedere quanto bene questo vitigno riuscisse a esprimersi sui vostri terreni. Dunque, che carattere ha questo Carbernet Franc, cosa lo contraddistingue?

Si è vero, il Cabernet Franc del Matarocchio è stata una sorpresa perché, pur sapendo che quello era un ottimo terreno per il Cabernet Sauvignon, non immaginavamo che anche il Franc vi si sarebbe adattato così bene. Quello che caratterizza Il Matarocchio, è la spiccata dote naturale che ha il Cabernet Franc di produrre tannini setosi e dolci, abbinati però a un’energia e consistenza insoliti, che ne fanno un vino capace di evolvere splendidamente negli anni mantenendo, proprio perché in purezza, un forte carattere identitario legato sia alla componente aromatica varietale (più o meno enfatizzata a seconda dell’annata) che alla natura del territorio dove nasce con la sua forte componente di solarità, esuberanza e fascino, unici.

L’inizio della trasformazione di Bolgheri in territorio altamente vocato si deve sicuramente alle intuizioni degli anni Quaranta di Niccolò Antinori e Mario Incisa della Rocchetta e alla loro collaborazione. Il sugello a questo lavoro è arrivato nel ’94 con il disciplinare per i rossi e nel ’95 con la nascita del Consorzio per la tutela della DOC. Quanto è stato importante questo passaggio formale/istituzionale per il consolidamento di Bolgheri?

È stato un atto fondamentale perché ha reso possibile l’identificazione di un nuovo territorio in Toscana, andando pian piano a sostituire per i nostri vini la definizione “Super Tuscan” con la quale, in particolar modo all’estero, venivano catalogati i già importanti vini all’epoca prodotti nella zona, senza che però vi fosse, da parte dei consumatori, la cognizione del luogo esatto di produzione.

Dal Trentino alla Sicilia, dai tradizionalisti “solo acciaio e botte grande” ai più innovatori “barriccai”, è incredibile quanto stia prendendo piede l’uso dell’anfora. Indipendentemente dal vitigno e dalla filosofia di cantina, insomma, quest’oggetto misterioso sta comparendo in tutte le cantine… cos’ha di tanto speciale secondo lei? Prevede di integrarne?

Di speciale ha sicuramente il fatto di essere un oggetto antico e quindi questo crea fascino, curiosità e accende l’entusiasmo e la voglia di sperimentare soprattutto a chi desidera distinguersi in qualche modo.
Noi al momento non prevediamo di integrare anfore nel processo produttivo in quanto crediamo che sui nostri vini tecnicamente il migliore materiale per la fermentazione sia l’acciaio inox, e per i rossi l’affinamento per un certo periodo in barriques, scelte con cura e attenzione.

Redazione 16.04.2021