The Winefully Magazine

IL GRANDE MOSAICO DEI VINI PASSITI

Il concetto di passito, nella sua essenza, è molto semplice. Mentre generalmente per la produzione del vino viene utilizzata uva fresca, in questo caso vengono lavorati acini appassiti. Meno acqua, dunque, e più concentrazione, che si traduce innanzitutto in una maggiore quantità di zuccheri. Le uve cambiano colore, diventano dorate se a bacca bianca, o color mattone se a bacca rossa. Aumentano l’aromaticità, la concentrazione degli zuccheri e la densità del succo stesso. Le strade che esplorano l’ampia tipologia dei passiti si diramano in diverse direzioni, vediamo quali sono le principali.

Una prima suddivisione riguarda il metodo di appassimento. Si può parlare di appassimento naturale quando questo
avviene direttamente in pianta, lasciando che gli acini si disidratino spontaneamente, per essere poi raccolti con una vendemmia posticipata, che viene definita “tardiva”. L’appassimento artificiale, invece, viene guidato dal produttore. Si raccoglie l’uva, come di consueto, ma invece di pressarla, la si fa appassire. Il processo avviene in appositi locali asciutti, dove è fondamentale la ventilazione, che può essere sia quella propria dell’ambiente, sia quella indotta da appositi ventilatori. L’obiettivo, in ogni caso, è evitare che i grappoli ammuffiscano, per questo vengono sempre distanziati, a volte appesi a dei graticci, altre adagiati su letti di paglia o cassette. Esistono ancora alcuni posti dove, come accadeva un tempo, le uve vengono fatte appassire al sole. Tra questi abbiamo, ad esempio, Pantelleria.

Quando si passa alla vinificazione, la tecnica non cambia rispetto a ciò che accade tipicamente per il vino. Dalle uve si ottiene il mosto, e dal mosto il vino, che nasce dall’azione dei lieviti che trasformano gli zuccheri in alcol. Quello che cambia nei vini passiti è che durante la fermentazione non tutti gli zuccheri si trasformano in alcol, come accade in genere. Gli stessi, infatti, sono molto concentrati a causa dell’appassimento, tanto da interrompere l’azione dei lieviti, che superata una certa gradazione alcolica non sono più in grado di lavorare. La fermentazione, in alcuni casi, può essere interrotta anche in modo artificiale con un abbassamento della temperatura, con l’aggiunta di anidride solforosa o attraverso un’apposita filtrazione. Il risultato, in ogni caso, è che nel prodotto finale ritroveremo degli zuccheri residui.

I vini che nascono dalle uve appassite hanno la caratteristica di essere più dolci, e più morbidi, perché con la disidratazione diminuisce l’acidità che caratterizza l’uva. Anche dal punto di vista cromatico mostrano delle particolarità, che dipendono naturalmente dall’utilizzo di uve bianche piuttosto che rosse, abbracciando uno spettro di colori che va dall’oro all’ambrato, fino all’aranciato e al mogano.

Riferendosi al mondo dei passiti, si tende a pensare ai vini dolci. È importante però ricordare che esistono anche i passiti secchi.
Sono prodotti con uve appassite, sì, ma non contengono zucchero, perché è stato trasformato interamente in alcol. Due esempi su tutti: l’Amarone della Valpolicella e lo Sforzato della Valtellina. A questa specifica tipologia abbiamo dedicato uno dei nostri articoli precedenti.

Esiste inoltre un altro modo particolare di appassire le uve. Nasce dall’effetto di una muffa – la Botrytis Cinerea, o muffa nobile – che attacca gli acini e li trasforma, disidratandoli. I vini che ne nascono vengono chiamati muffati e si caratterizzano per sentori davvero unici. Anche in questo caso, è possibile approfondire l’argomento grazie a uno dei nostri articoli già pubblicati.

Un’ultima casistica riguarda i cosiddetti Ice Wine, o vini di ghiaccio, prodotti in luoghi freddi come il Canada, la Germania, l’Austria, e in genere sulle Alpi. I grappoli, in questo caso, vengono lasciati sulla pianta fino al congelamento e vendemmiati tardivamente, quando la temperatura scende sotto zero.

Tornando ai passiti più classici, e parlando di varietà, per questa metodologia si tende spesso a utilizzare uve aromatiche; tra queste ricordiamo il Moscato, la Malvasia e il Gewürztraminer. Proprio con quest’ultimo l’azienda altoatesina Hofstätter produce il suo Rechtenthaler Schlossleiten, ottenuto da vendemmia tardiva. Il clima peculiare della zona dove si trovano i vigneti connota le uve con un’importante acidità. Nel bicchiere questa si traduce in una venatura di sorprendente freschezza, che contraddistingue decisamente Rechtenthaler Schlossleiten nel panorama dei passiti. Altra sua caratteristica chiave è la bassa gradazione alcolica, che si attesta intorno al 7% e lo rende parecchio più snello rispetto alla media della tipologia. Al palato è suadente: richiama il miele, le albicocche e la frutta disidratata in generale. Interessante l’idea di degustarlo a fine pasto, magari per accompagnare un dessert o una selezione di formaggi erborinati.

 

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

Il concetto di passito, nella sua essenza, è molto semplice. Mentre generalmente per la produzione del vino viene utilizzata uva fresca, in questo caso vengono lavorati acini appassiti. Meno acqua, dunque, e più concentrazione, che si traduce innanzitutto in una maggiore quantità di zuccheri. Le uve cambiano colore, diventano dorate se a bacca bianca, o color mattone se a bacca rossa. Aumentano l’aromaticità, la concentrazione degli zuccheri e la densità del succo stesso. Le strade che esplorano l’ampia tipologia dei passiti si diramano in diverse direzioni, vediamo quali sono le principali.

Una prima suddivisione riguarda il metodo di appassimento. Si può parlare di appassimento naturale quando questo
avviene direttamente in pianta, lasciando che gli acini si disidratino spontaneamente, per essere poi raccolti con una vendemmia posticipata, che viene definita “tardiva”. L’appassimento artificiale, invece, viene guidato dal produttore. Si raccoglie l’uva, come di consueto, ma invece di pressarla, la si fa appassire. Il processo avviene in appositi locali asciutti, dove è fondamentale la ventilazione, che può essere sia quella propria dell’ambiente, sia quella indotta da appositi ventilatori. L’obiettivo, in ogni caso, è evitare che i grappoli ammuffiscano, per questo vengono sempre distanziati, a volte appesi a dei graticci, altre adagiati su letti di paglia o cassette. Esistono ancora alcuni posti dove, come accadeva un tempo, le uve vengono fatte appassire al sole. Tra questi abbiamo, ad esempio, Pantelleria.

Quando si passa alla vinificazione, la tecnica non cambia rispetto a ciò che accade tipicamente per il vino. Dalle uve si ottiene il mosto, e dal mosto il vino, che nasce dall’azione dei lieviti che trasformano gli zuccheri in alcol. Quello che cambia nei vini passiti è che durante la fermentazione non tutti gli zuccheri si trasformano in alcol, come accade in genere. Gli stessi, infatti, sono molto concentrati a causa dell’appassimento, tanto da interrompere l’azione dei lieviti, che superata una certa gradazione alcolica non sono più in grado di lavorare. La fermentazione, in alcuni casi, può essere interrotta anche in modo artificiale con un abbassamento della temperatura, con l’aggiunta di anidride solforosa o attraverso un’apposita filtrazione. Il risultato, in ogni caso, è che nel prodotto finale ritroveremo degli zuccheri residui.

I vini che nascono dalle uve appassite hanno la caratteristica di essere più dolci, e più morbidi, perché con la disidratazione diminuisce l’acidità che caratterizza l’uva. Anche dal punto di vista cromatico mostrano delle particolarità, che dipendono naturalmente dall’utilizzo di uve bianche piuttosto che rosse, abbracciando uno spettro di colori che va dall’oro all’ambrato, fino all’aranciato e al mogano.

Riferendosi al mondo dei passiti, si tende a pensare ai vini dolci. È importante però ricordare che esistono anche i passiti secchi.
Sono prodotti con uve appassite, sì, ma non contengono zucchero, perché è stato trasformato interamente in alcol. Due esempi su tutti: l’Amarone della Valpolicella e lo Sforzato della Valtellina. A questa specifica tipologia abbiamo dedicato uno dei nostri articoli precedenti.

Esiste inoltre un altro modo particolare di appassire le uve. Nasce dall’effetto di una muffa – la Botrytis Cinerea, o muffa nobile – che attacca gli acini e li trasforma, disidratandoli. I vini che ne nascono vengono chiamati muffati e si caratterizzano per sentori davvero unici. Anche in questo caso, è possibile approfondire l’argomento grazie a uno dei nostri articoli già pubblicati.

Un’ultima casistica riguarda i cosiddetti Ice Wine, o vini di ghiaccio, prodotti in luoghi freddi come il Canada, la Germania, l’Austria, e in genere sulle Alpi. I grappoli, in questo caso, vengono lasciati sulla pianta fino al congelamento e vendemmiati tardivamente, quando la temperatura scende sotto zero.

Tornando ai passiti più classici, e parlando di varietà, per questa metodologia si tende spesso a utilizzare uve aromatiche; tra queste ricordiamo il Moscato, la Malvasia e il Gewürztraminer. Proprio con quest’ultimo l’azienda altoatesina Hofstätter produce il suo Rechtenthaler Schlossleiten, ottenuto da vendemmia tardiva. Il clima peculiare della zona dove si trovano i vigneti connota le uve con un’importante acidità. Nel bicchiere questa si traduce in una venatura di sorprendente freschezza, che contraddistingue decisamente Rechtenthaler Schlossleiten nel panorama dei passiti. Altra sua caratteristica chiave è la bassa gradazione alcolica, che si attesta intorno al 7% e lo rende parecchio più snello rispetto alla media della tipologia. Al palato è suadente: richiama il miele, le albicocche e la frutta disidratata in generale. Interessante l’idea di degustarlo a fine pasto, magari per accompagnare un dessert o una selezione di formaggi erborinati.

 

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

IL GRANDE MOSAICO DEI VINI PASSITI

Il concetto di passito, nella sua essenza, è molto semplice. Mentre generalmente per la produzione del vino viene utilizzata uva fresca, in questo caso vengono lavorati acini appassiti. Meno acqua, dunque, e più concentrazione, che si traduce innanzitutto in una maggiore quantità di zuccheri. Le uve cambiano colore, diventano dorate se a bacca bianca, o color mattone se a bacca rossa. Aumentano l’aromaticità, la concentrazione degli zuccheri e la densità del succo stesso. Le strade che esplorano l’ampia tipologia dei passiti si diramano in diverse direzioni, vediamo quali sono le principali.

Una prima suddivisione riguarda il metodo di appassimento. Si può parlare di appassimento naturale quando questo
avviene direttamente in pianta, lasciando che gli acini si disidratino spontaneamente, per essere poi raccolti con una vendemmia posticipata, che viene definita “tardiva”. L’appassimento artificiale, invece, viene guidato dal produttore. Si raccoglie l’uva, come di consueto, ma invece di pressarla, la si fa appassire. Il processo avviene in appositi locali asciutti, dove è fondamentale la ventilazione, che può essere sia quella propria dell’ambiente, sia quella indotta da appositi ventilatori. L’obiettivo, in ogni caso, è evitare che i grappoli ammuffiscano, per questo vengono sempre distanziati, a volte appesi a dei graticci, altre adagiati su letti di paglia o cassette. Esistono ancora alcuni posti dove, come accadeva un tempo, le uve vengono fatte appassire al sole. Tra questi abbiamo, ad esempio, Pantelleria.

Quando si passa alla vinificazione, la tecnica non cambia rispetto a ciò che accade tipicamente per il vino. Dalle uve si ottiene il mosto, e dal mosto il vino, che nasce dall’azione dei lieviti che trasformano gli zuccheri in alcol. Quello che cambia nei vini passiti è che durante la fermentazione non tutti gli zuccheri si trasformano in alcol, come accade in genere. Gli stessi, infatti, sono molto concentrati a causa dell’appassimento, tanto da interrompere l’azione dei lieviti, che superata una certa gradazione alcolica non sono più in grado di lavorare. La fermentazione, in alcuni casi, può essere interrotta anche in modo artificiale con un abbassamento della temperatura, con l’aggiunta di anidride solforosa o attraverso un’apposita filtrazione. Il risultato, in ogni caso, è che nel prodotto finale ritroveremo degli zuccheri residui.

I vini che nascono dalle uve appassite hanno la caratteristica di essere più dolci, e più morbidi, perché con la disidratazione diminuisce l’acidità che caratterizza l’uva. Anche dal punto di vista cromatico mostrano delle particolarità, che dipendono naturalmente dall’utilizzo di uve bianche piuttosto che rosse, abbracciando uno spettro di colori che va dall’oro all’ambrato, fino all’aranciato e al mogano.

Riferendosi al mondo dei passiti, si tende a pensare ai vini dolci. È importante però ricordare che esistono anche i passiti secchi.
Sono prodotti con uve appassite, sì, ma non contengono zucchero, perché è stato trasformato interamente in alcol. Due esempi su tutti: l’Amarone della Valpolicella e lo Sforzato della Valtellina. A questa specifica tipologia abbiamo dedicato uno dei nostri articoli precedenti.

Esiste inoltre un altro modo particolare di appassire le uve. Nasce dall’effetto di una muffa – la Botrytis Cinerea, o muffa nobile – che attacca gli acini e li trasforma, disidratandoli. I vini che ne nascono vengono chiamati muffati e si caratterizzano per sentori davvero unici. Anche in questo caso, è possibile approfondire l’argomento grazie a uno dei nostri articoli già pubblicati.

Un’ultima casistica riguarda i cosiddetti Ice Wine, o vini di ghiaccio, prodotti in luoghi freddi come il Canada, la Germania, l’Austria, e in genere sulle Alpi. I grappoli, in questo caso, vengono lasciati sulla pianta fino al congelamento e vendemmiati tardivamente, quando la temperatura scende sotto zero.

Tornando ai passiti più classici, e parlando di varietà, per questa metodologia si tende spesso a utilizzare uve aromatiche; tra queste ricordiamo il Moscato, la Malvasia e il Gewürztraminer. Proprio con quest’ultimo l’azienda altoatesina Hofstätter produce il suo Rechtenthaler Schlossleiten, ottenuto da vendemmia tardiva. Il clima peculiare della zona dove si trovano i vigneti connota le uve con un’importante acidità. Nel bicchiere questa si traduce in una venatura di sorprendente freschezza, che contraddistingue decisamente Rechtenthaler Schlossleiten nel panorama dei passiti. Altra sua caratteristica chiave è la bassa gradazione alcolica, che si attesta intorno al 7% e lo rende parecchio più snello rispetto alla media della tipologia. Al palato è suadente: richiama il miele, le albicocche e la frutta disidratata in generale. Interessante l’idea di degustarlo a fine pasto, magari per accompagnare un dessert o una selezione di formaggi erborinati.

 

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

SPUMANTI, DOSAGGIO ZERO ED EVOLUZIONE DEL GUSTO

Il mondo del gusto non è mai rimasto fermo, nel corso dei secoli ha vissuto un’evoluzione costante. Questi cambiamenti riguardano da sempre sia l’ambito del vino, sia quello del cibo in generale. Gualtiero Marchesi, ad esempio, sull’onda della Nouvelle Cuisine ha portato una grande rivoluzione nel nostro Paese. Fino a quel momento la lavorazione degli ingredienti, con preparazioni anche molto elaborate, aveva un ruolo centrale. È proprio Marchesi in Italia a dare nuova dignità alle materie prime e alla qualità che le contraddistingue, aprendo la strada a uno stile inedito dove le preparazioni si semplificano, e gli ingredienti emergono con le loro caratteristiche intrinseche.

Lo stesso vale per il vino. Intorno agli anni Ottanta e Novanta molti appassionati amavano rossi corposi e molto strutturati, prodotti utilizzando botti piccole per far sì che i sentori del legno incidessero significativamente sul vino stesso. Anche la critica valorizzava quel tipo di etichette, e il mercato di conseguenza faceva lo stesso. Nei decenni il quadro è cambiato parecchio e oggi ci troviamo in un periodo in cui si sta consolidando una tendenza differente, per certi versi quasi opposta. Per descriverla bisogna fare un passo indietro. Il mondo della degustazione, tra i vari approcci, ne utilizza uno che divide i sentori del vino in durezze e morbidezze. Nel primo gruppo ci sono l’acidità, la sapidità e i tannini; nel secondo si trovano zuccheri, alcol e polialcoli. Questi ultimi comprendono la glicerina, fondamentale per dare al vino viscosità, dunque densità e morbidezza. Un vino ben fatto, tra le varie caratteristiche, presenta un equilibrio tra questi aspetti, o comunque una proporzione ragionata a monte. Chiarite queste due dimensioni, possiamo dire che da qualche anno esiste una tendenza a valorizzare le durezze. Lasciamo da parte i tannini, che derivano dall’utilizzo delle bucce nella fase di lavorazione del vino, e riguardano principalmente i vini rossi e i cosiddetti orange wine. Nelle enoteche si trovano sempre più spesso vini con maggior acidità e freschezza di un tempo, più sferzanti. Anche la sapidità è valorizzata: si può riflettere ad esempio in sentori iodati sottili, appena percepibili, oppure in note saline più nette e marcate.

Il mondo degli spumanti non è escluso da questa nuova ondata. Anzi, se parliamo di Metodo Classico in particolare, il tema
assume grande centralità. Questi vini sappiamo infatti che vengono classificati in base alla quantità di zuccheri residui che si trovano in bottiglia. Extra-dry, brut ed extra-brut, ad esempio, sono diciture che identificano una specifica quantità di residuo zuccherino. Possiamo dire che, per un gioco di equilibri tra le diverse dimensioni che abbiamo visto, in uno spumante con più zuccheri emergerà maggiormente la componente morbida. Viceversa, una quantità minore di zuccheri lascerà più spazio ad acidità e sapidità, dunque alle durezze.

Oggi, coerentemente con la tendenza di cui sopra, c’è un’attenzione sempre più grande per gli spumanti con presenza di zuccheri molto bassa, o addirittura pari a zero. La categoria viene chiamata dosaggio zero, o pas dosé; il nome deriva dal dosaggio del liqueur d’expédition, quello che appunto determina la quantità di zuccheri che rimarranno in bottiglia. Durezze più evidenti significa vini taglienti, con l’acidità in primo piano e la sapidità che può esprimersi con note salmastre, o legate al mondo dei minerali, tra cui ad esempio la grafite.

I pas dosé sono vini versatili, in grado di accompagnare diverse occasioni. Ad esempio quella dell’aperitivo, dove la freschezza gioca un ruolo fondamentale per godere di bevute senza abbinamento, o al limite accompagnate da stuzzichini leggeri. Anche per quanto riguarda i possibili accostamenti a pranzo e cena, i dosaggio zero presentano grande adattabilità e lasciano aperte molte porte. Ecco una possibile direzione, che parte dall’assenza o quasi di zuccheri, e quindi da una loro caratteristica di essenzialità. In questo senso, può essere interessante un abbinamento con piatti altrettanto essenziali come i crudi di pesce, magari delle tartare, improntati sulla qualità e sulla purezza della materia prima, che non viene nemmeno cucinata, ma solo condita delicatamente.

Uno dei produttori più interessanti nel mondo dello Champagne è Tarlant. Il suo “Zero Brut Nature“, in particolare, è prodotto con un blend di uve che comprendono Chardonnay, Pinot Meunier, Pinot Noir e altri vitigni antichi. La conduzione è biologica, con un grande rispetto della natura e un approccio che prevede il minor intervento possibile da parte dell’uomo.
Prima fermentazione in acciaio e affinamento in barrique per sei mesi, poi seconda fermentazione e risposo sui lieviti di almeno sei anni, infine la sboccatura fatta a mano. I profumi giocano tra il mondo dei fiori e quello degli agrumi, insieme a richiami di sensazioni più avvolgenti, come quelle del miele. In bocca mostra un perlage finissimo. E, naturalmente, una presenza in primo piano della dimensione delle durezze: acidità rinfrescante, e trama salina a fare da contrappunto. Ha una grande persistenza, con gli aromi che accompagnano lungamente il palato lasciando un bellissimo ricordo di questa maison artigianale oggi sempre più ricercata.

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

GLI ORANGE WINE TRA SPIGOLI E SINTONIE

Se dovessimo raccontare in sintesi cosa sono gli orange wine, o macerati, potremmo dire che si tratta di vini prodotti partendo da uve bianche, ma utilizzando il processo produttivo dei rossi, ovvero tenendo le bucce a contatto con il mosto. Il tempo di questo contatto è variabile: può andare da alcune ore a diversi mesi

Da qualche anno c’è un interesse crescente per questa tipologia di vini, che a primo impatto possono far pensare a un fenomeno nuovo. In realtà gli orange wine hanno origini antichissime, si parla di migliaia di anni fa. Da sempre, in Georgia, vengono prodotti utilizzando i kvevri, tradizionali anfore in terracotta tipiche della regione. Non si tratta dell’unica zona che ha un legame storico con i macerati. Anche l’area che si sviluppa intorno al confine tra Friuli e Slovenia ha una stretta connessione con gli orange wine.Questa zona geografica, in particolare, ha avuto un ruolo fondamentale nella riscoperta di questo particolare metodo produttivo.

Bicchieri visti dall'alto

Negli ultimi anni si è detto molto sui macerati. Spesso sono stati inquadrati come vini estremi, come la scelta giusta quando si vuole provare qualcosa di audace, magari anche un po’ ostico. Come vini difficili, in poche parole. Da un lato questa prospettiva ha un fondo di verità. La presenza dei tannini, dovuta al contatto con le bucce, porta al vino una terza dimensione fatta di durezze e spigoli. Il connubio uve bianche e macerazione, inoltre, dà al vino sentori che per molti possono risultare selvaggi, o poco familiari. Altro punto: spesso i macerati, soprattutto nel caso di contatto con le bucce prolungato per mesi, risultano vini materici, di grande consistenza. Tanto che qualcuno, scherzosamente, a volte li chiama vini “mangia e bevi”.

Questa struttura importante, dall’altro lato, apre un tema ugualmente significativo e meno evidenziato: gli orange wine sono molto versatili, soprattutto quando si tratta di cibo e abbinamenti. Le ragioni di questa adattabilità sono molteplici. Una, appena citata, è certamente quella del corpo. Una struttura più presente rispetto a quella dei classici bianchi permette ai vini macerati di uscire dai perimetri di abbinamento più comuni, che li vogliono accostati principalmente a piatti delicati, spesso a base di pesce.

I tempi di macerazione, e la relativa intensità che ne deriva, sono determinanti per valutare precisamente gli abbinamenti più indicati. Possiamo dire, ad esempio, che spesso si tratta di una buona scelta per le carni bianche e i formaggi di media e lunga stagionatura. Andando più nello specifico dei vini caratterizzati da lunghe macerazioni, un punto fondamentale è l’intensità che ne deriva.

Proprio questa intensità apre svariate opportunità di abbinamento, che in alcune circostanzepuò risolvere casi di accostamenti complessi. È il caso, ad esempio, dei piatti speziati, tipici della cucina orientale. Un orange wine di buona intensità spesso ha le caratteristiche giuste per sostenere il confronto con un’altra intensità importante, quella delle spezie appunto. L’importante, in questo caso, è tenere d’occhio i tannini; se troppo accentuati, con i loro spigoli potrebbero entrare in conflitto con la personalità spiccata delle spezie

Cucina asiatica

Un tema importantissimo è poi quello della temperatura. Giocare con i gradi centigradi, nel mondo dei macerati, può dare risultati interessanti. Partendo dal presupposto che la temperatura di servizio di questi vini si aggira intorno ai 15 gradi, bisogna tener conto che temperature più basse enfatizzano le durezze, quindi acidità, sapidità e tannini, mentre temperature più elevate portano in evidenza le morbidezze, dunque gli zuccheri, l’alcol e la componente glicerica. Se questo accade per qualsiasi tipo di vino, con gli orange wine l’ampiezza dei sentori che di dischiudono alle diverse temperature a mio avviso è davvero notevole.

Tanto che mi capita spesso, al ristorante, di scegliere per l’intera cena un solo vino, un orange wine, caratterizzato da un tempo di macerazione significativo. Servito fresco, per iniziare, può accompagnare tanti tipi di antipasti, ad esempio delle polpette di vitello. Man mano che il vino sale di temperatura, è come se gradualmente si rendesse adattabile ad ogni passaggio della cena. Un po’ meno freddo per accompagnare un primo, ad esempio della pasta fresca con un sugo d’anatra. E poi, con una temperatura ancora un po’ più alta, un secondo piatto importante, magari una carne anche di grande intensità, ad esempio l’agnello.

Come già detto, tutto è relativo alla quantità di tempo che il vino ha trascorso sulle bucce, e conseguentemente alla sua intensità. Nel caso di macerazioni meno marcate, gli accostamenti vanno riconsiderati in modo proporzionale. Munjebel VA Bianco 2019 Di Frank Cornellissen può rappresentare un buon esempio. Nasce sulle pendici dell’Etna da un blend di uve autoctone a bacca bianca e la lavorazione prevede 4 giorni di macerazione. È un vino elegante, complesso, reso ancora più speciale dal fatto che la cuvée proviene interamente da vecchie viti a piede franco che hanno tra i 60 e i 90 anni. Il contatto con le bucce è un tocco garbato che va ad accentuare ulteriormente le caratteristiche di ampiezza e finezza. E in questo caso specifico, tornando a parlare di cibo, la scelta giusta può ricadere nel mondo delle carni bianche oppure in quello del pesce, ad esempio con una zuppa alla mediterranea.


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier Ais, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

GLI ORANGE WINE TRA SPIGOLI E SINTONIE

Se dovessimo raccontare in sintesi cosa sono gli orange wine, o macerati, potremmo dire che si tratta di vini prodotti partendo da uve bianche, ma utilizzando il processo produttivo dei rossi, ovvero tenendo le bucce a contatto con il mosto. Il tempo di questo contatto è variabile: può andare da alcune ore a diversi mesi

Da qualche anno c’è un interesse crescente per questa tipologia di vini, che a primo impatto possono far pensare a un fenomeno nuovo. In realtà gli orange wine hanno origini antichissime, si parla di migliaia di anni fa. Da sempre, in Georgia, vengono prodotti utilizzando i kvevri, tradizionali anfore in terracotta tipiche della regione. Non si tratta dell’unica zona che ha un legame storico con i macerati. Anche l’area che si sviluppa intorno al confine tra Friuli e Slovenia ha una stretta connessione con gli orange wine.Questa zona geografica, in particolare, ha avuto un ruolo fondamentale nella riscoperta di questo particolare metodo produttivo.

Bicchieri visti dall'alto

Negli ultimi anni si è detto molto sui macerati. Spesso sono stati inquadrati come vini estremi, come la scelta giusta quando si vuole provare qualcosa di audace, magari anche un po’ ostico. Come vini difficili, in poche parole. Da un lato questa prospettiva ha un fondo di verità. La presenza dei tannini, dovuta al contatto con le bucce, porta al vino una terza dimensione fatta di durezze e spigoli. Il connubio uve bianche e macerazione, inoltre, dà al vino sentori che per molti possono risultare selvaggi, o poco familiari. Altro punto: spesso i macerati, soprattutto nel caso di contatto con le bucce prolungato per mesi, risultano vini materici, di grande consistenza. Tanto che qualcuno, scherzosamente, a volte li chiama vini “mangia e bevi”.

Questa struttura importante, dall’altro lato, apre un tema ugualmente significativo e meno evidenziato: gli orange wine sono molto versatili, soprattutto quando si tratta di cibo e abbinamenti. Le ragioni di questa adattabilità sono molteplici. Una, appena citata, è certamente quella del corpo. Una struttura più presente rispetto a quella dei classici bianchi permette ai vini macerati di uscire dai perimetri di abbinamento più comuni, che li vogliono accostati principalmente a piatti delicati, spesso a base di pesce.

I tempi di macerazione, e la relativa intensità che ne deriva, sono determinanti per valutare precisamente gli abbinamenti più indicati. Possiamo dire, ad esempio, che spesso si tratta di una buona scelta per le carni bianche e i formaggi di media e lunga stagionatura. Andando più nello specifico dei vini caratterizzati da lunghe macerazioni, un punto fondamentale è l’intensità che ne deriva.

Proprio questa intensità apre svariate opportunità di abbinamento, che in alcune circostanzepuò risolvere casi di accostamenti complessi. È il caso, ad esempio, dei piatti speziati, tipici della cucina orientale. Un orange wine di buona intensità spesso ha le caratteristiche giuste per sostenere il confronto con un’altra intensità importante, quella delle spezie appunto. L’importante, in questo caso, è tenere d’occhio i tannini; se troppo accentuati, con i loro spigoli potrebbero entrare in conflitto con la personalità spiccata delle spezie

Cucina asiatica

Un tema importantissimo è poi quello della temperatura. Giocare con i gradi centigradi, nel mondo dei macerati, può dare risultati interessanti. Partendo dal presupposto che la temperatura di servizio di questi vini si aggira intorno ai 15 gradi, bisogna tener conto che temperature più basse enfatizzano le durezze, quindi acidità, sapidità e tannini, mentre temperature più elevate portano in evidenza le morbidezze, dunque gli zuccheri, l’alcol e la componente glicerica. Se questo accade per qualsiasi tipo di vino, con gli orange wine l’ampiezza dei sentori che di dischiudono alle diverse temperature a mio avviso è davvero notevole.

Tanto che mi capita spesso, al ristorante, di scegliere per l’intera cena un solo vino, un orange wine, caratterizzato da un tempo di macerazione significativo. Servito fresco, per iniziare, può accompagnare tanti tipi di antipasti, ad esempio delle polpette di vitello. Man mano che il vino sale di temperatura, è come se gradualmente si rendesse adattabile ad ogni passaggio della cena. Un po’ meno freddo per accompagnare un primo, ad esempio della pasta fresca con un sugo d’anatra. E poi, con una temperatura ancora un po’ più alta, un secondo piatto importante, magari una carne anche di grande intensità, ad esempio l’agnello.

Come già detto, tutto è relativo alla quantità di tempo che il vino ha trascorso sulle bucce, e conseguentemente alla sua intensità. Nel caso di macerazioni meno marcate, gli accostamenti vanno riconsiderati in modo proporzionale. Munjebel VA Bianco 2019 Di Frank Cornellissen può rappresentare un buon esempio. Nasce sulle pendici dell’Etna da un blend di uve autoctone a bacca bianca e la lavorazione prevede 4 giorni di macerazione. È un vino elegante, complesso, reso ancora più speciale dal fatto che la cuvée proviene interamente da vecchie viti a piede franco che hanno tra i 60 e i 90 anni. Il contatto con le bucce è un tocco garbato che va ad accentuare ulteriormente le caratteristiche di ampiezza e finezza. E in questo caso specifico, tornando a parlare di cibo, la scelta giusta può ricadere nel mondo delle carni bianche oppure in quello del pesce, ad esempio con una zuppa alla mediterranea.


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier Ais, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

VITICOLTURA IN VERTICALE: VIAGGIO TRA I VIGNETI PIÙ ALTI D’EUROPA

Quanto in alto ci si può spingere in Europa con la coltivazione della vite? La domanda è più che mai attuale, visti gli effetti del cambiamento climatico e gli esperimenti sempre più frequenti per trovare nell’altitudine una delle risposte decisive. Sono diversi i vigneti che rivendicano il primato di essere i più alti nel vecchio continente. Lo scopo qui non è tanto quello di decretare il vincitore dal punto di vista orografico, o compilare una lista esaustiva, quanto quello di citare alcuni di questi casi, e delineare alcuni tratti distintivi che caratterizzano le vigne in quota e i vini che ne derivano.
Il sud Spagna, con la catena montuosa de La Contraviesa, sembra quella che è riuscita a toccare le altitudini più elevate. Siamo vicino al Parco Nazionale della Sierra Nevada, a sud-est di Granada, all’impressionante quota di 1.368 metri sul livello del mare, mitigata dai venti caldi che provengono dal mare di Alboran. Qui l’azienda Barranco Oscuro coltiva 10 ettari di terreno, un’estensione non banale per condizioni tanto estreme. Tra i vitigni coltivati ci sono sia una serie di autoctoni, sia alcuni internazionali tra cui Pinot Nero e Merlot.
In Alto Adige, precisamente nell’alta Val Venosta, esiste un altro luogo che sfiora le quote dello spagnolo appena citato. Qui l’azienda Calvenschlössl cura diversi vigneti, tra cui uno molto speciale. Si chiama Marienberg, ed è stato l’omonimo monastero benedettino a concedere il terreno perché potesse essere coltivato.L’incredibile altitudine dove cresce il vitigno Solaris è quella di 1.340 metri sul livello del mare, davvero un soffio dal titolo di vigneto più alto d’Europa. Si tratta di luoghi di incredibile fascino, dove la storia millenaria del monastero benedettino si fonde con scenari scoscesi dalla bellezza folgorante, e il lago di Resia spicca con le sue acque cristalline.

Sempre in Italia, ma a tutt’altra latitudine, la viticoltura vola fino a 1.300 metri sul livello del mare. Siamo in Calabria, a Cava di Melis, un piccolo paese nel cuore del Parco Nazionale della Sila, nel comune di Longobucco. L’azienda si chiama Immacolata Pedace, coltiva diversi vitigni internazionali tra cui Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Pinot bianco e Chardonnay. La viticoltura ad altezze così proibitive, in questo caso, è resa possibile da un incrocio delicato di fattori, tra cui la presenza del lago Cecita, che con il suo influsso agisce da elemento mitigante, permettendo di superare i rigidi inverni in cui le temperature arrivano anche a 20 gradi sotto lo zero.Tornando a nord, anche la Valle D’Aosta è conosciuta per le altitudini impressionanti della sua viticoltura. Siamo a 1.210 metri, nella parte nord-ovest della regione, dove nasce il noto Blanc de Morgex et de La Salle, prodotto con uve Prié Blanc. La cantina si chiama Cave Mont Blanc, oggi conta circa 80 soci, ciascuno dei quali coltiva un piccolo vigneto ai piedi del Monte Bianco.Tornando in Alto Adige, e in particolare nella Valle di Non, una realtà davvero interessante è Vin de la Neu, guidata da Nicola Biasi, enologo conosciuto internazionalmente per la capacità di far crescere e affermare sul mercato diverse realtà italiane.

Nicola, oltre dieci anni fa, decide di impiantare a oltre 800 metri di altitudine la varietà resistente Johanniter: il 2013 è l’anno della prima vendemmia. Uno dei punti più interessanti del lavoro di Vin de la Neu è la sperimentazione che oggi, attraverso scienza e conoscenza, permette di produrre vini ad altitudini più elevate rispetto al passato. Uno dei tasselli fondamentali che consente di raggiungere questo obiettivo è lo studio delle varietà resistenti, come appunto la Johanniter. I risultati che danno dal punto di vista agronomico contro le malattie fungine, e non solo, sono davvero straordinari. Questo, naturalmente, permette una totale assenza di trattamenti in vigna, e dunque di portare avanti una viticoltura che davvero si può definire sostenibile e rispettosa del territorio che la accoglie.
Il risultato nel bicchiere è tangibile e inequivocabile. Quelli di Nicola sono vini di grandissima purezza e pulizia, caratterizzati da un’espressività che lascia il segno. L’annata 2017 di Vin de la Neu, in particolare, si caratterizza per il rigore e la freschezza che deriva dall’ambiente montano dove nasce. L’arancia, l’ananas e alcune interessanti sfumature erbacee, si uniscono a una gamma di sentori appartenenti al mondo minerale, come la grafite. A questi si aggiungono screziature di profumi terziari, tra cui si distinguono sfumature di idrocarburi e riverberi iodati. Un sorso teso, ricco e perfettamente a fuoco, che contiene in nuce l’anima di un progetto innovativo che fa dell’armonia con l’ambiente montano la propria cifra distintiva.

Georgia Dimitriou, l’anfitrione de Le Mortelle

L’enologa della tenuta maremmana dei Marchesi Antinori ci porta alla scoperta di questa splendida realtà parlando di identità, di terroir, di architettura e sostenibilità, temi perfettamente integrati all’interno di una delle più importanti aziende vinicole italiane.

Prima di tutto, ci vuole raccontare un po’ di sé, di come si è avvicinata al mondo del vino e del suo affascinante percorso professionale?

Per quanto affascinante può sembrare oggi il mio percorso, confesso che il mio avvicinamento è stato quasi casuale. Studiavo agronomia ad Atene, la mia città di origine, quando mi ha colpito la magia, come la chiamo, della viticoltura; il fatto che da una materia semplice com’è l’uva possa uscire un prodotto talmente complesso ed elegante come può essere il vino. Il ruolo dell’uomo nel centro di questa trasformazione mi ha intrigato cosi tanto da decidere di voler assolutamente fare questo lavoro. Quindi sono partita dalla Grecia per perseguire questa passione in giro per il mondo. Dopo il mio Master in Francia ho lavorato in varie regioni vitivinicole come Bordeaux, Napa Valley, Yarra Valley, Malborough per poi arrivare in Toscana esattamente sette anni fa.

Le Mortelle, come le altre splendide tenute dei Marchesi Antinori, presenta un contesto ambientale unico che, oltre ad essere di una bellezza speciale, è anche estremamente peculiare per quanto riguarda la composizione del terreno e l’esposizione delle vigne. Ce lo può descrivere e spiegare la personalità conferita ai vini della tenuta?

La tenuta, circondata da piccole colline che creano una sorta di anfiteatro, si trova nel sud della Toscana, in Maremma, a una distanza di circa 7 km dal mare. È proprio questa vicinanza al mare, insieme alle caratteristiche pedologiche, a rendere Le Mortelle un posto unico. I nostri terreni, di origine alluvionale/marina, sono ricchi di scheletro con percentuali elevate di sabbia e una piccola percentuale di argilla. La ricchezza di scheletro in superficie tende a mantenere il calore e, insieme alla sabbia, permette un buon drenaggio, limitando eventuali stress idrici estivi. Allo stesso tempo, le vigne hanno un’esposizione Est-Ovest così da sfruttare al meglio il Maestrale pomeridiano che mitiga le temperature. Queste condizioni favoriscono una maturazione lenta e ottimale, soprattutto per le nostre varietà tardive come il Cabernet Sauvignon e il Carménère, dando vita a vini di grande eleganza aromatica e raffinatezza tannica.

Come Winefully abbiamo imparato a conoscere Le Mortelle per mezzo del Poggio alle Nane e dell’Ampio, due rossi complessi e strutturati che sono ambasciatori della Tenuta: come ce li può descrivere e che similitudini (e differenze) troviamo nei due?

A entrambi i vini sono dedicate le migliori parcelle della tenuta e le cure più attente durante tutte le fasi della loro produzione, cominciando dalle operazioni nel vigneto.
Poggio alle Nane è un vino concepito su un’espressione molto elegante del Cabernet Franc della tenuta. La complessità aromatica ottenuta dalle nostre migliori uve di questa varietà, con note di pepe bianco, di mirtillo e di menta, unita alla fitta trama tannica conferita dal Cabernet Sauvignon e il carattere speziato e vellutato del Carménère, creano un vino complesso con un grande potenziale di invecchiamento. Un vino che può offrire soddisfazioni immediate ma che rivela ancora di più il suo carattere a chi ha la pazienza di aspettare.
Ampio invece è un’espressione del tutto particolare di Carménère. Una varietà della stessa famiglia del Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon con cui condivide molte similitudini, soprattutto a livello aromatico, con sfumature di ribes nero e di liquirizia, spesso predominanti. Il Carménère, vitigno di origine bordolese e faro dei vini cileni, viene spesso considerata una varietà meno elegante che però, come mi piace dire, ha trovato nel nostro territorio la sua grazia. L’uvaggio di Ampio, frutto di una conoscenza profonda dei nostri vigneti, ha un’identità più pronunciata e fortemente caratterizzata dalla varietà. Con un lungo affinamento in rovere francese 100% nuovo, ha un bouquet complesso di grande finezza, tannini setosi e una persistenza degustativa straordinaria.

Antinori ci ha abituato a confrontarci con vini straordinari che rappresentano oggi l’enologia italiana nel mondo e che si sono spesso spinti ben oltre le denominazioni locali: è il caso di Poggio alle Nane e di Ampio delle Mortelle. Da produttori come vengono visti i disciplinari odierni?

Storicamente in Italia, come anche in altri paesi tradizionali del vino, i disciplinari hanno spesso contribuito alla notorietà dei vini nel mondo e al miglioramento della qualità all’interno delle regioni viticole. Oggi giorno però, la forte competizione dei vini del Nuovo Mondo spinge ancora di più al superamento delle frontiere enologiche e il caso dei Supertuscans è più che mai attuale. In più, Le Mortelle fa parte di una zona vitivinicola molto giovane e allo stesso tempo molto variegata, di 8.700 ettari vitati. La Maremma ha indubbiamente un grande potenziale enologico ma deve ancora concretizzare la sua identità. Noi come azienda rispettiamo il nostro territorio creando vini rappresentativi e identitari di altissimo livello. Questo è il nostro contributo a tale obiettivo. Avere la flessibilità per farlo è altrettanto importante.

Le Mortelle, oltre ad essere una delle più belle realtà italiane dal punto di vista estetico ed architettonico, è anche all’avanguardia nelle pratiche di cantina: struttura interrata, processo produttivo per gravità, sfruttamento massimo delle condizioni ambientali sono solo alcuni degli aspetti più interessanti. 
Come si riflette tale complessità nei vini della tenuta?

La cura delle uve e la qualità di ciascun acino è un valore fondamentale per la produzione dei vini come Poggio alle Nane e Ampio. Al tempo stesso abbiamo la fortuna di essere in una zona vitivinicola dove la maturazione delle uve raggiunge un tale livello da renderli estremamente delicati. Tutte le operazioni in cantina hanno quindi come obiettivo quello di ottimizzare al massimo la precisione e diminuire al minimo le condizioni di stress per la materia prima. La vinificazione per gravità, i serbatoi troncoconici, le estrazioni con follatori pneumatici, la barricaia interrata sono solo alcuni degli strumenti che garantiscono una lavorazione delle uve meno traumatica, preservando i profumi varietali e facilitando l’estrazione di tannini setosi. Solo cosi riusciamo a esprimere al meglio il carattere del nostro territorio.

Oggi si parla sempre di sostenibilità nella filiera del vino e sappiamo che tale filosofia è fondamentale nel business model di Antinori: come viene interpretata la sostenibilità a Le Mortelle e cosa restituisce la cantina all’ambiente circostante?

Il progetto di costruzione della cantina de Le Mortelle è stato concepito fin dall’inizio come un progetto eco-sostenibile con sistemi innovativi come quello della fitodepurazione delle acque reflue, ma anche con semplici meccanismi che sfruttano la gravità, la luce naturale e la termoregolazione della roccia. Così Le Mortelle pone il rispetto per l’ambiente e il risparmio energetico al centro della sua attenzione.
 Il principio della sostenibilità si riflette quindi su ogni passaggio, cominciando dal vigneto e in tutte le fasi della produzione. Ad esempio, negli ultimi 10 anni abbiamo investito nella difesa integrata contro gli insetti, con l’uso si feromoni e lanci di insetti predatori, in modo tale da arrivare all’abbandono di insetticidi senza compromettere la qualità dei nostri vini.
 La sostenibilità è per Le Mortelle un approccio sano e rispettoso dell’ambiente, nella migliore tradizione agricola, unito alla ricerca e alla tecnologia.

Antinori è una delle realtà principali nel contesto italiano del vino, sia per la lunga storia che ha alle spalle, sia per il patrimonio enologico rappresentato dalle sue tenute. Cosa significa fare parte di una realtà di questo tipo, dove c’è una forte e coerente visione imprenditoriale d’insieme ma allo stesso tempo ogni tenuta ha una chiara e indiscutibile identità? Come si coniuga la singolarità di un progetto con la cornice d’insieme?

Immagino sia possibile perché l’obiettivo è comune e al centro del modello aziendale; produrre vino di qualità. Per quanto sembri banale è un obiettivo che talvolta viene trascurato dalle aziende. Il vino non può essere visto come un prodotto alimentare qualsiasi, è un prodotto agricolo, dipendente dalla Natura e da lei fortemente influenzato. Proprio per questo il vino di qualità non può essere standardizzato e l’uomo diventa il fattore chiave. La famiglia Antinori e Renzo Cotarella, CEO e capo enologo dell’azienda, sono nati nel mondo del vino e questo principio lo conoscono benissimo. Per questo hanno ritenuto fondamentale che ogni tenuta avesse la sua identità e la sua autonomia, ciascuna con la sua propria squadra.

Nel chiudere l’intervista ci piacerebbe, per quanto possibile, guardare al futuro: Georgia cosa aspettarci (o augurarci di aspettare) dal prossimo futuro di Le Mortelle?

Penso che il prossimo futuro de Le Mortelle sarà ancora più “green”. La famiglia Antinori è da sempre convinta che il rispetto per l’ambiente debba essere al centro delle attenzioni e sforzi. Per Le Mortelle la sfida è ancora più importante perché siamo in una zona di grande bellezza naturalistica, dove gran parte della Maremma costiera è considerata Riserva Naturale.
Quindi, nei prossimi anni vorremmo ulteriormente diminuire il nostro consumo energetico, aumentando l’uso di energie rinnovabili. Vorremmo sensibilizzare tutti i nostri dipendenti verso questa direzione, perché solo cambiando la nostra mentalità possiamo migliorare veramente le cose. Di una cosa sono certa, che il rispetto per l’ambiente e la sua biodiversità sia importante sia per motivi etici che per motivi tecnici; più lavoriamo in armonia con il nostro territorio, più saremo in grado di produrre dei vini di grande espressione.

Georgia Dimitriou Enologa de Le Mortelle

I fine wines fra investimento e collezionismo – Parte Prima

Possiamo considerare i fine wines una sorta di bene rifugio? È una domanda che, prima o poi, tutti gli appassionati di vino si fanno, soprattutto osservando l’andamento di un mercato che, al netto di qualche piccolo fisiologico rallentamento, sembra ormai da anni non conoscere crisi. Le risposte, come sempre davanti alle domande complesse, sono più di una. Iniziamo col dire che i vini pregiati sono una forma di investimento ma che i connotati di quest’ultimo cambiano molto a seconda dell’attitudine di chi acquista: c’è chi ha un approccio prettamente “finanziario” e che compra, costruendo una sorta di portfolio di investimento – a volte affidandosi a veri e propri consulenti finanziari specializzati nel settore – sempre tenendo ben presente la componente di rischio che è propria di ogni operazione di questo tipo. È una dinamica simile a quella di altri settori di investimento, con, però, un elemento differenziante rispetto a tutti gli altri mercati: nel momento in cui si acquista un vino pregiato, si acquista un oggetto di un certo valore economico, dotato di una fortissima allure esperienziale, capace di mitigare gli imponderabili fattori connessi a un investimento, che in fondo è sempre anche una scommessa. Il vino “da investimento”, infatti, rimane prima di tutto un eccellente prodotto enologico, che nella peggiore delle ipotesi può essere consumato, regalando al proprietario (e ai suoi fortunati commensali) una probabile esperienza memorabile, in grado di compensare l’eventuale perdita economica. Il vino pregiato, dunque, da questo punto di vista, è un tipo di investimento che potremmo definire meno “freddo”, perché comunque legato a una passione e a un certo gusto da bon vivant.

Accanto a questo approccio, per certi versi anche meramente speculativo, esiste quello del collezionista, ovvero di chi acquista – con amore e competenza – con l’idea di costruire una cantina, dinamica e varia del punto di vista delle referenze e della loro provenienza, dove i grandi classici affiancano nomi nuovi dal buon potenziale futuro. Una collezione, dunque, che acquisisce valore nel tempo e nel suo insieme e pensata per un fine personale, senza magari escludere l’opportunità di una buona vendita al momento giusto. Se questi sono gli identikit di chi investe in vino, possiamo dire che anche il vino pregiato ne ha uno.

Esistono, infatti, alcuni parametri che determinano il suo valore economico: dalle annate che hanno ottenuto punteggi elevati alle edizioni speciali o “a tiratura limitata”, passando per i cosiddetti formati speciali, come magnum o doppio magnum dalle produzioni contenute e numerate.

Per quanto riguarda, invece, le etichette, le grandi icone – come i Premier Cru Classé di Bordeaux, i Grand Cru di Borgogna o i nostri Barolo e Supertuscan – rimangono tali e sono pressoché inscalfibili ma, come certifica l’ultima edizione della classifica del Liv-ex, il panorama è in costante evoluzione con una grande crescita proprio dei fine wines italiani e di una nuova generazione di vini californiani ma anche tedeschi, cileni e australiani che nei nei rapporti – punto di riferimento per il mercato secondario – hanno dimostrato ottime perfomance.

Ciò che determina queste evoluzioni non è semplicemente la normale crescita qualitativa delle cantine o il naturale evolvere del gusto ma anche e soprattutto l’andamento della critica internazionale: personaggi influenti come James Suckling e Robert Parker, con le loro valutazioni, da decenni non solo aprono la strada a nuove tendenze, ma orientano a tutti gli effetti l’andamento del mercato.

In Italia uno degli esempi più evidenti è rappresentato dalle vicende recenti di Montalcino, qui nell’ultimo decennio il lavoro serio e tenace di diverse aziende per alzare il livello qualitativo del loro Brunello ha dato i suoi frutti ed è stato premiato a livello internazionale, ma non bisogna dimenticare che senza l’innamoramento di Suckling per il borgo e il suo vino più celebre probabilmente alcune cantine, più o meno note, non avrebbero goduto dell’incredibile visibilità che hanno oggi.

Quando si parla di fine wines non si può prescindere dal canale di acquisto: il vino è “un alimento vivo” che va  trattato con una serie di cautele, perché troppi passaggi di mano e una logistica poco accurata possono danneggiarne la qualità e il valore. Per questo, il consiglio migliore è sempre quello di acquistare direttamente in cantina oppure da professionisti che lavorano per assegnazione e per questo comprendono il valore economico ed enologico del vino e sono anche adeguatamente attrezzati per ridurre al minimo i rischi. Per gli stessi motivi, l’altro elemento fondamentale è lo stoccaggio: come vi abbiamo raccontato qualche tempo fa (link), la corretta conservazione del vino è un passaggio determinante per mantenerlo in ottime condizioni e assecondare tutto il suo potenziale evolutivo, tanto per poterlo consumare quanto per poter monetizzare il suo acquisto. Ci sono accorgimenti per costruire una cantina casalinga che sia adeguata alla conservazione, ma bisogna anche dire che raramente il contesto domestico, per quanto ben attrezzato, può rispettare tutte le condizioni ideali di stoccaggio. Proprio partendo da questa consapevolezza è nato, per esempio, il nostro servizio su richiesta e senza costi aggiuntivi, per conservare le bottiglie dei nostri clienti in condizioni ottimali, fino a quando lo vorranno.

Accanto al canale di acquisto e allo stoccaggio c’è un terzo fattore imprescindibile per chi vuole considerare la propria collezione di fine wines un investimento finanziario: il canale di vendita. Vendere privatamente implica la possibilità proporre prezzi più vantaggiosi e allettanti per chi acquista ma il limite è rappresentato dal fatto che ci si muove in un’area opaca, dove non ci sono regole ben definite e tutto dipende, in sostanza, dalla serietà delle due parti in causa e dalla loro capacità di creare una fiducia reciproca tale da permettere le negoziazioni. La soluzione migliore, dunque, è quella di guardare a realtà specializzate che, avendo accesso al mercato primario, non solo sono sempre aggiornate sugli andamenti del mercato e della critica, ma adottano anche policy tali da garantire venditore e acquirente.

Sono le stesse realtà professionali che aiutano a capire il giusto valore economico della bottiglia. La valutazione di un vino è qualcosa di complesso e in qualche misura aleatorio perché il prezzo lo fa il mercato – per esempio il già citato Liv-ex – ma parliamo di un mercato abituato a lavorare sui cosiddetti lotti vergini (le casse di legno chiuse e sigillate) e non su singole bottiglie e sempre nel rispetto delle condizioni di stoccaggio e logistica di cui abbiamo parlato poco fa. Il singolo venditore privato, quindi, si trova inevitabilmente in una condizione di svantaggio se decide di agire autonomamente, senza l’intervento di società specializzate che possano guidare la vendita nella maniera più appropriata e vantaggiosa. È quindi sempre utile – se non necessario – confrontarsi con realtà con esperienza e capacità negoziali e tecniche, per impostare al meglio la vendita o semplicemente per scambiare qualche opinione sulla propria cantina privata, ma anche per comprendere le dinamiche di un mercato sicuramente più complesso, variegato e sfaccettato di quanto possa sembrare a una prima osservazione.

Concludiamo rimandandovi al prossimo articolo del Magazine Winefully per i nostri consigli circa vini, annate e formati che riteniamo si prestino meglio a un acquisto o al collezionismo, con o senza fini di una eventuale futura rivendita.

Redazione 07.10.2021

Drengot: il rinascimento dell’Asprinio

Alberto Verde è un quarantaduenne dallo spirito indomito, orgogliosamente campano, che per argomentare le ragioni del suo incondizionato amore per la Campania arriva a citare il filosofo francese Régis Debray, che nel suo ultimo libro (Contro Venezia, pubblicato qualche mese fa) definisce Napoli come «la vitalità incarnata. […] La città meno narcisista che ci sia, l’unica in Europa dove il mito si incontra per strada, dove il passato si vive al presente».

Da questo amore e dalla conoscenza profonda del territorio è nato un progetto ambizioso di riscoperta e valorizzazione dell’Asprinio, un vitigno autoctono dell’aversano con una vicenda unica, che si intreccia con quella degli Angiò ma anche quella dello champagne e del Greco di Tufo e che testimonia le profonde trasformazioni (non sempre positive) vissute dal territorio campano nel corso della storia. Con la sua cantina, Drengot – in omaggio al conte normanno Rainulf Drengot, che nel 1030 fondò Aversa – oggi Alberto produce tre ottimi vini, a base di Asprinio proveniente dalle vigne ultracentenarie di famiglia.

Lo abbiamo incontrato prima della pausa estiva e ci siamo fatti raccontare qualcosa di più su Drengot e sulla sua visione.

Sei partito da una vigna di famiglia e da lunga storia, operando una piccola rivoluzione nel territorio di Cesa e di tutto l’aversano. Ci racconti come è nato il tuo progetto e perché hai scelto di lavorare solo con Asprinio?

Per raccontarti come siamo arrivati a Drengot voglio fare una premessa, per me importante, che riguarda il territorio in cui ci troviamo.

La provincia di Caserta è una delle migliori di Italia per la vitivinicoltura perché è estremamente fertile – siamo nel cuore di quella che gli antichi chiamavano Campania Felix – ma proprio la sua fertilità ha fatto sì che, soprattutto dal dopoguerra in avanti, ci si concentrasse su coltivazioni intensive, per sfruttare al massimo la ricchezza del territorio. Anche perché i prodotti alimentari del casertano non hanno eguali in Italia dal punto di vista qualitativo e, quindi, sono sempre stati molto richiesti. Non lo dico per partigianeria, è la realtà e lo dimostra il fatto che ancora oggi la gran parte dell’industria agroalimentare del paese viene qui a comprare materie prime e prodotti per poi rivenderli con la propria etichetta. Il limite di questo sistema qual è, però? Che questa zona, speciale dal punto di vista agronomico, ricchissima in biodiversità e con una lunga tradizione agroalimentare, è diventata, nel tempo, una terra di contoterzisti a servizio di tutte le aziende del paese. È stata la sorte di molte zone del Sud Italia, a seguito del boom economico e con la parallela perdita della vocazione agricola di queste zone. Sembra, però, che le cose stiano piano piano cambiando, anche se ci vorrà tempo per vedere i risultati.

Sì, è vero, gli imprenditori agricoli di nuova generazione stanno cercando di fare un lavoro diverso. Per esempio, qui nell’aversano ci sono tantissime aziende agricole che operano in biologico e soprattutto si stanno facendo strada molte realtà che hanno scelto di entrare nella grande distribuzione con un marchio proprio e con un posizionamento e una strategia di comunicazione a supporto. Stiamo cercando di uscire dalla logica contoterzista per riappropriarci della nostra identità, anche per poter dare il giusto valore – economico e culturale – ai nostri prodotti, che sono davvero di qualità altissima, che si tratti di frutta, di verdura, di vino o di formaggi.

La cosa più difficile è capovolgere la prospettiva e allontanare tutti quei pregiudizi che si sono nel tempo accumulati e che, nella maggior parte dei casi, sono frutto di una pessima narrazione delle nostre terre e della nostra storia.

Tu con Drengot stai cercando di dare un tuo contributo per quanto riguarda il vino, dando una nuova vita a varietà autoctona come l’Asprinio. Mi sembra che il tuo progetto sia animato da un certo spirito battagliero.

Assolutamente sì. Quando ho iniziato a pensare di avviare un progetto sui terreni di famiglia, non avevo in mente di fare vino ma ero sicuro di voler qualcosa per restituire a questo territorio quello che merita, con un misto di orgoglio e di senso di riscatto, per tutto quello che ci è stato tolto e le opportunità che non ci sono state date.

La scelta dell’Asprinio è arrivata strada facendo, ci sono stati due episodi piccoli ma decisivi. Il primo è stato una lunga chiacchierata con un produttore di vino del Veneto, per il quale l’Asprinio è uno dei bianchi migliori d’Italia. Per me è stata una sorta di illuminazione, che mi ha portato a riflettere molto, anche perché la mia famiglia alleva Asprinio da sempre, almeno dal 1800, ma sicuramente potremmo andare ancora più indietro, volendo fare un po’ di ricerca. E io stesso sono cresciuto in mezzo alle vigne, insieme ai miei cugini ho passato tutte le mie estati di bambino e ragazzino lì. Quindi, dopo questo incontro ho fatto un giro nella vecchia cantina di mio nonno e per le vigne e così ho deciso, immaginandolo subito come un progetto di lungo respiro, a venti – ma anche trenta – anni. Volevo costruire qualcosa che potesse durare nel tempo e che desse davvero valore a questa terra. L’Asprinio ha caratteristiche che lo rendono unico nel panorama vinicolo italiano. Ci dici qualcosa di più?

Per prima cosa bisogna dire che è un vitigno che qui si alleva fin dall’antichità e che definire territoriale è poco, perché cresce solo qui e quando dico “qui” intendo i quindici comuni dell’aversano, perché se già provi a spostare l’Asprinio di pochi chilometri, diciamo a Caserta, non cresce più.

E fammi fare anche un piccolo excursus storico: nel Settecento, a causa di una pandemia a Napoli e dintorni, un nobile locale decise di trasferirsi e isolarsi – non abbiamo certo inventato noi il lockdown –  nel castello di Tufo, portando con sé, fra i vari beni, anche alcune viti di Asprinio per impiantarle nei terreni circostanti. Ora, una delle caratteristiche di questa varietà è che si sviluppa in altezza, raggiungendo e superando i 15 metri,  a Tufo però le viti non riuscivano a crescere e presero nel tempo un’altra fisionomia e altre caratteristiche: il Greco di Tufo è nato dall’evoluzione di quelle prime viti di Asprinio.

E proprio dalla straordinaria altezza di cui ti parlavo deriva la peculiare struttura delle alberate aversane: le viti di Asprinio crescono intrecciate – o “maritate” come si dice da noi – ai pioppi che vengono utilizzati come supporti, mentre i tralci si attorcigliano a cavi di ferro zincato, creando quasi dei muri vegetali. È un’altra di quelle meraviglie che si trovano solo qui, tanto che le alberate sono state riconosciute come patrimonio immateriale della Regione Campania.

La leggenda dice che l’Asprinio è stato il primo spumante dalla storia. Quanto c’è di vero?

È tutto vero! Semplicemente perché l’Asprinio ha un’acidità di dieci decimi. Non esiste nessun’altra uva che raggiunge questi livelli, quindi si può dire che dall’Asprinio nasce un vino naturalmente frizzante. È uno spumante naturale di fatto e quando diciamo che le bollicine sono nate qui, lo diciamo perché alla corte degli Angiò si beveva solo Asprinio, proprio perché frizzante. Tutto questo è documentato.

Il primo documento ufficiale in cui si cita l’Asprinio è datato 1495 ed è una scrittura privata fra un proprietario terriero e il suo colono ma, come ti dicevo, nell’aversano si alleva da sempre.

È incredibile come un vino così speciale sia stato così poco valorizzato, quasi dimenticato. Credo che sia una dinamica collegata anche al contoterzismo di cui parlavi prima.

Sì, certo. In realtà a livello locale non si è mai smesso di consumare Asprinio ma diciamo che è sempre stato il classico vino da vendere sfuso o da produrre e destinare a uso privato e questo perché dal secondo dopoguerra fino agli anni Novanta il grosso della produzione era destinato alla cantina della Vecchia Romagna, che pagava molto bene le uve per due utilizzi: l’uva era usata per ottenere una base spumante da vendere ai produttori francesi di champagne; con la vinaccia, invece, si otteneva il famoso brandy. Quindi, per decenni – fino alla chiusura di questa cantina – non è stato più redditizio produrre un nostro vino.

Per quanto riguarda la nostra azienda agricola, alla morte di mio nonno (nel 1990), mio padre ha preso in mano la sua gestione, dedicandosi soprattutto alla vigna che è antica, tutte le nostre piante hanno circa 200 anni. Drengot nella sua fisionomia attuale quando è nata, quindi?

Le prime due annate sono state la 2015 e 2016, ma nei fatti sono state dei test, non abbiamo mai pensato di commercializzarle. Nel 2017 ho ripensato tutta la struttura, con un nuovo gruppo di lavoro che funziona molto bene e, così, siamo arrivati a una formula convincente: il lancio sul mercato del vino è avvenuto nel 2018 e quello dello spumante nel 2019.

Avevo in mente un prodotto “ultra-territoriale”, lavorando solo ed esclusivamente con Asprinio, per tutti i motivi che già ti ho raccontato, e volevo che fosse un prodotto di alta qualità che rendesse finalmente giustizia al grande potenziale di quest’uva. Volevo dimostrare, ai miei conterranei prima di tutto, che quel vino, che qui chiamavano tradizionalmente “il vinello”, poteva essere un ottimo vino, di grande piacevolezza e con buon potenziale evolutivo. Un vino di fascia alta.

Ho scelto il nome Drengot per dichiarare da subito il legame con il territorio. Mentre le nostre tre referenze hanno nomi connessi alla storia locale: Terramasca significa terra vulcanica, quindi rimanda al carattere delle nostre terre, Scalillo è un omaggio alla scala che usiamo durante la vendemmia e che ha una particolare forma rastremata per consentire la raccolta manuale sulle nostre alberate e, infine, Asprinium per celebrare fino in fondo la nostra varietà, con un rimando al mondo latino, quindi alle nostre radici.

Terramasca è la vostra referenza di punta, lo definirei un metodo Charmat “nobile” perché matura un anno in acciaio, fa diciotto mesi di affinamento sui lieviti, con un riposo, poi, in bottiglia di almeno altri sei mesi. Considerando, però, il carattere naturalmente frizzante dell’Asprinio, mi viene spontaneo chiederti se pensi di produrre anche un metodo classico.

In realtà ci stiamo già lavorando e ti posso dire che, nel futuro prossimo, Terramasca sarà esclusivamente un metodo classico, non posso essere più preciso perché vogliamo prenderci tutto il tempo che ci serve per arrivare a una bollicina perfetta, che ci soddisfi a pieno. Quest’uva se lo merita!

Sicuramente, Terramasca rimarrà la nostra eccellenza, ma non abbandoneremo del tutto lo Charmat. Lo useremo, infatti, per una nuova referenza un po’ più giovane e non più di annata e per questo più accessibile nel prezzo. Per me è importante, in questo momento, far arrivare l’Asprinio a un pubblico ampio, senza naturalmente abbassare la qualità. Il tuo progetto sta dimostrando fin dove può arrivare l’Asprinio. Che impatto ha avuto il tuo approccio a livello locale? Come è stato recepito?

Ciò che ho portato io qui è stata soprattutto una mentalità positiva: il prodotto c’era ma era poco considerato, da noi per primi. E per questo motivo, nonostante tutte le peculiarità dell’Asprinio, il vino è sempre stato di bassa qualità; quello che ho scelto di fare io, invece, è stato nobilitarlo al massimo, mettendo in piedi un gruppo di lavoro di alto livello e mostrando a tutti tutto il potenziale che abbiamo. E nel farlo ho stupito positivamente i consumatori ma anche gli altri imprenditori agricoli. Diciamo che sono riuscito a smuovere le acque.

Per me, personalmente, Drengot va oltre le opportunità imprenditoriali, è un progetto che riguarda soprattutto il territorio nella sua interezza: sono partito dall’Asprinio per dare nuovo valore a tutto quello che abbiamo qui. Però ammetto che c’è tantissimo da fare e che sono solo agli inizi, con la complicazione che ci troviamo a dover fare il lavoro di un consorzio, che qui non c’è.

Capisco, anche perché per portare avanti certi discorsi servono le istituzioni e serve anche una visione di marketing territoriale, che sono può essere affidata solo a un singolo.

Devo dire che le Pro Loco qui stanno facendo un gran lavoro di supporto. L’inserimento dell’Asprinio fra i beni immateriali campani, si deve al loro impegno. È un riconoscimento importantissimo, non solo a livello simbolico ma anche perché vincola tutti a una tutela delle viti e a una cura del territorio che prima non c’erano. Recentemente è stato fatto anche il passo successivo per ottenere il riconoscimento dall’UNESCO.

Inizia a esserci un certo movimento e una certa attenzione che prima mancavano e che riguardano l’Asprinio ma anche tutti i nostri prodotti locali. Vedo, per esempio, un rinascimento complessivo del vino del casertano, qui c’è un lunghissima e preziosa tradizione: abbiamo tanti rossi e tanti bianchi da splendide uve autoctone, sono poco conosciuti ma stanno trovando nuovo vigore, come il Casavecchia, che è davvero ottimo. È un bene perché si può creare, con il tempo e con il lavoro, un circolo virtuoso per tutto il territorio.

Per quanto riguarda me, sono molto ottimista perché credo molto nella qualità del mio prodotto, so che la storia dell’Asprinio ha un fascino tutto suo e sono molto determinato a contribuire alla rinascita della mia terra. Si tratta unicamente di dare tempo al tempo e lavorare con tenacia.

Redazione 7.09.2021

Nicola Biasi: l’importanza di rimettere al centro il territorio

Miglior giovane enologo d’Italia 2021 per Vinoway, premiato come Cult Oenologist per il Merano Wine Festival 2021 (il più giovane di sempre a ricevere questo riconoscimento), nel 2015 il premio Next in Wine di Simonit & Sirch – in collaborazione con Fondazione Italiana Sommelier Bibenda – e un carnet di esperienze professionali davvero ricco, sia come enologo all’interno di numerose aziende, sia come consulente: è il profilo molto (troppo) sintetico di Nicola Biasi, talentuoso enologo e vignaiolo che in questa intervista ci racconta come è nato il suo Vin de la Neu e qual è la strada, secondo lui, per raggiungere una reale sostenibilità.

Sia come enologo interno alle aziende, sia come consulente hai lavorato e lavori ancora in zone sicuramente vocate, una su tutte Montalcino. Quando però, si è trattato di fare il tuo vino, hai scelto un territorio non blasonato e, all’apparenza, anche difficile (ndr. Coredo, Trentino). Come mai?

Perché penso che le zone vocate non siano solo quelle “famose” e che non conosciamo ancora tutte le potenzialità dei nostri territori. L’esempio più evidente è proprio quello di Montalcino: è una delle denominazioni storiche italiane ma, in realtà, ha iniziato a fare vino seriamente e a concentrarsi sul Sangiovese solo una quarantina di anni fa. La zona è palesemente vocata e lo è sempre stata evidentemente, quello che è cambiato, nel tempo, è stato il nostro sguardo. Questa deve essere una lezione: bisogna continuare a studiare perché ci sono potenzialmente territori capaci di diventare i nuovi Montalcino.

Ovviamente, non sto dicendo che possiamo iniziare ad allevare vite dappertutto. Ma bisogna mettere il territorio al centro dei nostri pensieri. Cosa intendi? Non è sempre così, secondo te?

Sì e no. Per me il territorio è più importante del vitigno, che deve essere una sorta medium per far emergere il carattere del luogo. È un approccio, lo so, che fa passare in secondo piano il vitigno dal punto di vista dell’espressività organolettica ma che gli dà un’importanza di altro tipo, perché lo fa diventare lo strumento capace di far esprimere nella maniera più compiuta un territorio.

La scelta dello Johanniter per il tuo Vin de la Neu nasce da queste riflessioni, immagino.

Sì. Mi sono anche assunto il rischio di sbagliare ma ero convinto che lo Johanniter fosse il vitigno migliore per Coredo. Siamo in Alta Val di Non, dunque un terreno povero, che tende a farti produrre molto poco e questo eliminava già alcune scelte perché per certi vini il “poco” non è bene, né qualitativamente né quantitativamente. A quelle altitudini, poi, doveva essere per forza un bianco. E poi, volevo che fosse capace di durare nel tempo.

Mettendo insieme tutti questi fattori, sono arrivato allo Johanniter, perché ha i geni del Pinot Grigio e del Riesling: da un lato c’è la precocità del primo, di cui ho bisogno in una zona così fredda, dall’altro c’è il Riesling, importante per il potenziale evolutivo del vino.

Il terreno era un terreno di famiglia?

Era la casa dei miei nonni, una volta che sono ritornati in Italia dall’Australia e, per noi, è sempre stata il luogo delle vacanze. Noi vivevamo in Friuli all’epoca e i terreni sono sempre stati dati in affitto e ovviamente destinati alla coltivazione di mele. Dopo cinque anni di lavoro come enologo delle tenute Allegrini in Toscana, avevo voglia di fare un vino mio. Volevo mettermi alla prova e capire se e quanto ero bravo, facendo tutto da solo, senza la struttura di una grande azienda alle spalle. È stato abbastanza naturale guardare a un terreno di famiglia. Ho piantato nel 2012 e la prima annata è stata quella successiva.

Tornando allo Johanniter, quanto ha contato nella scelta il fatto che sia un vitigno PIWI?

Molto perché in questo modo ho praticamente azzerato i trattamenti. È la stata la chiusura del cerchio: fare un vino tutto mio, nel giardino di casa e per giunta realmente sostenibile. Sinceramente mi stimolava molto anche il fatto di provare a fare qualcosa che lì ancora non aveva fatto nessuno. Addirittura, ho scelto lo Johanniter quando ancora non aveva l’autorizzazione, che è arrivata solo nel 2014.

Possiamo già azzardare un bilancio di questo primi nove anni? Come si sta comportando il vitigno?

Innanzitutto, posso smentire molti detrattori dei vitigni resistenti, che sostengono che dopo alcuni anni i PIWI non resistono più alle malattie. Per ora le mie viti funzionano perfettamente dal punto di vista agronomico e sono resistenti. Poi non so cosa succederà da qui a trent’anni ma oggi è così.

Chiaramente, le vigne con qualche anno in più sulle spalle danno dei risultati diversi, i vini stanno migliorando costantemente, acquisendo col tempo una maggiore profondità organolettica. Ma fin da subito ho avuto una buonissima risposta, perché le vigne, aiutate dal terreno che le fa produrre poco, hanno sempre dato uve di alta qualità.

Vin de la Neu è una sola etichetta attualmente. Ti piacerebbe sperimentare con altre varietà?

Sono davvero molto soddisfatto di come si comporta lo Johanniter su quel terreno e, prima di tutto, vorrei incrementare la produzione: da 1000 a 2000 bottiglie. Nel 2017 ho piantato ancora perché il primo vigneto era davvero piccolo e nel 2025 amplierò ulteriormente, così arriverò a circa un ettaro di vigna e potrò far crescere la produzione.  Non escludo di piantare altro per capire come si comporta un’altra varietà, ma allo stesso tempo sono certo che farò solo un’etichetta. Forse più in là, Vin de la Neu potrebbe diventare un blend: un’evoluzione di questo tipo potrebbe interessarmi.

Ma è un progetto con una identità così forte e semplice che non voglio snaturarla con altre referenze. Quando la mattina della prima vendemmia – il 12 ottobre 2013 – ci siamo svegliati e tutto ero coperto di neve, ho pensato di aver trovato la mia storia. Il vino si chiama Vin de la Neu per questo motivo.

Con Vin de la Neu volevi fare un bianco capace di invecchiare, grazie anche al ricorso alla fermentazione malolattica. In Italia per i bianchi, tutto sommato, è ancora poco diffusa, perché secondo te?

C’è diffidenza verso la malolattica perché si teme sempre che appesantisca troppo i bianchi, li privi di freschezza. Ma è un pregiudizio, se è ben fatta conferisce stabilità al vino e quindi, al contrario, gli aromi si preservano meglio. Si perde forse qualcosa all’inizio ma in prospettiva si ha un vino bianco che può durare molto nel tempo. In Italia, i bianchi che invecchiano sono ancora troppo pochi e, siccome il potenziale evolutivo è fondamentale per dare valore a un vino, penso che dobbiamo iniziare a farne di più.

Anche per poterci confrontare davvero alla pari con i francesi, andando oltre la gara facile degli ettolitri prodotti o del numero complessivo di bottiglie vendute.

L’eterna rivalità Italia-Francia…

Guarda, io non credo che i francesi siano più bravi di noi a fare vino, credo siano più bravi a vinificare in un modo più adatto per fare vini di valore. Hanno la tranquillità e la forza di lavorare per fare vini che durano. Si sanno far aspettare. Su questo fronte, per me, siamo noi a dover cambiare, se lo vogliamo naturalmente.

Dato che la sostenibilità è una delle chiavi del tuo progetto, ti chiedo cosa rende un’azienda agricola sostenibile?

In fondo è molto semplice: alla fine del suo ciclo deve inquinare poco. Il paradosso, in questo momento, è che un’azienda può essere a tutti gli effetti certificata biologica ma inquinare comunque troppo.

Guardare solo quanti e quali prodotti vengono usati non dice abbastanza delle buone pratiche di un’azienda. Ti faccio un esempio semplice: posso usare solo zolfo e rame ma se poi devo fare più di 20 trattamenti e per ogni trattamento spreco 200 o 300 litri d’acqua l’impatto ambientale è enorme. Senza considerare la CO2 prodotta a ogni intervento. La sostenibilità deve riguardare un’azienda nella sua interezza: ogni passaggio produttivo, ogni singolo gesto quotidiano. E qui torniamo al tuo interesse per le varietà resistenti.

Ho assoluta certezza che le varietà resistenti oggi siano l’unica risposta concreta in viticoltura. Dico “oggi” perché non escludo che fra qualche tempo si scopriranno cose nuove ma allo stato attuale è così.

È per questo che, alla fine di luglio, è nata una rete di impresa che raggruppa le aziende che seguo come consulente e che hanno scelto questa strada. Nello statuto si parla di sostenibilità concreta, di vitigni resistenti, ma non solo, perché noi il focus deve essere, appunto, sulla sostenibilità e non sui mezzi che si usano per raggiungere questo obiettivo. Ogni iniziativa che tende a questo scopo per noi è ben accetta.

A questo punto mi sembra inevitabile chiederti cosa pensi della definizione di “vini naturali”.

A me non piace il termine perché divide in una maniera un po’ manichea i buoni dai cattivi: se sei naturale, sei dalla parte giusta, sennò sei un bandito. E invece le cose sono un po’ più complesse di così.

Inoltre, sono dell’idea che meno si vuole intervenire più si deve conoscere. E, invece, molto spesso – ovviamente non sempre – chi sta sotto il cappello del naturale queste conoscenze non le ha e ricorre all’idea un po’ romantica del vino una volta, del vino del contadino.

Si pensa che il vino sia soggettivo, ma non è così. O meglio, c’è il gusto personale ma prima di questo, per fare un buon prodotto – e questo vale per il vino e per ogni altra cosa – ci sono dei parametri oggettivi che arrivano dalla competenza e dal saper fare. Se un vino ha una volatile che supera le soglie di legge o comunque che devia gli aromi del vino, naturale e meno che sia, non può essere definito buono.

Diciamo che, come nel biologico, forse il naturale è un grande cappello sotto il quale si trova un po’ di tutto.

Ci deve essere un’etica in tutte le scelte che un’azienda compie, ma queste scelte devono essere indirizzate a ottenere un buon vino. Se scelgo il biologico o il biodinamico, lo devo fare non perché è una bandiera ideologica ma perché è il modo di operare che mi consente di fare il miglior vino possibile, nel contesto territoriale e ambientale in cui mi muovo.  È una prospettiva questa sulla quale mi confronto tantissimo anche con le aziende che seguo e che usano i vitigni resistenti.

Per me non ha senso mettere davanti a tutto la scelta dei PIWI, bisogna, invece, partire dalla qualità del vino, che è l’unica cosa, insieme a un approccio etico, che dà senso al nostro lavoro. Immagino che sia per questo che quando parli di Vin de la Neu parli molto poco di PIWI.

Sì, perché io credo molto nel potenziale dei PIWI ma credo anche che l’unico modo per arrivare a una loro diffusione sia quella di fare vini davvero buoni. Dobbiamo convincere i consumatori partendo dalla qualità del vino, è solo così che si può innescare un cambiamento, sennò rimarranno una bella nicchia, animata da valori sostenibili ma troppo piccola per fare la differenza.

All’inizio ho parlato del tuo curriculum molto ricco. Ci vuoi raccontare qualcosa di te?

Sono friulano e mio padre era enologo, dunque sono cresciuto in vigna e in cantina. Dopo la scuola di enologia, ho deciso di iniziare subito a lavorare perché avevo fretta di iniziare a fare. Dopo due vendemmie con Jermann, ho iniziato a lavorare con Patrizia Felluga, per Zuani, dove si facevano solo bianchi ed ero l’unico dipendente. E lì ho potuto mettere mano in tutte la parti del processo, ne avevo bisogno per capire, rendermi davvero conto.

Dopo cinque anni da Zuani, sono andato in Australia, poi una volta tornato ho lavorato per qualche mese al Castello di Fonterutoli e poi sono andato in Sud Africa. Qui mi ha chiamato Marilisa Allegrini per propormi di seguire Poggio San Polo. Non potevo rifiutare e, successivamente, ho iniziato a occuparmi anche di Poggio al Tesoro.

A Marilisa devo moltissimo ma dopo qualche anno avevo, di nuovo, bisogno di cambiare: prima ho piantato la vigna a Coredo e poi nel 2016 ho deciso di fare il consulente, mi piaceva l’idea di lavorare contemporaneamente su territori diversi. Nel 2021, in piena pandemia, ho creato la Nicola Biasi Consulting una società di consulenze per le aziende che fanno vino. L’obbiettivo è di poterle seguire a 360 gradi, collaborando con professionisti dalla formazione specifica.

Un’ultima domanda: fai anche parte del progetto Wine Research Team. Di cosa vi occupate?

È una rete d’impresa voluta da Riccardo Cotarella nel 2012 e composta da quaranta aziende che fanno ricerca e sperimentazione in viticoltura ed enologia. È una sorta di snodo fra l’università e le aziende. Diciamo che cerchiamo di trovare applicazioni pratiche, sperimentando sul territorio, tecnicamente, quanto studiato dalle università o dagli enti di ricerca scientifica.  E le soluzioni che troviamo sono messe a disposizione delle aziende associate. È un lavoro per me molto bello, molto stimolante e che ci sta dando grandissime soddisfazioni.

Quattro brindisi (in rosa) per la nostra estate

È uno dei trend di mercato degli ultimi anni: finalmente – diciamo noi – le bollicine rosate iniziano ad avere il successo che meritano; certo, siamo ancora lontanissimi dai grandi numeri dei bianchi – che forse rimarranno irraggiungibili – ma gradualmente i rosé stanno uscendo dalla nicchia, attirando un numero sempre maggiore di estimatori. Una delle ragioni di questo nuovo interesse risiede probabilmente nella versatilità: il panorama delle bolle rosate, infatti, è così variegato per carattere ed espressività (e anche fasce di prezzo) che è possibile trovare un rosé giusto per ogni circostanza. E così abbandonando una volta per tutte l’obsoleto cliché del “vino da donne” e abbracciando le tante sfaccettature di questa tipologia di vini, si scopre che uno spumante rosé può essere un ottimo vino a tutto pasto – di pesce ma anche di carne, con i giusti abbinamenti – e che d’estate quel mix seducente di struttura e morbidezza, in proporzioni variabili a seconda dei casi, può essere un rinfrescante antidoto al caldo afoso.

Calendario alla mano, quale momento più propizio di questo, dunque, per proporvi quattro eccellenti bollicine per accompagnare le vostre vacanze? Uberti – Francesco I Franciacorta Rosé Brut. La bollicina rosata di Uberti fa parte della linea dedicata a Francesco I, un omaggio al re francese che – secondo la tradizione – nel Cinquecento decise di sostenere la produzione di vini spumanti, fino a quel momento poco diffusi perché considerati “difettosi”.

È una cuvée di Chardonnay (60%) e Pinot Noir (40%) che, con il suo piacevole color rosa confetto dai riflessi aranciati, declina in rosa la filosofia territoriale della famiglia Uberti. Le uve sono raccolte manualmente, sottoposte a una rigorosa selezione, per poi attraversare percorsi di vinificazione differenti – il Pinot Noir, infatti, sosta per qualche giorno a contatto con le bucce – ed essere infine assemblati. Dopo il tiraggio, Francesco I Rosé trascorre un minimo di trenta mesi sui lieviti prima della sboccatura e altri sei mesi in bottiglia prima del rilascio al pubblico. Il risultato è una bollicina fruttata e di grande morbidezza, non priva di freschezza e mineralità e, per questo, di un’eleganza pulita e bilanciata, come sempre accade con i vini di Uberti.

Ci piace perché: è una bollicina versatile, capace di intercettare il gusto contemporaneo senza rinunciare al proprio carattere elegante e identitario. Un rosé dalla beva facile ma non banale, perfetto per uno spensierato aperitivo estivo o per accompagnare un’intera cena vista mare. Ferrari – Giulio Ferrari Riserva del Fondatore Rosé 2008. Presentata alla fine del 2020, l’annata 2008 del Giulio Ferrari Rosé è solo la terza rilasciata sul mercato di questa riserva anagraficamente giovane ma già considerata un’icona delle bollicine italiane rosate. Il rosé alla maniera di Ferrari esalta il Pinot Noir di montagna, che costituisce il 70% del blend e che, grazie all’affinamento di dieci anni sui lieviti, si fonde armoniosamente con lo Chardonnay, in una sintesi elegante e finissima delle migliori uve destinate alle riserve dell’azienda.

Color salmone con riflessi ramati e un perlage fine e persistente, l’annata 2008 trasmette una vibrante intensità da subito, grazie al suo bouquet olfattivo complesso, nel quale le note agrumate si fondono con quelle fruttate di fragola e tamarindo, accenni speziati e note minerali di iodio e calcare. L’assaggio è strutturato e potente e allo stesso tempo lungo ed equilibrato, guidato dal filo rosso della freschezza, che costituisce l’inconfondibile cifra stilistica di casa Ferrari.

Ci piace perché: per tutti coloro che amano la freschezza e la mineralità delle bollicine di montagna, ma anche la struttura del rosé, Giulio Ferrari Rosé è quasi la bottiglia perfetta, la quadratura del cerchio che armonizza con eleganza questi due mondi. Un Trentodoc di grande carattere, che sicuramente può essere il brillante compagno di un’intera cena a base di pesce; il nostro consiglio, però, è di osare e lasciarvi sorprendere da abbinamenti più insoliti. Non vi deluderà. Dom Pérignon – Rosé Vintage 2006. Un mito nel mito, se è possibile. Un grande vino che nasce da uve provenienti da alcuni dei più prestigiosi Grand Cru e Premier Cru della Champagne e che viene prodotto, naturalmente, solo nelle annate migliori. Protagonista assoluto, il Pinot Noir che, supportato dall’immancabile Chardonnay e parzialmente vinificato in rosso, dona a questa riserva la struttura tannica che la rende unica.

Più di dieci anni di affinamento sui lieviti nobilitano questo champagne, che la stessa maison ha definito “paradossale” per l’equilibrio che riesce a raggiungere tra poli opposti: maturità e giovinezza, essenzialità ed espressività.

Vincent Chaperon – Chef de Cave di Dom Pérignon dal 2019, dopo tanti anni passati al fianco del grande Richard Geoffroy – dice a proposito del Rosé e dell’annata 2006 in particolare: «Trasgredisce le regole e ci mostra sicuramente una doppia anima: quella tenace, che viene fuori grazie alla forza sorprendente del vino rosso fermo e quella leggiadra e armonica che ci riporta nel cuore della produzione della Champagne. Trovare questo equilibrio è sempre una sfida. Fare il Rosé ci proietta sempre in una situazione di pericolo. Che solo con l’assaggio, dopo un lungo affinamento in bottiglia, viene scongiurato».

Ci piace perché: come potrebbe non piacerci? Siamo al cospetto di un vero capolavoro, che offre un’esperienza sensoriale intensissima. Con crostacei e crudi di mare è pura sensualità ma il consiglio migliore arriva da Chaperon che suggerisce di assaggiare il Rosé Vintage 2006 con spirito sperimentale e assolutamente libero.

Da non dimenticare che questo champagne ha anche un grande potenziale di invecchiamento, per chi vorrà e saprà aspettare. Perrier-Jouët – Belle Epoque Rosé 2007. È un paradigma quando si parla di bollicine rosé per via dell’armonia e dell’espressività che sono la sua cifra distintiva e non a caso lo Chef de Cave di Perrier-Jouët, Hervé Deschamps, lo definisce «un vino delicato e al tempo stesso ricco e voluttuoso; intenso, generoso e vigoroso ma anche di grande finezza». Il Belle Epoque Rosé è un assemblaggio di uve Chardonnay, Pinot Noir e Pinot Meunier provenienti dai più blasonati cru della Champagne, affina sei anni sui lieviti e viene prodotto, come si confà a uno champagne così prestigioso, solo nelle annate eccezionali.

Dall’elegantissimo colore rosa antico e da un perlage finissimo e cremoso, è un rosé dalla personalità stravagante, nella quale gli aromi floreali e fruttati si intrecciano a note agrumate, di spezie e frutta secca. Al palato è fresco e vivace ma anche intenso e cremoso. Perfetta espressione dello stile raffinato che da sempre caratterizza la Maison.

Ci piace perché: anche in questo caso sarebbe impossibile il contrario. Il Belle Epoque Rosé è uno champagne prezioso che trasmette lo spirito gioioso e vitale di quella Belle Epoque a cui deve il nome e che, anche per questo, regala un’esperienza gustativa sensuale ed espressiva. È una di quelle bottiglie che non dovrebbe mai mancare in una cantina ideale.

E – sorprendentemente se si pensa alla sua complessità – è uno champagne molto versatile e in virtù di questo può essere protagonista di diversi abbinamenti, dai più classici ai più inaspettati, che non faranno altro che esaltare quel carattere stravagante di cui parlavamo.

Redazione 10.08.2021

Speciale bollicine Ferrari

Il perlage del Trento Doc firmato dalla famiglia Lunelli incontra ricette a base di pesce perfette per l’estate (e per tutto l’anno).

Una cena in terrazza, un aperitivo in spiaggia o a bordo piscina, un pranzo con il mare sullo sfondo. E ancora, una buona compagnia e un menu a base di pesce, crostacei e molluschi: ecco il necessario per mettere su una situazione ideale in questi mesi estivi, tanto in città quanto in vacanza. A completare il tutto non mancano che delle “bolle” ben fresche, che accompagnino le portate e la conversazione.

Diversificata ma accomunata dalla grande attenzione alla qualità (e all’ambiente) e da una cifra stilistica incentrata sull’eleganza, la produzione trentina di Cantine Ferrari – l’azienda ultracentenaria creata da Giulio Ferrari e acquisita nel 1952 da Bruno Lunelli, oggi guidata dai nipoti Marcello, Matteo, Camilla e Alessandro – offre una gamma di etichette che permette di stappare e brindare a tutto pasto, realizzate con le uve Chardonnay e Pinot Noir dei vigneti trentini, secondo il disciplinare del Trento DOC che segue il metodo classico. Il Riserva Lunelli – Blanc de Blanc Extra Brut rotondo e dal bouquet complesso, tra gli ultimi nati in casa Ferrari – è un ottimo avvio per sciogliere il ghiaccio e accompagnare qualche assaggio iniziale, magari in versione finger food: dal classico e sempre buonissimo pane con burro e acciughe agli originali “crostini” di croccante pane carasau conditi con un’insalata di muggine, sedano e patate (o anche con la sapida bottarga, sempre smussata dalle patate).

Il sapore iodato ma con tendenza dolce delle cozze – cucinate al vapore e insaporite appena da olio extravergine, poco vino bianco e prezzemolo, con al massimo qualche goccia di limone – viene esaltato dal profilo avvolgente ma molto equilibrato e armonico della Gran Cuvée millesimata, nonché dal suo perlage fine e persistente, con sentori floreali e fruttati bilanciati da spezie e frutta secca. Disponibile solo in grandi formati, è una bottiglia da aprire con una compagnia (giustamente) numerosa e ideale anche per accompagnare primi piatti con delicati sughi a base di crostacei.

Caratterizzato da un naso vibrante di note agrumate e speziate e da un sorso che è insieme morbido, fresco e minerale, il Giulio Ferrari Riserva del Fondatore Rosé , realizzata con il 70% di Pinot Noir ad affiancare lo Chardonnay, è ideale per accompagnare tanto una croccante frittura di pesce quanto un sontuoso “cuoccio” (pesce cappone o gallinella di mare) cucinato all’acqua pazza secondo l’antica tradizione dei pescatori campani. Cotto in un tegame da forno con olio, aglio tritato e pomodori, ricoperto d’acqua e con abbondante aggiunta di prezzemolo a fine cottura, è un piatto saporito ma delicato la cui sapidità marina viene esaltata alla perfezione dall’eleganza delle bollicine.

– Luciana Squadrilli 15.07.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

Venissa e il senso profondo della sostenibilità

Matteo Bisol, insieme al padre Gianluca, gestisce l’universo Venissa in tutte le sue espressioni. Parlare con lui significa indagare una parola oggi spesso abusata, a volte sfruttata, sempre di tendenza, ma quasi mai esplorata nella sua accezione più profonda. Sostenibilità. Con Matteo scopriamo che in fondo il concetto è lineare e risponde a una semplice domanda: la terra che abitiamo ha le risorse per sostenere il nostro progetto? Stiamo arricchendo il territorio, o gravando su di esso?

Ciao Matteo, per parlare del mondo Venissa e dei suoi equilibri, potremmo partire dalla vendemmia che ha seguito la grande acqua alta di due anni fa. Un episodio specifico che, però, presenta una serie di elementi peculiari del mondo lagunare tout court.

Tu sei stato da Venissa proprio nel novembre del 2019, il mese della grande acqua alta. Quello è stato un evento che ci ha fatto preoccupare molto, perché l’acqua ha raggiunto livelli record, simili a quelli che cinquant’anni fa avevano dato un durissimo colpo alla viticoltura in laguna. Poi fino ad aprile, quando è ripartita la vigna, non abbiamo avuto modo di capire come stessero le cose, perché durante la fase invernale non puoi sapere se le viti siano sopravvissute o meno. Quindi sono stati mesi di grande apprensione, e in primavera è stato poi un sollievo veder ripartire le piante. Una dimostrazione di come la vite in generale, e la Dorona nello specifico, sappia adeguarsi a ogni tipo di condizione. È la magia di questo vitigno, che si è saputo adattare al clima, al terreno, a tanti fenomeni tipicamente lagunari. Credo che questo rappresenti anche il senso più profondo di Venezia e del suo mondo. Un continuo adattarsi dell’uomo alla natura, che porta a qualcosa di meraviglioso.

Come è stata la vendemmia del 2020, che ha seguito l’acqua alta di cui hai raccontato?

Per noi è stata letteralmente la miglior vendemmia di sempre. Il tema da sciogliere è quello degli effetti del sale nella coltivazione dell’uva. Se andiamo a vedere le analisi, non ritroviamo un livello di sodio differente da quello di vini prodotti in altri luoghi. Questo perché la vite non ha un buon rapporto con il sale, e quindi tende a non assumerlo, lo lascia nel terreno. Quindi non esiste una trasposizione diretta del sodio nel vino. Quello che invece esiste è una trasposizione indiretta dello stesso, nel senso che la quantità di sale presente nel terreno diminuisce la vigoria e la quantità di uva prodotta. L’effetto è simile a quello di tanti terreni calcarei, o gessosi. Terreni difficili, non fertili, non generosi, che in qualche modo mettono in difficoltà la pianta. Questa condizione di difficoltà permette di fare una produzione limitata, e di arrivare a vini con più carattere, e più complessità. Nel 2020, dopo l’acqua alta, è successo proprio questo. E chissà quante altre cose scopriremo. Noi abbiamo iniziato meno di vent’anni fa, un tempo brevissimo nel mondo del vino. Il vigneto ha quindici anni, e solo negli ultimi tempi ha iniziato a esprimersi nella sua fase adulta. È ancora un vigneto giovane. Noi stessi stiamo cercando di capire come esprimere tutto il suo potenziale, e lo possiamo fare solo di anno in anno, aspettando i tempi della natura.

Parlando di Dorona, come è nata la vostra storia con questo vitigno?

Nel 2002 mio padre ha trovato le prime piante. Con un barchino, e una bicicletta a bordo, giravamo tra le isole meno conosciute, in cerca degli ultimi contadini attivi nella coltivazione di varietà quasi scomparse. Abbiamo trovato un’ottantina di piante e abbiamo piantato il vigneto di Venissa, sull’isola di Mazzorbo. Abbiamo scelto un’area che è sempre stata dedicata all’agricoltura, e alla viticoltura in particolare. Stiamo parlando di terreni difficili, e siamo rimasti sorpresi dalla capacità della Dorona di portare a vini di grande armonia e finezza.

Equilibrio e finezza. È questa, dunque, la cifra stilistica dei vini di Venissa?

Sì, direi di sì, sono proprio queste le caratteristiche principe dei nostri vini. Lo stesso equilibrio che la varietà vive in relazione con il suo ambiente, lo ritroviamo nel bicchiere. Io credo in generale che i grandi vini non siano semplicemente frutto di un terroir, ma dell’equilibrio tra il terroir, il vitigno e l’uomo che ha imparato a far dialogare queste componenti.

E cosa ci dici di Venissa 2016 nello specifico?

Guarda, forse direi che è l’annata migliore del decennio. Sicuramente superiore alla 2015, in termini di freschezza innanzitutto. È anche più elegante. Siamo davvero molto soddisfatti. E siamo rimasti colpiti da come il vigneto, anno dopo anno, abbia saputo adattarsi al contesto ambientale. Più gli anni passano, più le viti entrano in simbiosi con la natura che le circonda, e meno hanno bisogno del nostro intervento. Pensa che in certi punti della vigna si trovano un sacco di piante tipicamente lagunari, come la salicornia. In altre zone leggermente più alte, stiamo parlando di qualche decina di centimetri, ne vedi spuntare di altri tipi. Come i papaveri, ad esempio. E poi tanti insetti e altri animali come anatre, aironi, colibrì. E tutto naturalmente dialoga con il resto del contesto. Questo nasce da una scelta ragionata. A Venissa abbiamo deciso di contenere la superficie dedicata alla vigna per lasciare spazio ad alberi, prati, orti. Per noi era un punto imprescindibile.

Parliamo invece del mondo dei rossi. Rosso Venissa ha una storia differente, e anche dal punto di vista geografico nasce su un’altra isola, corretto?

Sì, è vero, stiamo parlando dell’isola di Santa Cristina. Un’isola unica, che si trova in una zona della laguna difficilissima da raggiungere. In questo caso davvero si può parlare di viticoltura eroica, perché abbiamo grossissime difficoltà nel lavorare quella vigna. Intanto perché non tutte le barche possono raggiungere l’isola. Non ci sono canali, quindi chi conduce la barca deve sapere esattamente dove andare, per non rimanere “in secca”. In più, l’isola si può raggiungere solo in condizioni di alta marea, quindi tutte le lavorazioni sono scandite dalle maree, di fatto.

Cosa c’è sull’isola? È abitata?

Di base non ci abita nessuno. L’idea di René, proprietario dell’isola e discendente della famiglia Swarovski, era quella di creare una sorta di ashram per esperienze di meditazione. Ci sono orti, animali, e una grossa parte di peschiera, con tantissimi pesci come orate e branzini. È davvero un ecosistema a sé. Sono trenta ettari, se non sbaglio, di cui quindici sono acqua. Mentre il vigneto è di tre ettari. Abbiamo principalmente Merlot, che in Veneto è un vitigno molto diffuso da diversi secoli, e poi c’è un 20% di Cabernet Sauvignon. Lì, fortunatamente, non abbiamo il problema dell’acqua alta, perché l’isola è leggermente rialzata e circondata da argini in pietra.

Tra l’altro l’isola di Santa Cristina ha una storia antichissima

Sì, è l’unica isola rimasta di quello che era l’arcipelago di Ammiana, scomparso da secoli. Rappresentava, insieme a Torcello, uno dei primi insediamenti della Venezia romana, dove di fatto è nata Venezia. Sono luoghi di grande storia.

Quali risultati state ottenendo con Rosso Venissa? Quali sono le sue caratteristiche salienti?

Siamo contenti dei risultati che stiamo avendo. Ad oggi la salinità e la mineralità tipiche della Laguna ci salvano dal clima caldo. Io non credo che in generale l’Italia sia la terra adatta per produrre grandi Merlot. Masseto, ad esempio, fa eccezione proprio perché nasce da terreni con una salinità molto elevata. Anche loro, come noi, spesso hanno piante che soffrono e muoiono a causa della tossicità del sale. L’agronomo con cui lavoriamo segue anche loro, e ci ha più volte confermato che esistono tante similarità tra i due vigneti, pur trovandosi in zone completamente diverse. Perché il clima della Laguna di Venezia è più simile a quello della Toscana, piuttosto che al clima Veneto. È un clima che, per temperature medie e precipitazioni, ci porta più a sud.

Come evolverà Rosso Venissa, e con quali tempi?

Guarda, è proprio questo il punto del nostro lavoro, il tempo. Si tratta di processi lunghi, servono anni per capire il potenziale espressivo dei due vitigni. Arrivare al vino che abbiamo in testa richiede pazienza. Se vuoi da qui deriva un po’ anche il bello del nostro lavoro: il vino che hai in testa oggi, è un’evoluzione di quello che stai mettendo sul mercato. Con il Rosso stiamo proponendo la 2012, che è splendida, e nel frattempo ci sono state evoluzioni, noi stessi siamo cambiati. Io credo che si possa lavorare ancora per trovare la massima espressione del Merlot, e questo mi dà grande speranza. Perché oggi siamo già arrivati a un punto molto interessante, e l’idea che ci sia ancora tanta strada da fare fa ben sperare per il futuro.

di Graziano Nani 15.06.2021

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Non si è mai troppo dolci

Chi lo ha detto che passiti e muffati possano accompagnare solo i dessert? Ecco qualche idea diversa per abbinamenti salati.

Il bianco con il pesce, il rosso con la carne e il vino dolce a fine pasto: queste erano, fino a pochi anni fa, le regole canoniche degli abbinamenti tra cibo e vino, sempre più spesso superate dalle indicazioni dei sommelier meno ingessati e dalle evidenti dimostrazioni di gusto. Quella di relegare i vini dolci e liquorosi al momento del dessert, però, resta la più difficile da scardinare, con l’eccezione del mondo dei formaggi che – in particolare per quanto riguarda erborinati e formaggi cremosi a pasta fiorita – trovano da sempre eccellenti compagni in questi calici.

Anche se è innegabile che in linea generale l’abbinamento dolce/dolce funzioni, guardando magari alle cucine lontane dalle nostre – dove l’agrodolce è un concetto piuttosto diffuso – si può trovare qualche idea diversa per bere ottime bottiglie di questa tipologia anche con cibi salati. Di certo non a tutto pasto ma piuttosto con un’entrata a sorpresa nel menu, e avendo cura di servirli alla temperatura giusta: con il freddo, infatti, le percezioni cambiano notevolmente e questo aiuta ad ammorbidire la sensazione di dolcezza e di alcolicità di questi vini. Così ad esempio, servendolo intorno ai 12°C, anche l’esplosiva dolcezza (comunque mai stucchevole) dell’Epokale Gewurztraminer Spätlese di Cantina Tramin – forgiata nei suoi profumi speziati e di frutta esotica da sette anni di riposo in una grotta situata a 2000 metri d’altezza e 450 sotto la montagna – potrà accompagnare in modo sicuramente non banale un’anguilla laccata alla giapponese, con il grasso della carne e l’equilibrata dolcezza della laccatura bilanciata dall’inattesa freschezza ed eleganza del vino.

Restando su abbinamenti più territoriali, un Recioto della Valpolicella Classico (in questo caso non eccessivamente freddo, sui 14°C) come quello “A Roberto” di Quintarelli, con le sue note vellutate e avvolgenti di frutti rossi sotto spirito, potrebbe ben accompagnare un tradizionale cinghiale al cacao o in salmì – a esaltare i profumi di cannella e altre spezie – ma pure una guancia di maialino cotta a bassa temperatura in salsa di cioccolato fondente. Guardiamo invece al confine tra Francia e Germania, e in particolare all’Alsazia, per proporre un abbinamento decisamente fuori dai canoni con un vino unico che nasce in un’altra terra di frontiera: l’8’9’10 di Gravner – Ribolla gialla da uve botritizzate, fermentata in anfora e affinata almeno 48 mesi in piccole botti di rovere – tra i 10° e i 12°C può accompagnare non solo formaggi stagionati e particolarmente intensi come l’eccellente Jamar friulano ma anche una Baeckeoffe, tipica casseruola al forno della regione francese in cui la carne viene marinata nel vino e poi cotta nel forno con cipolle e patate in una pentola sigillata con l’impasto del pane.

Azzardando ancora di più, potrebbe essere una bella sfida – ideale anche per la stagione estiva, sempre tenendo d’occhio la temperatura di servizio che in questo caso dovrebbe essere di circa 14°C– quella di proporre il Vin Santo Occhio di Pernice di Avignonesi, con il suo complesso profilo aromatico che ricorda datteri, fichi secchi, amarene e agrumi canditi, con una soffice pizza condita con prosciutto (o ancora meglio, culatello) e fichi, invece dei soliti cantucci. Mentre in inverno, anche con qualche grado in più, una scaloppa di foie gras di certo non lascerà deluso nessuno. Fegato grasso in terrina e formaggi erborinati – come un Roquefort o un Bleu d’Auvergne, per restare in Francia, ma anche un Blue Stilton inglese o un italianissimo Gorgonzola – sono abbinamenti ben collaudati anche per l’immenso Château d’Yquem, con le sue sfumature affascinanti di frutta essiccata e candita, miele e spezie. Noi però vogliamo divertirci a proporvi un abbinamento decisamente più insolito, mediterraneo ed estivo affiancando a un calice ben freddo (intorno ai 7°C) un delizioso cocktail di scampi o di gamberi con un salsa rosa realizzata a dovere.

– Luciana Squadrilli 04.06.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

I vini iper-territoriali di Fabio Tassi

Fare la conoscenza di Fabio Tassi significa prima di tutto incontrare un uomo profondamente innamorato di Montalcino e della sua famiglia. Un sentimento che traspare da ognuna delle sue attività – tanto quelle ricettive quanto la cantina – e che dimostra come si possa trovare un perfetto equilibrio fra il rispetto del passato e della tradizione e uno spirito imprenditoriale solidamente contemporaneo.

Lei è un imprenditore molto attivo a Montalcino da diversi anni, quasi una sorta di ambasciatore ormai dell’enorme bellezza di questi luoghi. Ci racconta il suo percorso?

Parto dalla vicenda di mio nonno materno, perché tutto è iniziato grazie al suo carattere intraprendente. Lui è nato e cresciuto al Greppo – i suoi genitori erano mezzadri lì – ma appena ha potuto, è andato alla ricerca della sua strada. Quando ha scoperto l’apicoltura se ne è innamorato, imparando il mestiere completamente da autodidatta e portando la pratica a Montalcino, che poi nel tempo è diventata uno dei luoghi di riferimento in Italia per la produzione di miele. Ha trasmesso poi questa passione al resto della famiglia: a mia mamma, a mio zio e in seguito anche a mio padre. L’apicoltura e il miele sono stati la loro attività principale per tanti anni, anche se poi c’erano le altre attività collaterali legate al territorio. Io vengo da questa storia: da ragazzo mi sono iscritto a Giurisprudenza ma in pratica non ho nemmeno iniziato il corso perché già sapevo di voler lavorare in azienda.

E poi è arrivata la Drogheria Franci.

Esatto. Verso la fine degli anni Ottanta c’è stato il boom dell’enoturismo, ero giovane, avevo voglia di fare e ho iniziato a vendere vino, miele naturalmente ed eccellenze del territorio. Abbiamo aperto la Drogheria nel 1993, dandole il nome della famiglia di mia madre. All’inizio eravamo solo io e mia nonna in uno spazio abbastanza piccolo, al piano terra della nostra casa. Poi, con gli anni, la drogheria è cresciuta, diventando, infine, ristorante e locanda. Oggi ci sono tre bellissime camere, arredate con molta cura. È una trasformazione di cui sono molto contento perché lo trovo un bel modo di tenere vivo il ricordo dei nonni.

A questa attività, nel 2001 si è aggiunta la gestione dell’Enoteca della Fortezza. Non c’è nemmeno bisogno di raccontare la bellezza di questo posto, per me è stata ed è una grandissima gioia lavorare lì.

La produzione di vino a che punto è arrivata? Era un obiettivo che aveva in mente da sempre?

È stata più che altro un’evoluzione naturale, quando nel 2000 abbiamo avuto la possibilità di avere, in quanto coltivatori e apicoltori, un ettaro di Brunello e mezzo di Rosso. A quel punto, siccome gli altri nostri terreni avevano esposizioni molto a nord e molto in alto, abbiamo iniziato a cercare qualcos’altro di più adatto al Brunello. E con l’aiuto del mio grande amico Beppe Bianchini di Ciacci Piccolomini abbiamo individuato tre bellissimi ettari sotto il Castello della Velona e così abbiamo iniziato. Il 2004 è stato l’anno della prima vendemmia. In questo vigneto – che definirei “moderno”, con cloni di nuova generazione e molto fitto – adesso produciamo il cru Giuseppe Tassi (un omaggio a mio padre) e il nostro Brunello base.

Sempre nel 2004 abbiamo iniziato a imbottigliare il vino proveniente da una vecchia vigna di mio nonno, la Vigna Franci.

Siete abbastanza giovani come cantina, dunque, ma possiamo tentare un bilancio di questi vent’anni. Come siete cresciuti?

Di certo sono molto cambiato io per primo, perché ho più esperienza – quando ho iniziato ero un appassionato e un conoscitore ma non avevo sufficiente competenza per potermi occupare della produzione, perciò l’enologo aveva molto più spazio – e poi perché col tempo sono cambiati i gusti e le idee. È naturale che sia così.

L’importantissima storia del Brunello va salvaguardata, anche attraverso il rispetto del disciplinare, ma è evidente che i tempi sono cambiati: se vent’anni fa si cercavano vini molto potenti, molto strutturati, molto concentrati, ora si cerca maggiormente l’eleganza e la finezza. Progressivamente anche la mia testa si è spostata in questa direzione: più passa il tempo più cerco vini che siano “naturali”, con pochissime trasformazioni, dove la mano dell’uomo si sente il meno possibile e quello che emerge sono la vigna, l’annata e il suo andamento. Oggi per arrivare ad avere dei vini così – sempre più di territorio – sono disposto a correre più rischi che in passato.

Se questi vini raccontano il territorio, qual è la lingua comune che parlano?

In realtà, cerco sempre di differenziare molto i vini, proprio per far venire fuori il carattere del luogo. Noi ci siamo ma non dobbiamo essere invadenti, dobbiamo accompagnare il vino. È proprio per valorizzare al massimo le singole vigne che i nostri Brunelli sono quattro e sono lavorati separatamente fino all’imbottigliamento. E in prospettiva, vorrei marcare ancora di più queste differenze. Per assurdo, il tratto comune dei miei quattro Brunelli è che sono tutti diversi fra loro e sempre anche un po’ da se stessi, perché il loro carattere finale dipende molto dall’andamento dell’annata.

Vorrei applicare questa idea anche al Rosso di Montalcino: sto pensando di farne almeno due e non più uno solo. Credo che sia importante valorizzare l’identità di territorio anche di un vino come il Rosso, più fragrante, con un frutto più presente e che, per questo, intercetta un pubblico diverso rispetto al Brunello. Mi piacerebbe che il Rosso di Montalcino fosse considerato non un secondo vino ma l’altra faccia del Sangiovese di Montalcino.

Per quanto riguarda il Brunello, l’ultimo nato è il Colombaio, giusto?

Sì, abbiamo acquisito la vigna nel 2016. Vigna Colombaio si trova vicinissima all’Abbazia di Sant’Antimo, in mezzo al bosco, è un posto di una bellezza straordinaria; vorrei che chi beve questo Brunello venisse almeno una volta a visitarlo perché è davvero un’esperienza che fa entrare nel vino in profondità. È un luogo che non smette di meravigliarmi, ma devo dire che alla bellezza di Montalcino, di ogni suo angolo, è impossibile abituarsi. Io stesso, che ho sempre abitato qui, continuo a stupirmi ogni giorno.

Qualsiasi aggettivo, in effetti, è scontato quando si parla del vostro territorio. La cosa che mi colpisce sempre è la luce, che è bellissima sempre in tutte le stagioni, a tutte le ore.

È una delle caratteristiche speciali del luogo, credo che sia una delle cose che qui fa la differenza, proprio in termini qualitativi per il vino, come anche la presenza costante del vento, che aiuta a ridurre tantissimo i trattamenti perché ostacola l’umidità. Questo è un territorio straordinariamente vocato, lo è da sempre, ce lo dice anche la storia. Dobbiamo solo essere bravi ad assecondarlo e onesti nel tutelarlo.

Abbiamo l’obbligo morale di salvaguardare quello che le generazioni precedenti ci hanno lasciato così integro e intatto. È un patrimonio di tutti di cui dobbiamo avere cura.

La scelta del biologico mi sembra inevitabile in questa visione.

Infatti. Noi siamo sempre stati biologici, perché in vigna abbiamo sempre utilizzato solo zolfo e rame. Quando ho iniziato, eravamo in pochi tutto sommato a lavorare in biologico, ma mi è sembrata la scelta più naturale che potessi fare, quindi non ho mai nemmeno sentito il bisogno di schierarmi. Poi nel 2013 abbiamo preso la decisione di ufficializzare, ma nella pratica non è cambiato nulla.

Credo che non abbracciare il biologico a Montalcino sia un controsenso, come prendere le medicine, pur essendo sani.

Una curiosità dato che stiamo parlando di biologico e territorio: continuate anche oggi a lavorare con le api?

Sì ma ho ridotto esponenzialmente, prima l’azienda era piuttosto grossa, avevamo tantissime api e praticavamo il nomadismo. Adesso le teniamo solo dove ci sono le vigne e abbiamo una piccola produzione di miele millefiori. Ci tengo a portarla avanti anche se su scala ridotta, da un lato per una questione di equilibrio dell’habitat, e dall’altro per una questione affettiva: l’amore di mio nonno per le api era grandissimo e davvero contagioso.

Lei per vocazione è un curioso, ha intenzione di sperimentare, uscendo dall’imprescindibile binomio Brunello – Rosso di Montalcino?

In realtà lo sto già facendo, nel 2018, dopo un viaggio in Borgogna, ho deciso di sperimentare con l’anfora. Ho iniziato con una da 800 litri, usando lo stesso Sangiovese del cru Giuseppe Tassi, con 15% di grappolo intero e lunghissima macerazione. Dopo tre mesi lo abbiamo svinato e rimesso in anfora fino a settembre 2019. È stato commercializzato a gennaio 2020 con il nome di Brunò: un Brunello no, insomma.

All’inizio in tanti qui mi prendevano in giro ma una volta assaggiato hanno cambiato idea. Sono molto contento perché è piaciuto molto e perché per me è stato un esperimento molto interessante. E alla fine, ho deciso di prendere altre due anfore per continuare.

Poi ho tante altre idee in testa: ho piantato vicino a casa, su un terreno acquistato quattro anni fa, una vigna ad alberello e qui vedremo che cosa succederà. Poi c’è un terreno in alto a cui sono molto affezionato perché era uno dei posti preferiti di mio nonno e lì sto pensando di piantare un Trebbiano, perché in futuro vorrei cimentarmi con un bianco.

Il ricordo dei suoi nonni è ritornato molte volte nel corso di questa chiacchierata.

Sono legatissimo alla mia famiglia. Più passano gli anni e più capisco l’importanza di quello che hanno fatto i miei nonni, è il loro lavoro che mi ha dato l’opportunità di essere qui ora.

Il mondo va avanti e cambia ed è giusto così e a me piace guadare sempre avanti ma mi piace anche mantenere una connessione forte con la nostra storia e sono molto felice che le mie figlie, pur abitando a Milano, siano legate a Montalcino. Stanno entrando anche loro nell’azienda di famiglia e non potrei desiderare di meglio.

Questo rapporto così stretto con la famiglia e con le radici mi sembra che sia un tassello importante del suo impegno per il territorio.

Sì, credo di sì. Va da sé che ritengo importante assecondare il business ma senza stravolgere quello che c’è. Nel nostro lavoro bisogna procedere con molta lentezza e avere pazienza, assecondando quello che viene; per esempio, quest’anno c’è stata una grossa gelata e io stesso ho subito molti danni, ma bisogna accettarlo e guardare oltre, senza cedere a soluzioni facili. Giulio Gambelli ripeteva spesso che se un anno è andato male, vorrà semplicemente dire che il prossimo andrà meglio. Non c’è molto da aggiungere. Mi ritengo già fortunato a vivere qua, non voglio cercare scorciatoie e voglio lavorare con trasparenza. Tutti noi siamo credibili solo se abbiamo l’onestà intellettuale di produrre un vino pulito, ben fatto e di territorio.

Il Brunello Riserva Franci 2015 ha ottenuto i 100 punti da James Suckling. Che impatto ha avuto sulla percezione della vostra azienda questo riconoscimento?

Per prima cosa siamo molto fieri, perché Suckling è un grande esperto di vini di Montalcino e per questo territorio ha fatto moltissimo. E del resto ha ricevuto la cittadinanza onoraria non a caso!

È stato molto importante per noi perché i 100 punti alla Riserva hanno supportato un’annata che, nel suo insieme, ha ricevuto buonissimi punteggi da tutti i critici. Si è trattato di una sorta di coronamento della qualità del nostro lavoro in tutte le sue declinazioni. Nella percezione esterna ha certamente avuto un impatto positivo perché ha aumentato la nostra credibilità: la nostra è una realtà abbastanza giovane, ricevere riconoscimenti così prestigiosi vuol dire che siamo giovani ma solidi e che stiamo facendo un lavoro serio.

Redazione 18.05.2021

Vini di vulcano: un viaggio verso il centro della terra

L’Italia, nella sua estrema ricchezza in termini di biodiversità, presenta un mosaico complesso anche per quanto riguarda i vini da terreni vulcanici. Se di primo acchito, infatti, il pensiero va subito ai più grandi vulcani attivi come Etna e Vesuvio, la verità è che la mappa è ben più variegata. Basti pensare alla zona di Soave, conosciuta per la produzione di vini bianchi. Garganega e Trebbiano di Soave, i principali vitigni, raggiungono i propri vertici qualitativi anche grazie ai terreni di matrice vulcanica che caratterizzano queste terre. Lo stesso vale per la denominazione Lessini Durello, posizionata tra le colline a nord delle provincie di Verona e Vicenza, dove l’impronta dei suoli tufacei permette alla Durella di esprimersi in modo unico soprattutto negli spumanti. Gambellara e Colli Euganei sono altre due denominazioni dove il timbro vulcanico guida lo stile dei vini più importanti, e anche allontanandoci dal Veneto non mancano le zone caratterizzate in questo senso. Tra queste l’area intorno a Orvieto, quella di Montefiascone, nell’Alta Tuscia, o la doc Bianco di Pitigliano, nella Maremma toscana. E ancora i Campi Flegrei vicino a Napoli, Ischia e gli arcipelaghi della Sicilia.

Difficile, in un collage così composito, tracciare delle direttrici univoche, tuttavia i vini di vulcano tratteggiano alcune inclinazioni che in qualche modo li accomunano. Come evidenzia John Szabo nel suo libro “Volcanic Wines”, la tendenza sembra essere quella di mettere in evidenza maggiormente il corredo di durezze rispetto a quello delle morbidezze.

Grande freschezza, dunque, spiccata sapidità, e notevole mineralità, che si esprime ad esempio con sentori di pietra focaia. Quasi come se il vino fosse proteso nello sforzo di raccontare i vulcani da cui nasce, le loro rocce e la loro natura: collegare il mondo agli strati più profondi del pianeta.

Tra le zone vulcaniche l’Etna rappresenta certamente il caso più emblematico, sia per la ricchezza di stili ed espressioni, sia per l’attenzione che ha ricevuto negli ultimi vent’anni. Intanto è importante sottolineare che non esiste un Etna ma tanti Etna. Non solo la zona si distingue dal resto della Sicilia per clima e condizioni generali; le differenze sono notevoli anche tra le diverse aree del vulcano, con svariati fattori a incidere sulle loro caratteristiche tra cui altimetria e vicinanza al mare. Come minimo è utile suddividere l’Etna nei suoi tre versanti principali. Il versante Sud, punteggiato da vigneti che in certe contrade arrivano a superare i 1.000 metri di altitudine. Il versante Nord, dove nascono i rossi più noti, tra cui quelli prodotti con il nobile Nerello Mascalese. E il versante Est, affacciato sullo Ionio, dove prospera il Carricante e nascono i migliori bianchi dell’Etna, caratterizzati da un intreccio sorprendente di finezza e freschezza.

Uno dei nomi di spicco per la riscoperta dell’Etna è quello di Salvo Foti, grande esperto e conoscitore della zona, autore di diversi libri tra cui “Etna, i vini del vulcano”, “La Sicilia del Vino” e “La Montagna di fuoco”. Alla fine degli anni Novanta è proprio Foti, insieme a Giuseppe Benanti, a far esplodere la riscoperta dell’Etna vinicolo con Pietra Marina.

Un vino iconico, che nasce da uve Carricante e che con la versione 1999 innesca una vera e propria rivoluzione. La reazione della critica enologica infatti è unanime: Pietra Marina ottiene i massimi riconoscimenti e catalizza l’attenzione intorno al vulcano più alto d’Europa. Il livello eccellente si conferma con il passare degli anni e il vino di punta di casa Benanti continua a toccare vertici di qualità assoluta fino ad arrivare ai nostri giorni. Pietra Marina nasce nel comune di Milo, in Contrada Rinazzo, caratterizzata da un’eccellente esposizione, una ventilazione ottimale e un’altitudine di 800 metri sul livello del mare. Da qui le importanti escursioni termiche, ideali soprattutto per la coltivazione dei vitigni a bacca bianca. Il mare è poco distante, per questo qui piove di più. I terreni, naturalmente di matrice vulcanica, hanno conformazione sabbiosa e si caratterizzano per la ricchezza di sostanza minerali. Le viti, allevate ad alberello, arrivano fino a novant’anni di età.

Pietra Marina trascorre almeno 24 mesi sulle proprie fecce nobili in acciaio, con frequenti bâtonnages, seguiti da 12 mesi di bottiglia. Nella versione 2016, prima ancora che l’olfatto, colpisce lo sguardo con una splendida luminosità. Il naso apre elegante con un intreccio di fiori bianchi, agrumi e mela verde. Al palato i sentori sono freschi, tesi, affilati. Iodio, ribes, poi la conferma degli agrumi con sensazioni di limone e cedro. La sapidità guida un allungo che si mostra sorprendentemente dinamico, con la succosità sferzante che si alterna ai sentori minerali di pietra focaia. Uno slancio gustativo dove l’immediatezza del sorso cede il passo a una complessità affascinante, una profondità tutta da scoprire. La stessa profondità che contraddistingue questa terra, il vulcano, testimonianza terrestre di quanto si possa andare oltre la superficie per esplorare strati sempre più nascosti. Come in un viaggio verso il centro della terra.

di Graziano Nani 04.05.2021

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.