Salvino Benanti, insieme al fratello Antonio, si occupa da alcuni anni dell’azienda agricola fondata dal padre Giuseppe negli anni Ottanta. Dagli inizi fino ad arrivare al nuovo corso inaugurato con il cambio generazionale, abbiamo chiesto a Salvino di ripercorrere la storia di una realtà che ha contribuito in maniera determinante alla rinascita vitivinicola dell’Etna, diventando un punto di riferimento per tutto il territorio.
La vostra è una storia di famiglia ancora prima che aziendale, impossibile quindi non iniziare da qui. Ci racconti come e quando tuo padre ha scelto di occuparsi di vino?
Faccio un piccolo excursus storico: la mia famiglia si è trasferita da Bologna in Sicilia nel Settecento, da allora abbiamo sempre avuto terreni e, in qualche misura, un rapporto con il mondo agricolo. Poi, ai primi del Novecento, il mio bisnonno divenne uno dei primi farmacisti di Catania. L’attività venne portata avanti da mio nonno Antonio, che si inventò, nel vero senso della parola, alcune formulazioni originali nel retrobottega della sua farmacia. Da quelle invenzioni è nata un’azienda vera e propria che ancora oggi esiste e che ha un fatturato molto importante. Ho fatto questa premessa perché, per molti anni l’attività principale di famiglia è stata questa e la campagna e le vigne erano soprattutto una questione di passione e di tempo libero. Solo alla metà degli anni Ottanta mio padre decise di rimettere in attività in maniera seria e meditata la parte agricola.
Quale è stata la molla che lo ha portato a immaginare un progetto come quello della vostra cantina, per molti aspetti visionario per quegli anni sull’Etna?
Credo che, arrivato a un certo del suo percorso, mio padre sentisse la necessità di fare qualcosa di interamente suo, anche se più piccolo rispetto all’azienda farmaceutica. Sicuramente ha avuto ruolo indiretto il suo lavoro, che lo ho portato a viaggiare molto e ad avere una mentalità aperta e cosmopolita. Questa mentalità unita al forte legame affettivo con la terra, gli ha fatto venire voglia di fare qualcosa di altamente qualitativo sull’Etna, sul modello di tante cantine che aveva visitato all’estero. Aveva il desiderio di valorizzare tutto il potenziale che c’era qui ma al quale era sempre mancata una visione imprenditoriale di un certo tipo.
C’è anche un altro aspetto: mio padre per circa vent’anni ha continuato a portare avanti tutte e due le professioni e il fatto di avere alle spalle un solido lavoro imprenditoriale gli ha dato la possibilità di investire e sperimentare, prendendosi tutto il tempo necessario per farlo. Non aveva la necessità di guadagnare da subito come produttore di vino.
A parte l’approccio imprenditoriale che dicevi, rispetto al panorama enologico di quel periodo, cosa ha portato lui che ancora non c’era?
Diciamo che il mondo del vino dell’Etna era molto embrionale all’epoca, c’erano due o tre realtà di grande qualità, che però lui voleva “sfidare”. È stato il primo a puntare con convinzione sulla DOC dell’Etna e sull’internazionalizzazione. E, cosa nuova qui in quegli anni, ha messo in piedi un gruppo di lavoro importante con figure locali di grande esperienza ma anche con consulenti che venivano da fuori, dalla Borgogna e dalle Langhe soprattutto.
Tutti noi, qui, gli dobbiamo qualcosa perché ha avuto un’intuizione e l’ha portata avanti, mosso solo dalla passione. Anche quando gli stessi consulenti gli suggerivano di investire sui vitigni internazionali, mio padre ha sempre insistito perché il focus fosse tutto sui vitigni autoctoni: il Nerello Mascalese, il Nerello Cappuccio e il Carricante. Anche se il disciplinare ammette il Catarratto, che è stato importato dal resto della Sicilia ormai tantissimo tempo fa, noi utilizziamo da sempre come uva a bacca bianca esclusivamente il Carricante perché dal nostro punto di vista esprime una tipicità più marcata e genuina.
Tu e tuo fratello Antonio avete affiancato vostro padre nella gestione della cantina circa una decina di anni fa, per poi subentrare a lui. In questo passaggio di testimone generazionale è evidente una continuità dal punto di vista dei valori e della visione ma ti chiedo anche cosa avete portato di vostro in azienda e che cifra state cercando di imprimerle.
A livello personale, ti direi che abbiamo seguito un percorso simile a quello di nostro padre: arrivati intorno ai quarant’anni, proprio come lui, abbiamo sentito il bisogno di fare qualcosa di diverso, più semplice e più legato alla terra. Abbiamo maturato progressivamente l’idea di dedicarci solo all’azienda agricola e per questo, d’accordo con lui, siamo arrivati alla decisione di cedere totalmente la nostra parte dell’azienda farmaceutica per diventare contadini moderni a tempo pieno, diciamo così.
Per il resto, il momento in cui noi siamo entrati in cantina è molto diverso da quello che ha vissuto papà, che ha iniziato da solo, per molto tempo ha lavorato da solo e ha visto anche la situazione sull’Etna cambiare molto con l’arrivo di nuovi investitori. Noi, invece, siamo arrivati in una fase in cui tutto era molto più definito e venendo da una formazione manageriale è stato per noi relativamente facile analizzare lo status quo e capire dove e come intervenire. Siamo stati aiutati, credo, anche dal fatto di essere meno coinvolti emotivamente, per questo abbiamo potuto fare le nostre valutazioni con una certa razionalità.
Da queste riflessioni e da un lungo periodo di studio sono nate alcune scelte: cedere alcuni terreni e acquistarne altri, ammodernare la cantina con tecnologie più evolute, ripensare il sistema delle nostre etichette e far crescere il nostro enologo. Enzo Calì è in azienda da quando si è diplomato ma prima era affiancato da consulenti, oggi è l’unica figura di riferimento. Adesso, abbiamo una struttura che per noi è quasi quella definitiva e che ci ha permesso di reggere molto bene anche in quest’anno così difficile per via della pandemia.
Dicevi che siete intervenuti sul sistema delle etichette, in che modo?
L’obiettivo è stato quello di dare maggiore intelligibilità al nostro portfolio, che rispecchiava molto il carattere eccentrico di nostro padre. Lui ha iniziato, per inclinazione personale, con vini dal lunghissimo affinamento: Pietra Marina, Serra della Contessa e il suo gemello sul lato Nord, il Rovittello – le nostre icone insomma – sono nati subito. Poiché questi sono vini di nicchia, sia per la loro complessità, sia per una questione di fascia di prezzo, nel tempo, ha ampliato l’offerta con vini più semplici da approcciare. In questo modo, però, si è creata una polarizzazione: da un lato le etichette da beva più semplice per un pubblico più ampio, dall’altro, i vini da collezione, senza nessuna sfumatura in mezzo.
Noi abbiamo cercato di riempire questo vuoto, ripensando contemporaneamente i due poli: abbiamo spinto ancora più su le tre Icone – allungando l’affinamento da tre a cinque anni e facendo diventare riserva il Serra della Contessa e il Rovittello – e abbiamo alleggerito i base (che oggi chiamiamo i Tradizionali) rispetto all’impostazione di nostro padre, che proprio non riesce a concepire vini che non stiano una vita in cantina!
Ora sono più snelli: sono dei vini di grande tipicità, non ruffiani, dove il vitigno emerge con forza e semplicità. Sono anche vini longevi ma chiaramente sono concepiti per uscire ogni anno e per un consumo quotidiano.
La fascia di mezzo è rappresentata dalle Contrade.
Sì, esatto. Sono una sorta di mappa organolettica delle tipicità dell’Etna, perché in questo caso vinifichiamo per zone e quindi osservando la DOC, da nord, est, sud, sud ovest, si incontrano vari vigneti e ognuno produce un rosso o un bianco o a volte entrambi. È una linea che permette di apprezzare – in senso orizzontale – le sensibili differenze fra le diverse zone ed è destinata a crescere nei prossimi anni.
Tornando per un attimo alle due Icone Serra Della Contessa Particella No. 587 e Rovittello Particella No. 341: da qualche anno applicate una sorta di zonazione estrema, perché lavorate su singole parcelle, come riportano anche le due etichette.
Sì, sono vini riserva che provengono da vigne vecchissime, fanno cinque anni di affinamento e sono prodotti in quantità estremamente limitata. Li rilasciamo dal 2015 con l’idea che le persone li comprino non per consumarli subito ma per lasciarli in cantina per almeno altri cinque o sei anni, perché sono vini che si possono apprezzare pienamente quando raggiungono un livello di maturazione elevato. Il nostro desiderio è che il collezionista si possa costruire, progressivamente, la sua personale verticale.
In questo percorso come si inserisce il vostro recente studio sui lieviti indigeni?
Da buon perfezionista e chimico, nostro padre, a un certo, ha ritenuto che fosse giunto il momento di abbandonare i lieviti commerciali in favore di qualcosa di autoctono. Abbiamo suoli così diversi dal resto della Sicilia, per giunta figli di un vulcano ancora attivo, i nostri vitigni sono autoctoni: è un controsenso lavorare con lieviti che possono essere utilizzati per fare qualunque altro vino in qualunque parte d’Italia. Cercavamo un lievito che fosse tanto stabile da assicurare una vinificazione perfetta ma che preservasse le qualità organolettiche dell’uva, senza aggiungere nulla di alloctono. Nostro padre ha progettato lo studio e poi la realizzazione è avvenuta in collaborazione con l’Istituto Regionale della Vite e del Vino.
Come siete arrivati al risultato finale?
È stato tutto molto semplice ma anche meticoloso e scientificamente impeccabile. Siamo andati, a fine fermentazione, nelle cantine dei contadini che ancora producono vino, per recuperare dalle loro vasche di pietra lavica – i tradizionali palmenti – quello che era rimasto sulle pareti. In questo modo abbiamo isolato centinaia di ceppi, che sono stati replicati in laboratorio e successivamente usati per fare micro-prove di vinificazione. Partendo da questo lavoro preliminare, alla vendemmia successiva abbiamo isolato decine di parcelle di mosto e le abbiamo fatte fermentare con lieviti diversi per capire come lo stesso mosto si comportava in differenti situazioni. Al termine di questa lunga fase di test siamo arrivati ad avere solo quattro lieviti, quelli che più ci hanno convinti. Questi sono a tutti gli effetti i nostri lieviti: uno per ognuno dei due Nerelli, uno per il Carricante e uno per i due spumanti.
Abbiamo raggiunto l’equilibrio che cercavamo: una fermentazione impeccabile, non spontanea, che parte, però, da un lievito super indigeno, per avere un vino molto tipico e territoriale. La vinificazione controllata gli conferisce uno stile fatto di eleganza, purezza e discrezione. Vogliamo, infatti, che i nostri non siano vini potenti e esplosivi ma di grande finezza.
Tornando a guardare al territorio, forse la fase più strettamente sperimentale è superata ma senz’altro sull’Etna c’è ancora tanta vivacità. Come vedi il futuro?
Ovviamente la pandemia ha cambiato moltissimo il contesto di riferimento e rallentato la crescita di tutti. Adesso ci aspettano, credo, anni di consolidamento. In prospettiva ci saranno, secondo me, meno piccolissimi produttori e più realtà medio-grandi. Si tratta anche di un passaggio fisiologico, perché alla fine la nostra è una piccola DOC e ci sono già quasi 200 cantine. Per poter affrontare un mercato sempre più competitivo è necessario essere adeguatamente strutturati, dal punto di vista finanziario e da quello dell’approccio: si deve continuare a essere romantici ma non si può più improvvisare, bisogna avere capacità di investire, essere molto coerenti in tutto – nelle piccole e nelle grandi cose – e darsi un orizzonte ampio. Chi ha le spalle più larghe, ha più strumenti per far fronte a tutto questo. E del resto è inevitabile procedere in questa direzione se davvero la nostra DOC si vuole confrontare alla pari con le grandi realtà internazionali.
In tutto questo, la cosa bella dell’Etna è che si è creato una sorta di movimento di giovani produttori, tutti molto appassionati e perbene che credono nel lavoro di qualità e che fanno gioco di squadra. E questo è importantissimo: lavorare non solo per sé ma anche per la valorizzazione dell’intero territorio rende più forti tutti noi.
– Redazione 11.01.2021