The Winefully Magazine

MAZZON E IL PINOT NERO IN ALTO ADIGE

Parlando di Pinot Nero è interessante provare a capire perché sia così amato, ricercato, e in qualche modo venerato dagli appassionati di tutto il mondo. Parte del fascino nasce dal fatto che si tratta di un vitigno particolarmente difficile da coltivare. È una varietà delicata, precoce, tutt’altro che versatile, anzi, adatta soltanto ad alcuni particolari luoghi e climi. Il punto è che quando sussistono le giuste condizioni, compresa la mano di uomini capaci di valorizzare il vitigno, i risultati possono raggiungere livelli straordinari. Il Pinot Nero ha inoltre la particolare capacità di restituire le caratteristiche di zone anche molto piccole, e delle micro-differenze che esistono tra loro, in maniera precisa e sfaccettata. Basta un dislivello di pochi metri, o una minima discrepanza a livello di suoli, e due parcelle anche molto vicine possono portare nel bicchiere vini essenzialmente diversi.

La patria di questo vitigno è la Francia e in particolare la Borgogna, dove arriva a esprimere i livelli qualitativi più elevati. Lo si può trovare poi in diverse altre zone del mondo caratterizzate da climi freschi ed escursioni termiche importanti. Tra queste la Germania, l’Austria, il Sud Africa, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti, soprattutto in Oregon e California. Anche in Italia si può trovare in diverse regioni. Nell’Oltrepò Pavese, dove storicamente viene utilizzato per produrre gli spumanti, così come in Franciacorta. In Friuli, in Toscana, in Umbria, Marche e Abruzzo. Ultimamente si è diffuso anche al sud, in Campania, Basilicata e Sicilia, nella zona dell’Etna. E poi si trova un po’ ovunque sull’arco alpino: in Alto Adige, in particolare, dove viene chiamato anche Blauburgunder, diversi produttori hanno saputo dare vita a etichette che spiccano per stoffa ed espressività.

Il Pinot Nero è una presenza storica in Alto Adige, dove viene coltivato da oltre due secoli. Per descrivere i picchi qualitativi che è in grado di raggiungere in questa regione bisogna esplorare la zona dei borghi di Egna e di Montagna, e in particolare l’altopiano di Mazzon. Qui, a un’altitudine compresa tra i 250 e i 450 metri circa, si trova il Vigneto Mazzon, dove verso la metà del Novecento alcuni produttori hanno iniziato a concentrarsi proprio su questo vitigno. Stiamo parlando di un vigneto
che si estende per circa 60 ettari e vanta una posizione particolarmente felice per la coltivazione del Pinot Nero. Mazzon è esposto a ovest. Le montagne a nord svolgono una funzione importantissima, perché nelle prime ore del giorno proteggono dai raggi solari evitando che il calore sia eccessivo. Inoltre, riparano il vigneto dai venti più rigidi che provengono da nord e da est, lasciando campo invece all’Ora, la brezza mite che soffia dal Lago di Garda. Il vigneto gode poi di un’ottima quantità di luce, che si estende a lungo nel pomeriggio. Quando il sole cala le temperature si abbassano bruscamente, determinando quell’escursione termica fondamentale per la qualità del Pinot Nero.

Mazzon vede protagonisti circa una decina di produttori altoatesini, che riescono a ottenere risultati di notevole interesse. I vini dei diversi artigiani che lavorano il vigneto mostrano alcuni tratti comuni. Tra questi un frutto nitido, fresco e sprizzante, spesso intrecciato a note speziate, per un profilo complessivo in grado di dare soddisfazioni già dopo pochi anni, e al tempo stesso di moltiplicarle con il passare del tempo. Tra i nomi di queste realtà spicca Gottardi, oggi guidata da Elisabeth Gottardi, che negli anni Ottanta ha iniziato un lavoro specifico sul Pinot Nero, e nell’arco di una decade è riuscita a ottenere livelli di eccellenza assoluta.

Riserva Mazzon” viene prodotto dall’azienda esclusivamente nelle migliori annate, lavorando le uve dei vigneti più vecchi. 100% Pinot Nero, matura un anno in barriques nuove e 14 mesi in botti grandi, per poi affinare 6 mesi in bottiglia. Ne nasce un rosso complesso, tratto tipico dei vini che nascono da questo importante vigneto. Si presenta alla vista con un rosso brillante, lucente. Al naso profuma di frutti di bosco, con una particolare inclinazione verso la fragolina; sullo sfondo, spezie ed erbe officinali. In bocca articola una struttura ricca, con un tannino leggiadro, elegante, integrato a un profilo aromatico di grande ampiezza. Lungo, persistente, rintocchi freschi e sapidi di rincorrono e prolungano le sensazioni piacevoli al palato. Intrigante da subito, ha le caratteristiche giuste anche per restare in cantina ed evolvere nel tempo il proprio profilo.

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

Parlando di Pinot Nero è interessante provare a capire perché sia così amato, ricercato, e in qualche modo venerato dagli appassionati di tutto il mondo. Parte del fascino nasce dal fatto che si tratta di un vitigno particolarmente difficile da coltivare. È una varietà delicata, precoce, tutt’altro che versatile, anzi, adatta soltanto ad alcuni particolari luoghi e climi. Il punto è che quando sussistono le giuste condizioni, compresa la mano di uomini capaci di valorizzare il vitigno, i risultati possono raggiungere livelli straordinari. Il Pinot Nero ha inoltre la particolare capacità di restituire le caratteristiche di zone anche molto piccole, e delle micro-differenze che esistono tra loro, in maniera precisa e sfaccettata. Basta un dislivello di pochi metri, o una minima discrepanza a livello di suoli, e due parcelle anche molto vicine possono portare nel bicchiere vini essenzialmente diversi.

La patria di questo vitigno è la Francia e in particolare la Borgogna, dove arriva a esprimere i livelli qualitativi più elevati. Lo si può trovare poi in diverse altre zone del mondo caratterizzate da climi freschi ed escursioni termiche importanti. Tra queste la Germania, l’Austria, il Sud Africa, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti, soprattutto in Oregon e California. Anche in Italia si può trovare in diverse regioni. Nell’Oltrepò Pavese, dove storicamente viene utilizzato per produrre gli spumanti, così come in Franciacorta. In Friuli, in Toscana, in Umbria, Marche e Abruzzo. Ultimamente si è diffuso anche al sud, in Campania, Basilicata e Sicilia, nella zona dell’Etna. E poi si trova un po’ ovunque sull’arco alpino: in Alto Adige, in particolare, dove viene chiamato anche Blauburgunder, diversi produttori hanno saputo dare vita a etichette che spiccano per stoffa ed espressività.

Il Pinot Nero è una presenza storica in Alto Adige, dove viene coltivato da oltre due secoli. Per descrivere i picchi qualitativi che è in grado di raggiungere in questa regione bisogna esplorare la zona dei borghi di Egna e di Montagna, e in particolare l’altopiano di Mazzon. Qui, a un’altitudine compresa tra i 250 e i 450 metri circa, si trova il Vigneto Mazzon, dove verso la metà del Novecento alcuni produttori hanno iniziato a concentrarsi proprio su questo vitigno. Stiamo parlando di un vigneto
che si estende per circa 60 ettari e vanta una posizione particolarmente felice per la coltivazione del Pinot Nero. Mazzon è esposto a ovest. Le montagne a nord svolgono una funzione importantissima, perché nelle prime ore del giorno proteggono dai raggi solari evitando che il calore sia eccessivo. Inoltre, riparano il vigneto dai venti più rigidi che provengono da nord e da est, lasciando campo invece all’Ora, la brezza mite che soffia dal Lago di Garda. Il vigneto gode poi di un’ottima quantità di luce, che si estende a lungo nel pomeriggio. Quando il sole cala le temperature si abbassano bruscamente, determinando quell’escursione termica fondamentale per la qualità del Pinot Nero.

Mazzon vede protagonisti circa una decina di produttori altoatesini, che riescono a ottenere risultati di notevole interesse. I vini dei diversi artigiani che lavorano il vigneto mostrano alcuni tratti comuni. Tra questi un frutto nitido, fresco e sprizzante, spesso intrecciato a note speziate, per un profilo complessivo in grado di dare soddisfazioni già dopo pochi anni, e al tempo stesso di moltiplicarle con il passare del tempo. Tra i nomi di queste realtà spicca Gottardi, oggi guidata da Elisabeth Gottardi, che negli anni Ottanta ha iniziato un lavoro specifico sul Pinot Nero, e nell’arco di una decade è riuscita a ottenere livelli di eccellenza assoluta.

Riserva Mazzon” viene prodotto dall’azienda esclusivamente nelle migliori annate, lavorando le uve dei vigneti più vecchi. 100% Pinot Nero, matura un anno in barriques nuove e 14 mesi in botti grandi, per poi affinare 6 mesi in bottiglia. Ne nasce un rosso complesso, tratto tipico dei vini che nascono da questo importante vigneto. Si presenta alla vista con un rosso brillante, lucente. Al naso profuma di frutti di bosco, con una particolare inclinazione verso la fragolina; sullo sfondo, spezie ed erbe officinali. In bocca articola una struttura ricca, con un tannino leggiadro, elegante, integrato a un profilo aromatico di grande ampiezza. Lungo, persistente, rintocchi freschi e sapidi di rincorrono e prolungano le sensazioni piacevoli al palato. Intrigante da subito, ha le caratteristiche giuste anche per restare in cantina ed evolvere nel tempo il proprio profilo.

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

MAZZON E IL PINOT NERO IN ALTO ADIGE

Parlando di Pinot Nero è interessante provare a capire perché sia così amato, ricercato, e in qualche modo venerato dagli appassionati di tutto il mondo. Parte del fascino nasce dal fatto che si tratta di un vitigno particolarmente difficile da coltivare. È una varietà delicata, precoce, tutt’altro che versatile, anzi, adatta soltanto ad alcuni particolari luoghi e climi. Il punto è che quando sussistono le giuste condizioni, compresa la mano di uomini capaci di valorizzare il vitigno, i risultati possono raggiungere livelli straordinari. Il Pinot Nero ha inoltre la particolare capacità di restituire le caratteristiche di zone anche molto piccole, e delle micro-differenze che esistono tra loro, in maniera precisa e sfaccettata. Basta un dislivello di pochi metri, o una minima discrepanza a livello di suoli, e due parcelle anche molto vicine possono portare nel bicchiere vini essenzialmente diversi.

La patria di questo vitigno è la Francia e in particolare la Borgogna, dove arriva a esprimere i livelli qualitativi più elevati. Lo si può trovare poi in diverse altre zone del mondo caratterizzate da climi freschi ed escursioni termiche importanti. Tra queste la Germania, l’Austria, il Sud Africa, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti, soprattutto in Oregon e California. Anche in Italia si può trovare in diverse regioni. Nell’Oltrepò Pavese, dove storicamente viene utilizzato per produrre gli spumanti, così come in Franciacorta. In Friuli, in Toscana, in Umbria, Marche e Abruzzo. Ultimamente si è diffuso anche al sud, in Campania, Basilicata e Sicilia, nella zona dell’Etna. E poi si trova un po’ ovunque sull’arco alpino: in Alto Adige, in particolare, dove viene chiamato anche Blauburgunder, diversi produttori hanno saputo dare vita a etichette che spiccano per stoffa ed espressività.

Il Pinot Nero è una presenza storica in Alto Adige, dove viene coltivato da oltre due secoli. Per descrivere i picchi qualitativi che è in grado di raggiungere in questa regione bisogna esplorare la zona dei borghi di Egna e di Montagna, e in particolare l’altopiano di Mazzon. Qui, a un’altitudine compresa tra i 250 e i 450 metri circa, si trova il Vigneto Mazzon, dove verso la metà del Novecento alcuni produttori hanno iniziato a concentrarsi proprio su questo vitigno. Stiamo parlando di un vigneto
che si estende per circa 60 ettari e vanta una posizione particolarmente felice per la coltivazione del Pinot Nero. Mazzon è esposto a ovest. Le montagne a nord svolgono una funzione importantissima, perché nelle prime ore del giorno proteggono dai raggi solari evitando che il calore sia eccessivo. Inoltre, riparano il vigneto dai venti più rigidi che provengono da nord e da est, lasciando campo invece all’Ora, la brezza mite che soffia dal Lago di Garda. Il vigneto gode poi di un’ottima quantità di luce, che si estende a lungo nel pomeriggio. Quando il sole cala le temperature si abbassano bruscamente, determinando quell’escursione termica fondamentale per la qualità del Pinot Nero.

Mazzon vede protagonisti circa una decina di produttori altoatesini, che riescono a ottenere risultati di notevole interesse. I vini dei diversi artigiani che lavorano il vigneto mostrano alcuni tratti comuni. Tra questi un frutto nitido, fresco e sprizzante, spesso intrecciato a note speziate, per un profilo complessivo in grado di dare soddisfazioni già dopo pochi anni, e al tempo stesso di moltiplicarle con il passare del tempo. Tra i nomi di queste realtà spicca Gottardi, oggi guidata da Elisabeth Gottardi, che negli anni Ottanta ha iniziato un lavoro specifico sul Pinot Nero, e nell’arco di una decade è riuscita a ottenere livelli di eccellenza assoluta.

Riserva Mazzon” viene prodotto dall’azienda esclusivamente nelle migliori annate, lavorando le uve dei vigneti più vecchi. 100% Pinot Nero, matura un anno in barriques nuove e 14 mesi in botti grandi, per poi affinare 6 mesi in bottiglia. Ne nasce un rosso complesso, tratto tipico dei vini che nascono da questo importante vigneto. Si presenta alla vista con un rosso brillante, lucente. Al naso profuma di frutti di bosco, con una particolare inclinazione verso la fragolina; sullo sfondo, spezie ed erbe officinali. In bocca articola una struttura ricca, con un tannino leggiadro, elegante, integrato a un profilo aromatico di grande ampiezza. Lungo, persistente, rintocchi freschi e sapidi di rincorrono e prolungano le sensazioni piacevoli al palato. Intrigante da subito, ha le caratteristiche giuste anche per restare in cantina ed evolvere nel tempo il proprio profilo.

 


Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

ZUCCHERO CHIAMA ZUCCHERO: I VINI DA ABBINARE AI DOLCI DI NATALE.

Le feste natalizie sono uniche anche perché, per molti, è il momento giusto per concedersi qualcosa di speciale a tavola. Salumi particolari, magari quel caviale da gustare una volta ogni tanto, oppure un buon torrone lavorato a mano o un panettone artigianale. Il mondo dei dolci natalizi, in particolare, è decisamente ricco di alternative tra cui scegliere per chiudere un pranzo o una cena a casa.
A volte si tende a pensare che un Brut Metodo Classico, oltre a essere perfetto per aprire il pasto, può essere una buona alternativa anche da abbinare al dessert. La verità è che in questo caso uno spumante può funzionare solo se presenta una certa quantità di residuo zuccherino. Uno spumante demi-sec, ad esempio, ci può stare, perché i suoi zuccheri oscillano tra i 33 e i 50 grammi per litro; così come uno spumante dolce, dove si supera la soglia dei 50 gr/l.
Senza entrare negli aspetti tecnici, è sufficiente tenere a mente una formula molto semplice: dolce chiama dolce. Non si tratta di un principio assoluto ed esistono tante eccezioni, ad esempio quando si parla di cioccolato fondente, ma è una buona regola base. Non solo per evitare accostamenti poco riusciti, ma anche per non sprecare una bottiglia di pregio, magari quel Metodo Classico conservato mesi e mesi in attesa dell’occasione giusta. È un rischio tipico delle feste, e non accade solo con gli spumanti: abbiamo una bottiglia di valore da parte, aspettiamo da tempo l’occasione giusta per aprirla, e presi dall’entusiasmo del clima natalizio non pensiamo all’abbinamento, perdendo l’occasione di valorizzarla come merita. Dunque a fine pasto, per non sbagliare, ricordiamo che si può sempre assecondare la presenza dello zucchero con altro zucchero. Tecnicamente è quello che si chiama abbinamento per concordanza, alternativa all’accostamento per contrapposizione. La formula non riguarda solo gli spumanti, ma tutti i vini dolci. Tra questi, in particolare, ci sono i passiti, di cui l’Italia è ricchissima a tutte le latitudini, dall’Alto Adige a Pantelleria. Si tratta di vini realizzati attraverso la lavorazione di acini appassiti. L’appassimento può avvenire in pianta, con una vendemmia tardiva che innesca un processo di surmaturazione, oppure dopo la raccolta dell’uva, lasciando disidratare gli acini per un certo periodo di tempo. Quello che si cerca attraverso l’appassimento è una maggior concentrazione diaromi e zuccheri, che si ritroverà poi anche nel bicchiere dopo la lavorazione. Per accostare bene un vino a un dessert non basta scegliere un passito qualsiasi. Anche questo tipo di abbinamento richiede qualche considerazione e permette di giocare tra un ventaglio di opzioni e interpretazioni. Un fattore da tener presente è quello della struttura del dolce che andremo a mangiare. Una torta paradiso, ad esempio, ha una struttura molto diversa rispetto a quella di un panforte, decisamente più importante, dove abbiamo tra gli ingredienti il miele, le mandorle, la frutta candita e diverse spezie. Se nel primo caso possiamo optare per un vino delicato, ad esempio un Moscato d’Asti, nel secondo caso la scelta può andare su un prodotto più strutturato, come ad esempio un Vin Santo. Un altro punto da considerare riguarda il livello di dolcezza, ovvero la quantità di zuccheri presenti nella ricetta, perché c’è dolce e dolce. Un plumcake allo yogurt, in questo senso, è molto diverso da una crostata alla confettura di albicocche. Nel primo caso uno spumante leggero da uve Malvasia può essere una buona soluzione. Nel secondo caso invece si può optare per uno Zibibbo passito che arriva dalla Sicilia, dove il clima caldo favorisce la dolcezza degli acini, e conseguentemente del prodotto finale. Continuando con i fattori da tenere a mente quando cerchiamo l’abbinamento giusto per un dolce, possiamo considerare anche la sua aromaticità. Questa può derivare dalle erbe aromatiche previste dalla ricetta, oppure dal profumo intrinseco di uno specifico ingrediente. Un esempio può essere quello, inconfondibile, dei canditi nel panettone, caratterizzati appunto da spiccata aromaticità. In questo caso per l’abbinamento, sempre in una logica di concordanza, si può valutare un vino di
buona intensità. L’intensità, per intenderci, è quel parametro che descrive in termini quantitativi la forza con cui i sentori si esprimono al naso e al palato. Tipicamente presentano grande intensità diversi vini ottenuti da uve aromatiche come Moscato, Malvasia o Gewürztraminer. Proprio quest’ultima è alla base del passito Rechtenthaler Schlossleiten firmato dalla storica azienda altoatesina Hofstätter, ideale appunto da abbinare a un buon panettone. Un Gewürztraminer da vendemmia tardiva di grande spessore, che prende il nome da uno dei prestigiosi cru dei vigneti di proprietà. Caratteristica chiave è la sua sorprendente freschezza, decisamente sopra la media nella categoria dei vini dolci, e fondamentale per evitare di appesantire la fine di pasti che a Natale possono risultare già di per sé impegnativi. Anche il ridotto contenuto di alcol, intorno al 7%, aiuta a delineare un profilo snello ed elegante. Al naso miele ed erbe aromatiche, in bocca albicocche, pere e agrumi canditi. La lunghissima persistenza connota questo Gewürztraminer come la scelta giusta per chiudere in bellezza un pranzo o una cena natalizia, con l’idea di portare con sé il più a lungo possibile il sapore dolce delle feste.

VITICOLTURA IN VERTICALE: VIAGGIO TRA I VIGNETI PIÙ ALTI D’EUROPA

Quanto in alto ci si può spingere in Europa con la coltivazione della vite? La domanda è più che mai attuale, visti gli effetti del cambiamento climatico e gli esperimenti sempre più frequenti per trovare nell’altitudine una delle risposte decisive. Sono diversi i vigneti che rivendicano il primato di essere i più alti nel vecchio continente. Lo scopo qui non è tanto quello di decretare il vincitore dal punto di vista orografico, o compilare una lista esaustiva, quanto quello di citare alcuni di questi casi, e delineare alcuni tratti distintivi che caratterizzano le vigne in quota e i vini che ne derivano.
Il sud Spagna, con la catena montuosa de La Contraviesa, sembra quella che è riuscita a toccare le altitudini più elevate. Siamo vicino al Parco Nazionale della Sierra Nevada, a sud-est di Granada, all’impressionante quota di 1.368 metri sul livello del mare, mitigata dai venti caldi che provengono dal mare di Alboran. Qui l’azienda Barranco Oscuro coltiva 10 ettari di terreno, un’estensione non banale per condizioni tanto estreme. Tra i vitigni coltivati ci sono sia una serie di autoctoni, sia alcuni internazionali tra cui Pinot Nero e Merlot.
In Alto Adige, precisamente nell’alta Val Venosta, esiste un altro luogo che sfiora le quote dello spagnolo appena citato. Qui l’azienda Calvenschlössl cura diversi vigneti, tra cui uno molto speciale. Si chiama Marienberg, ed è stato l’omonimo monastero benedettino a concedere il terreno perché potesse essere coltivato.L’incredibile altitudine dove cresce il vitigno Solaris è quella di 1.340 metri sul livello del mare, davvero un soffio dal titolo di vigneto più alto d’Europa. Si tratta di luoghi di incredibile fascino, dove la storia millenaria del monastero benedettino si fonde con scenari scoscesi dalla bellezza folgorante, e il lago di Resia spicca con le sue acque cristalline.

Sempre in Italia, ma a tutt’altra latitudine, la viticoltura vola fino a 1.300 metri sul livello del mare. Siamo in Calabria, a Cava di Melis, un piccolo paese nel cuore del Parco Nazionale della Sila, nel comune di Longobucco. L’azienda si chiama Immacolata Pedace, coltiva diversi vitigni internazionali tra cui Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Pinot bianco e Chardonnay. La viticoltura ad altezze così proibitive, in questo caso, è resa possibile da un incrocio delicato di fattori, tra cui la presenza del lago Cecita, che con il suo influsso agisce da elemento mitigante, permettendo di superare i rigidi inverni in cui le temperature arrivano anche a 20 gradi sotto lo zero.Tornando a nord, anche la Valle D’Aosta è conosciuta per le altitudini impressionanti della sua viticoltura. Siamo a 1.210 metri, nella parte nord-ovest della regione, dove nasce il noto Blanc de Morgex et de La Salle, prodotto con uve Prié Blanc. La cantina si chiama Cave Mont Blanc, oggi conta circa 80 soci, ciascuno dei quali coltiva un piccolo vigneto ai piedi del Monte Bianco.Tornando in Alto Adige, e in particolare nella Valle di Non, una realtà davvero interessante è Vin de la Neu, guidata da Nicola Biasi, enologo conosciuto internazionalmente per la capacità di far crescere e affermare sul mercato diverse realtà italiane.

Nicola, oltre dieci anni fa, decide di impiantare a oltre 800 metri di altitudine la varietà resistente Johanniter: il 2013 è l’anno della prima vendemmia. Uno dei punti più interessanti del lavoro di Vin de la Neu è la sperimentazione che oggi, attraverso scienza e conoscenza, permette di produrre vini ad altitudini più elevate rispetto al passato. Uno dei tasselli fondamentali che consente di raggiungere questo obiettivo è lo studio delle varietà resistenti, come appunto la Johanniter. I risultati che danno dal punto di vista agronomico contro le malattie fungine, e non solo, sono davvero straordinari. Questo, naturalmente, permette una totale assenza di trattamenti in vigna, e dunque di portare avanti una viticoltura che davvero si può definire sostenibile e rispettosa del territorio che la accoglie.
Il risultato nel bicchiere è tangibile e inequivocabile. Quelli di Nicola sono vini di grandissima purezza e pulizia, caratterizzati da un’espressività che lascia il segno. L’annata 2017 di Vin de la Neu, in particolare, si caratterizza per il rigore e la freschezza che deriva dall’ambiente montano dove nasce. L’arancia, l’ananas e alcune interessanti sfumature erbacee, si uniscono a una gamma di sentori appartenenti al mondo minerale, come la grafite. A questi si aggiungono screziature di profumi terziari, tra cui si distinguono sfumature di idrocarburi e riverberi iodati. Un sorso teso, ricco e perfettamente a fuoco, che contiene in nuce l’anima di un progetto innovativo che fa dell’armonia con l’ambiente montano la propria cifra distintiva.

ZUCCHERO CHIAMA ZUCCHERO: I VINI DA ABBINARE AI DOLCI DI NATALE.

Le feste natalizie sono uniche anche perché, per molti, è il momento giusto per concedersi qualcosa di speciale a tavola. Salumi particolari, magari quel caviale da gustare una volta ogni tanto, oppure un buon torrone lavorato a mano o un panettone artigianale. Il mondo dei dolci natalizi, in particolare, è decisamente ricco di alternative tra cui scegliere per chiudere un pranzo o una cena a casa.
A volte si tende a pensare che un Brut Metodo Classico, oltre a essere perfetto per aprire il pasto, può essere una buona alternativa anche da abbinare al dessert. La verità è che in questo caso uno spumante può funzionare solo se presenta una certa quantità di residuo zuccherino. Uno spumante demi-sec, ad esempio, ci può stare, perché i suoi zuccheri oscillano tra i 33 e i 50 grammi per litro; così come uno spumante dolce, dove si supera la soglia dei 50 gr/l.
Senza entrare negli aspetti tecnici, è sufficiente tenere a mente una formula molto semplice: dolce chiama dolce. Non si tratta di un principio assoluto ed esistono tante eccezioni, ad esempio quando si parla di cioccolato fondente, ma è una buona regola base. Non solo per evitare accostamenti poco riusciti, ma anche per non sprecare una bottiglia di pregio, magari quel Metodo Classico conservato mesi e mesi in attesa dell’occasione giusta. È un rischio tipico delle feste, e non accade solo con gli spumanti: abbiamo una bottiglia di valore da parte, aspettiamo da tempo l’occasione giusta per aprirla, e presi dall’entusiasmo del clima natalizio non pensiamo all’abbinamento, perdendo l’occasione di valorizzarla come merita. Dunque a fine pasto, per non sbagliare, ricordiamo che si può sempre assecondare la presenza dello zucchero con altro zucchero. Tecnicamente è quello che si chiama abbinamento per concordanza, alternativa all’accostamento per contrapposizione. La formula non riguarda solo gli spumanti, ma tutti i vini dolci. Tra questi, in particolare, ci sono i passiti, di cui l’Italia è ricchissima a tutte le latitudini, dall’Alto Adige a Pantelleria. Si tratta di vini realizzati attraverso la lavorazione di acini appassiti. L’appassimento può avvenire in pianta, con una vendemmia tardiva che innesca un processo di surmaturazione, oppure dopo la raccolta dell’uva, lasciando disidratare gli acini per un certo periodo di tempo. Quello che si cerca attraverso l’appassimento è una maggior concentrazione diaromi e zuccheri, che si ritroverà poi anche nel bicchiere dopo la lavorazione. Per accostare bene un vino a un dessert non basta scegliere un passito qualsiasi. Anche questo tipo di abbinamento richiede qualche considerazione e permette di giocare tra un ventaglio di opzioni e interpretazioni. Un fattore da tener presente è quello della struttura del dolce che andremo a mangiare. Una torta paradiso, ad esempio, ha una struttura molto diversa rispetto a quella di un panforte, decisamente più importante, dove abbiamo tra gli ingredienti il miele, le mandorle, la frutta candita e diverse spezie. Se nel primo caso possiamo optare per un vino delicato, ad esempio un Moscato d’Asti, nel secondo caso la scelta può andare su un prodotto più strutturato, come ad esempio un Vin Santo. Un altro punto da considerare riguarda il livello di dolcezza, ovvero la quantità di zuccheri presenti nella ricetta, perché c’è dolce e dolce. Un plumcake allo yogurt, in questo senso, è molto diverso da una crostata alla confettura di albicocche. Nel primo caso uno spumante leggero da uve Malvasia può essere una buona soluzione. Nel secondo caso invece si può optare per uno Zibibbo passito che arriva dalla Sicilia, dove il clima caldo favorisce la dolcezza degli acini, e conseguentemente del prodotto finale. Continuando con i fattori da tenere a mente quando cerchiamo l’abbinamento giusto per un dolce, possiamo considerare anche la sua aromaticità. Questa può derivare dalle erbe aromatiche previste dalla ricetta, oppure dal profumo intrinseco di uno specifico ingrediente. Un esempio può essere quello, inconfondibile, dei canditi nel panettone, caratterizzati appunto da spiccata aromaticità. In questo caso per l’abbinamento, sempre in una logica di concordanza, si può valutare un vino di
buona intensità. L’intensità, per intenderci, è quel parametro che descrive in termini quantitativi la forza con cui i sentori si esprimono al naso e al palato. Tipicamente presentano grande intensità diversi vini ottenuti da uve aromatiche come Moscato, Malvasia o Gewürztraminer. Proprio quest’ultima è alla base del passito Rechtenthaler Schlossleiten firmato dalla storica azienda altoatesina Hofstätter, ideale appunto da abbinare a un buon panettone. Un Gewürztraminer da vendemmia tardiva di grande spessore, che prende il nome da uno dei prestigiosi cru dei vigneti di proprietà. Caratteristica chiave è la sua sorprendente freschezza, decisamente sopra la media nella categoria dei vini dolci, e fondamentale per evitare di appesantire la fine di pasti che a Natale possono risultare già di per sé impegnativi. Anche il ridotto contenuto di alcol, intorno al 7%, aiuta a delineare un profilo snello ed elegante. Al naso miele ed erbe aromatiche, in bocca albicocche, pere e agrumi canditi. La lunghissima persistenza connota questo Gewürztraminer come la scelta giusta per chiudere in bellezza un pranzo o una cena natalizia, con l’idea di portare con sé il più a lungo possibile il sapore dolce delle feste.

La forza dell’etichetta (e non solo)

Immaginiamo uno scaffale ben rifornito di vino o, in alternativa, la pagina web di un e-shop che preveda una chiara e facile navigazione oltre che una corretta prospettiva di osservazione: questa è di sicuro una situazione classica che ognuno di noi ha vissuto (a maggior ragione essendo all’interno del Magazine di Winefully) e che ha visto entrare in gioco una serie di dinamiche tali da governare la scelta del proprio vino da acquistare.

Le ragioni a guidare la selezione sono varie e molte di essere sono legate alla motivazione intrinseca all’acquisto: un’occasione da celebrare, un presente da omaggiare, una bottiglia da collezionare, un vino desiderato da tempo finalmente disponibile, un’etichetta scelta in funzione di un consiglio diretto di un amico o indiretto da parte di social media o di guide internazionali, la disponibilità di determinati formati ed infine anche la dinamica prezzo, vuoi perchè legata ad un determinato budget o perchè in grado di generare un risparmio se confrontata ad altre opportunità di acquisto. In cosa consiste il fil rouge che connette, in modo più o meno intenso, le motivazioni menzionate, sicuramente non esaustive di tutte le opportunità di acquisto che possiamo vivere? L’estetica, ovvero la percezione mediata attraverso i sensi delle caratteristiche di un prodotto che, al momento dell’acquisto, non si conosce o si conosce solo in parte.

E’ fuori dubbio che l’antico detto secondo cui “anche l’occhio vuole la sua parte” si applica molto bene a tali situazioni d’acquisto, da qui il ruolo chiave del Marketing nel creare un certo appeal nel prodotto, la bottiglia di vino, tanto da motivare l’acquirente a selezionarlo in modo congiunto o disgiunto rispetto ad altre variabili parte del processo decisionale.

Non tutti i cinque sensi sono però stimolati nella fase di studio in cui si captano le informazioni di interesse: una bottiglia chiusa difficilmente potrà stimolare l’olfatto salvo che le condizioni di stoccaggio del sito di acquisto non siano all’altezza e ci motivino ad allontanarci al più presto (vedi anche l’articolo “Bottiglie preziose: come conservarle a regola d’arte”), o il gusto; maggiori possono invece essere gli stimoli nei confronti dell’udito, soprattutto se combinato al tatto nel tastare una bottiglia ed immagazzinare una serie di informazioni dal suo profilo, da eventuali scritte impresse sul vetro o dalla qualità e grana di etichetta e capsula, ove presente.

Lasciamo inevitabilmente per ultima la vista, essendo questo il senso che condiziona maggiormente la scelta di un vino in sede di acquisto in persona condividendo, appunto, altri dettagli con tatto ed udito, e condizionando esclusivamente l’acquisto nel caso in cui si opti per piattaforme online.

Nel mondo dei vino è da tempo chiara la strategicità del packaging di una bottiglia: si investe moltissimo affinchè il prodotto trasmetta i valori della cantina, comunichi chiaramente ed in modo immediato al consumatore, permetta di andare oltre le informazioni di etichetta e retroetichetta, fornisca dettagli in linea con le legislazioni vigenti, menzioni il progressivo della bottiglia in caso di edizioni limitate o, e non in ultimo, fornisca un messaggio legato al posizionamento del prodotto a livello di Marketing.

Anche il più piccolo dettaglio conta e può realmente fare la differenza: oggettivamente, in quanti ci siamo trovati nella condizione di dover scegliere uno o più vini facendoci guidare sì dalle nostre conoscenze o da referenze di terzi, ma anche dal nostro istinto e dalle nostre preferenze visive? Quante volte ci siamo trovati di fronte ad etichette ammiccanti, packaging fantasiosi che generano curiosità e voglia di approfondire o a delle mise semplicemente eleganti perfettamente in linea con la nomea di un determinato vino? E quante volte ci siamo sottratti all’acquisto di vini non in grado di comunicare o il cui packaging non è stato considerato all’altezza della situazione specifica?

E’ accaduto, accade ed accadrà essendo il consumatore sempre più informato ed essendoci mezzi a disposizione che forniscono informazioni che un tempo magari non erano così rilevanti (o lo erano ma solo per gli esperti di settore).

Il trend è comune a tutti i mercati (non solo del vino visto che sia i superalcolici che l’acqua e bevande gassate non sono da meno) ma nel nostro mondo si notano con maggiore chiarezza le scelte aziendali volte ad un maggior focus sull’apparenza e la percezione del prodotto al cliente (consumatore o meno).

Questo avviene perchè ovviamente il mercato del vino è fortemente eterogeneo e caratterizzato da una storia spesso legata ai singoli territori ed alle singole cantine, a loro volta custodi di una tradizione il più delle volte familiare che i trend del mercato non hanno modo di scalfire (o almeno non riescono a farlo, al momento).

Risulterà quindi sempre difficile ed anche limitante confrontare vini dove l’essenza è contenuta all’interno del vetro e vini dove l’involucro esterno risulta fondamentale per finalizzarne la vendita. Entrambi hanno l’esigenza di incontrare il potere d’acquisto del cliente ma le modalità in cui lo fanno sono radicalmente diverse, attivando il modo diametralmente opposto i sensi alla base del processo decisionale oltre che l’emozione, il trasporto ed il sentimento che possono caratterizzare determinati acquisti.

A supporto della scelta di un vino possiamo categorizzare elementi decisionali interni ed esterni. I primi fanno riferimento al vino di per sè, alla sua storia, alle tecniche di vinificazione ed affinamento, all’annata ed al terroir. I secondi sono invece riconducibili al modo in cui viene presentato il vino, all’etichetta, al packaging, al prezzo e altri fattori che permettono di raccontare il prodotto di per sè.

Come è emerso nello studio “Il neuromarketing incontra l’arte dell’etichetta” commissionato da UPM Raflatac a SenseCatch nel 2018, emerge chiaramente che, tralasciando la variabile prezzo, sono l’etichetta con il suo design, le tipologie di carta e di nobilitazioni ad influenzare la scelta di un vino piuttosto che un altro.

Come accennato dal titolo, la materia è stata analizzata a livello scientifico utilizzando la metodologia di ricerca di SenseCatch, che integra neuroscienze e consumer behavior per analizzare le ragioni dietro i processi decisionali del consumatore in modo oggettivo e scientifico.

Il lavoro di ricerca è stato pubblicato in questo libro e nell’articolo scientifico “Neuromarketing Meets the Art of Labelling. How Papers and Finishing on Labels Affect Wine Buying Decisions” della rivista American Association of Wine Economics.

Esistono quindi delle ragioni oggettive, oltre che soggettive, dietro determinate scelte d’acquisto che coinvolgono uno o più sensi nel valutare più alternative così da scremarle progressivamente per identificare il prodotto di maggiore interesse.

L’estetica intesa come ciò che più aggrada l’occhio tanto da creare soddisfazione per un acquisto entra quindi in gioco e ci porta a propendere per determinate opzioni a seconda che gli stimoli siano più o meno allineati alle aspettative.

L’aspetto esteriore di una bottiglia di vino, quindi, risulta chiave in questo scenario, con l’etichetta che gioca il ruolo più importante insieme ad un eventuale packaging esterno che rende il prodotto unico e da subito riconoscibile, oltre che fortemente attraente.

Anche focalizzando la riflessione soltanto sull’etichetta, il vero e proprio carattere distintivo di ogni vino, avremmo uno spettro molto ampio di messaggi da recepire ed analizzare: da qui il focus sulle dinamiche che spingono un acquirente a selezionare specifiche etichette a seguito di stimoli specifici legati alla grafica, alla percezione tattile, al mix di colori che contraddistinguono i singoli vini.

A seconda delle specifiche necessità che sottintendono al processo di acquisto, ciascuna o tutte insieme possono svolgere un ruolo più o meno decisivo, dai risultati fortemente eterogenei a seguito di un ragionamento razionale per buona parte ma, inevitabilmente (ed aggiungiamo, fortunatamente) anche emozionale.

La serendipità dell’Amarone e il mito di Giuseppe Quintarelli

La serendipità è quel fenomeno per cui, mentre si sta cercando qualcosa, imprevedibilmente si trova altro. E il bello è che questo “altro” risulta una vera e propria sorpresa, qualcosa che spesso ha un valore più grande di ciò che si inseguiva originariamente. In poche parole si tratta di una scoperta fortunata, non pianificata. Cristoforo Colombo che scopre l’America, mentre in realtà cercava le Indie, è forse il caso più famoso di serendipità. Poi ci sono la Tarte Tatin, nata quando le sorelle Tatin scordarono di mettere la base nella torta di mele; il ghiacciolo, inventato incidentalmente da Frank Epperson dimenticando un bicchiere di soda al freddo; e la penicillina, figlia dell’errata disinfezione di un provino da parte di Alexander Fleming.

Anche l’Amarone pare sia un tipico caso di serendipità. La leggenda narra di un tale Adelino Lucchese, cantiniere della Cantina sociale di Negrar, che nel 1936 ritrova una botte di Recioto dimenticata. Spillando si rende conto che il vino dolce, continuando a fermentare, è diventato secco. Prova a recuperare il danno, ma senza successo. Il direttore della cantina, avvisato del problema, decide comunque di assaggiare quel “Recioto scapà” e rimane piacevolmente sorpreso dal risultato ottenuto. La frase che pare abbia rivolto al cantiniere è proprio “questo non è amaro, ma Amarone!”.

Nasce così il celebre vino della Valpolicella, il cui primo documento di vendita risale al 1938. L’Amarone viene poi distribuito a tutti gli effetti a partire dal 1953, ottenendo subito un ottimo riscontro commerciale. Nel 1968 viene approvato il primo disciplinare: al vino viene riconosciuta la certificazione DOC. Il suo successo continua a crescere, soprattutto all’estero, e nel 2010 arriva anche la DOCG. L’Amarone tecnicamente è un passito secco, ovvero privi di residuo zuccherino o quasi. La peculiarità del processo produttivo sta proprio nell’appassimento dell’uva, che porta a concentrazione e grande potenziale espressivo. Il vino viene prodotto con le uve storiche Corvina, Corvinone e Rondinella, a cui è possibile aggiungere sia uve locali che altre varietà.

Se guardiamo al percorso compiuto da questo grande vino, una stella brilla più delle altre lungo la sua parabola ascendente. È quella di Giuseppe Quintarelli, l’uomo che ha saputo portare l’Amarone ai livelli qualitativi più alti, fino a sancirne il successo e la fama in tutto il mondo. La cantina viene fondata dal padre Silvio a Negrar agli inizi del Novecento. Sarà proprio Giuseppe, il più giovane dei figli, a prenderla in mano negli anni Cinquanta, proseguendo il lavoro iniziato dal padre. L’azienda cresce nel rispetto dei metodi di lavorazione tradizionali, arricchiti da alcune importanti scelte evolutive. Negli anni Ottanta, ad esempio, alle varietà tradizionali ne vengono aggiunte altre internazionali come Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, e altre ancora come Nebbiolo e Croatina. Quello che negli anni invece non cambia è la tensione a un’eccellenza senza compromessi, assoluta.

Giuseppe Quintarelli è un uomo semplice e generoso, così altruista da condividere tutti i segreti del proprio mestiere con Romano Dal Forno, rendendolo di fatto il suo successore. Un grandissimo produttore mancato esattamente dieci anni fa, nel 2012, quando la figlia Fiorenza prende in mano le redini dell’azienda insieme al marito e ai figli. Diverse le etichette, tutte di monumentale importanza. Tra queste, l’Amarone della Valpolicella Classico spicca come vera e propria bottiglia leggendaria. Parliamo della 2013. L’annata, dal punto di vista climatico, è stata ambivalente. Nella prima parte le piante hanno subito gli effetti di un clima difficile, con temperature basse e frequenti piogge. Nella seconda parte, da giugno in poi, il meteo ha invece virato in direzione opposta, portando alla raccolta di frutti dal grande profilo qualitativo. Si tratta di fatto di una tra le migliori annate per l’Amarone, che molti produttori sono riusciti a tradurre in vini di estrema finezza. Quello di Quintarelli, in particolare, si presenta con un rosso rubino di grande intensità, lasciando presagire fin da subito una materia viva e vibrante. Al naso apre con sentori di potpourri e delinea un tocco di note scure che il palato renderà più evidenti. Il sorso è regale, sontuoso, con la frutta in confettura che lascia spazio prima a sensazioni iodate, poi a richiami sui toni della fava di cacao e della liquirizia. Come in tutte le opere massime, non solo quelle enologiche, è nel finale che si ha la conferma del capolavoro.

di Graziano Nani 09.03.2022

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Tenuta Guado al Tasso: come nasce un’eccellenza

Guado al Tasso è tenuta dalla storia antica che si è profondamente reinventata a partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, diventando una delle realtà più preziose e stimate della prestigiosa DOC di Bolgheri. I suoi vini sono sinonimo di pura eccellenza, amatissimi in Italia e all’estero. Abbiamo chiesto a Marco Ferrarese, che della tenuta è direttore ed enologo, di guidarci alla scoperta della sua storia e della genesi delle sue etichette.

Partirei dal contesto ambientale di Guado al Tasso che, oltre ad essere di una bellezza speciale, è anche estremamente peculiare per quanto riguarda la composizione del terreno e l’esposizione delle vigne. Ce lo può raccontare e ci può spiegare che impronta conferisce ai vini della tenuta?

Tenuta Guado al Tasso ha la peculiarità di abbracciare tutta la variabilità di suoli che questo territorio presenta e che di fatto costituisce una delle sue caratteristiche più importanti. I vigneti si compongono di tre corpi principali: il più importante è quello che si estende a partire dalle pendici delle colline e che si trova in posizione centrale rispetto all’Anfiteatro Bolgherese (così viene chiamata la splendida piana circondata da colline), a metà distanza tra Bolgheri e Castagneto Carducci. È inoltre il luogo dove si trovano gli uffici amministrativi e le cantine. Abbiamo poi alcuni vigneti a nord della DOC vicino al paese di Bolgheri e a sud, sotto la Torre di Donoratico presso Castagneto Carducci.

I nostri ettari vitati sono costituiti da un mosaico di tante parcelle di vigneto diverse, ognuna delle quali suddivisa in base alla destinazione enologica, la quale è strettamente legata alle caratteristiche del suolo, all’omogeneità dello stesso, all’esposizione, all’età delle piante e infine all’esperienza maturata negli anni di vinificazione di quelle uve, che è forse la cosa più rilevante. Ciò fa sì che in ogni parcella di vigneto sia coltivata quella che secondo la nostra esperienza è la varietà che, in quella determinata parcella, è in grado di esprimersi al meglio.

Tutto questo ci aiuta a donare a ciascuno dei nostri vini un proprio stile e una personalità che si ripete negli anni, con le dovute sfumature legate all’annata, e che li rende in qualche modo riconoscibili.

Antinori rappresenta qualcosa di unico nel contesto italiano del vino, sia per la lunga storia che ha alle spalle, sia per il patrimonio enologico rappresentato dalle sue tenute.
 Cosa significa fare parte di una realtà di questo tipo, dove c’è una forte e coerente visione imprenditoriale d’insieme ma allo stesso tempo ogni tenuta ha una chiara e indiscutibile identità? Come si coniuga la singolarità di un progetto con la cornice d’insieme?

Marchesi Antinori è una realtà senza dubbio unica, dove ogni tecnico, pur dedicandosi alla propria tenuta di riferimento, ha l’opportunità di confrontarsi costantemente con tutti gli altri. Così come nelle tenute storiche, di cui fa parte Tenuta Guado al Tasso, anche nelle realtà più giovani si lavora per produrre vini di eccellenza che siano la massima espressione di un’uva coltivata in un determinato territorio. In alcune di queste realtà sono già venuti alla luce dei progetti, mentre in altre c’è chi ci sta ancora lavorando. Questo sprona ognuno di noi al costante miglioramento, che in primis è legato alla qualità dei vini. Ma nel seguire un’azienda agricola sono tanti gli aspetti da considerare per essere ritenuti “bravi tecnici”, e in questo l’avere dei confronti interni diretti e chiari non è cosa da poco per la crescita sia personale che dell’azienda alla quale si fa riferimento. La particolarità di ogni nuovo progetto, secondo me, viene fuori in maniera si può dire naturale, perché ogni tecnico ci mette del suo e soprattutto perché ogni territorio ha le sue peculiarità. Una cabina di regia ovviamente esiste ed è rappresentata dalla famiglia Antinori e da Renzo Cotarella che, oltre a essere l’Amministratore Delegato dell’azienda, è anche a capo dell’enologia. E questo serve in primo luogo a garantire che lo stile di ogni vino, dai nuovi agli storici, sia quello desiderato dalla famiglia.

Una cosa che in qualche modo mi sorprende di quest’azienda è che, pur avendo come dice lei una lunga storia, conserva un approccio al lavoro che per certi aspetti è simile a una start-up, e questa è una cosa che mi entusiasma.

Parlando dell’identità di Guado al Tasso: la sua storia è antica, legata alla famiglia Della Gherardesca e non solo a quella degli Antinori, ma la tenuta così come la conosciamo oggi deve la sua fama e il suo prestigio ai vini che avete iniziato a produrre a partire dagli anni Novanta. Cosa è successo in quegli anni e cosa è cambiato a livello produttivo e di filosofia aziendale per portare a vini come l’omonimo Guado al Tasso, Il Bruciato, il Matarocchio?


Quello che cambiò tutto alla fine degli anni ’80 fu la decisone del Marchese Piero di produrre il “suo” vino rosso a Bolgheri. Fino a quel momento infatti Antinori commercializzava il Sassicaia che, anche se fatto dal suo enologo Giacomo Tachis, era di proprietà dello zio Mario Incisa Della Rocchetta. Le strade si separarono nel 1989 e nel 1990 nasce la prima annata di Guado al Tasso. All’epoca l’azienda aveva poco più di 60 ettari vitati, in parte destinati al già esistente rosato Scalabrone. Dal 1995 al 2001 furono destinate risorse importanti volte alla realizzazione di nuovi vigneti arrivando a una superficie vitata di 300 ettari. Da ricordare che sono gli anni in cui vengono inserite le tipologie Rosso, Rosso Superiore e Sassicaia nel Disciplinare della DOC (1994) che prima menzionava solamente le tipologie bianco e rosato, mentre nel 1995 viene costituito il Consorzio di Tutela della DOC. La filosofia aziendale cambia, così come cambia anche quella del territorio che incomincia a crearsi una propria identità.

È per questo che, secondo il Marchese Piero, si sentiva la mancanza un vino all’epoca che potesse far conoscere il territorio di Bolgheri a un più ampio numero di consumatori, mantenendo una qualità importante e allo stesso tempo un prezzo più accessibile. Così nel 2002 nasce Il Bruciato, dalla volontà di raccontare e far conoscere secondo uno stile moderno il terroir unico di Bolgheri. Un vino molto apprezzato fin da subito, che ha avuto un grande successo di pubblico e che rappresenta ancora oggi una porta d’accesso per conoscere Tenuta Guado al Tasso e il territorio che rappresenta. La voglia di sperimentare è nel DNA dell’azienda e c’era da soddisfare un desiderio che il Marchese aveva da tempo; quello di produrre un vino ambizioso, estremamente elegante e di carattere, che fosse la massima espressione di un singolo vigneto e di una singola varietà. Ecco che da un vigneto piantato a Cabernet Franc, in un area a noi già ben nota per la vocazione al Cabernet Sauvignon, si ottiene un vino che ci entusiasma per la sua straordinaria complessità aromatica, energico e allo stesso tempo dotato di una grazia, eleganza e finezza uniche. Nel 2007 questo eccezionale Cabernet Franc sostituisce il Syrah nell’uvaggio del Guado al Tasso, determinandone l’inizio di un nuovo stile, e in parte viene imbottigliato in purezza per verificarne l’evoluzione in bottiglia. Beh, dopo 2 anni in cantina, quelle bottiglie diventarono la prima annata di Matarocchio, un vino che ancora oggi esce solamente nelle annate eccezionali e sempre in una quantità limitata di bottiglie, tutte numerate.

Per il Guado al Tasso e il Matarocchio, lavorate in maniera parcellizzata, vinificando e in parte affinando separatamente ogni singola parcella. Solo in una fase successiva viene definito quello che voi chiamate “masterblend”, ci può spiegare in cosa consiste, il perché di questa scelta e cosa comporta dal punto di vista delle pratiche in cantina?

Partiamo da un presupposto basilare: in natura non ci sono certezze assolute per cui se ripeti le stesse cose ogni anno hai lo stesso risultato. Ci piacerebbe ma non è così purtroppo! Quindi è per questo che in ogni parcella di vigneto per Guado al Tasso e Matarocchio, pur facendo le cose nel migliore dei modi, con un approccio artigianale volto alla massima qualità e attento al minimo dettaglio, abbiamo bisogno di un po’ di tempo per valutare il risultato. Questo significa mantenere separati i singoli vini, lasciandoli ad affinare in barriques per almeno 3-4 mesi.

Solamente dopo questo periodo abbiamo le condizioni ideali per poter selezionare i lotti da utilizzare nel “masterblend”. Non è sempre stato fatto così; per molti anni abbiamo effettuato l’assemblaggio solamente alla fine dell’affinamento poiché avevamo necessità di conoscere fino in fondo le potenzialità di ogni parcella. Adesso che il know how in tenuta è maggiore, possiamo anticipare l’assemblaggio e lavorare più nel dettaglio con un altro determinante fattore che va ad incidere sullo stile ed evoluzione dei nostri vini ovvero la scelta delle giuste barriques. Scelta che è strettamente influenzata dalle caratteristiche dell’annata, la quale ci condiziona nella scelta del livello di tostatura, della stagionatura delle doghe, della grana, dello spessore, ecc.

Il Matarocchio è un Cabernet Franc in purezza. Leggevo sulla cartella stampa che, all’epoca dei primi esperimenti, è stata per certi versi una sorpresa vedere quanto bene questo vitigno riuscisse a esprimersi sui vostri terreni. Dunque, che carattere ha questo Carbernet Franc, cosa lo contraddistingue?

Si è vero, il Cabernet Franc del Matarocchio è stata una sorpresa perché, pur sapendo che quello era un ottimo terreno per il Cabernet Sauvignon, non immaginavamo che anche il Franc vi si sarebbe adattato così bene. Quello che caratterizza Il Matarocchio, è la spiccata dote naturale che ha il Cabernet Franc di produrre tannini setosi e dolci, abbinati però a un’energia e consistenza insoliti, che ne fanno un vino capace di evolvere splendidamente negli anni mantenendo, proprio perché in purezza, un forte carattere identitario legato sia alla componente aromatica varietale (più o meno enfatizzata a seconda dell’annata) che alla natura del territorio dove nasce con la sua forte componente di solarità, esuberanza e fascino, unici.

L’inizio della trasformazione di Bolgheri in territorio altamente vocato si deve sicuramente alle intuizioni degli anni Quaranta di Niccolò Antinori e Mario Incisa della Rocchetta e alla loro collaborazione. Il sugello a questo lavoro è arrivato nel ’94 con il disciplinare per i rossi e nel ’95 con la nascita del Consorzio per la tutela della DOC. Quanto è stato importante questo passaggio formale/istituzionale per il consolidamento di Bolgheri?

È stato un atto fondamentale perché ha reso possibile l’identificazione di un nuovo territorio in Toscana, andando pian piano a sostituire per i nostri vini la definizione “Super Tuscan” con la quale, in particolar modo all’estero, venivano catalogati i già importanti vini all’epoca prodotti nella zona, senza che però vi fosse, da parte dei consumatori, la cognizione del luogo esatto di produzione.

Dal Trentino alla Sicilia, dai tradizionalisti “solo acciaio e botte grande” ai più innovatori “barriccai”, è incredibile quanto stia prendendo piede l’uso dell’anfora. Indipendentemente dal vitigno e dalla filosofia di cantina, insomma, quest’oggetto misterioso sta comparendo in tutte le cantine… cos’ha di tanto speciale secondo lei? Prevede di integrarne?

Di speciale ha sicuramente il fatto di essere un oggetto antico e quindi questo crea fascino, curiosità e accende l’entusiasmo e la voglia di sperimentare soprattutto a chi desidera distinguersi in qualche modo.
Noi al momento non prevediamo di integrare anfore nel processo produttivo in quanto crediamo che sui nostri vini tecnicamente il migliore materiale per la fermentazione sia l’acciaio inox, e per i rossi l’affinamento per un certo periodo in barriques, scelte con cura e attenzione.

Redazione 16.04.2021

Pasqua da Nord a Sud

“Pasqua con chi vuoi”, recita il detto. Quest’anno saremo un po’ più vincolati del solito nella scelta della compagnia e del luogo in cui trascorrere la festività primaverile. Almeno per quel che riguarda il cibo e il vino, però, per una volta non mettiamoci alcuna limitazione. Anzi, approfittiamo delle celebrazioni pasquali per viaggiare con la mente (e con il palato) portando in tavola ricette e sapori che appartengono alle diverse tradizioni regionali italiane – non per forza quelle più note – con un menu piacevolmente “contaminato”.

E per quanto riguarda gli abbinamenti nel calice? Anche in questo caso, il suggerimento è di andare oltre la logica territoriale per spaziare liberamente dal Trentino alla Sicilia, lasciandoci guidare dal gusto e dalla voglia di bere bene. Partiamo dagli antipasti. Non può mancare un assaggio della gustosa “pizza” al formaggio della tradizione umbra, un soffice lievitato insaporito dall’abbondante presenza di formaggio (pecorino e altri) da accompagnare magari con una fetta di salame o di capocollo. Per iniziare alla grande, con un brindisi benaugurale, consigliamo di versare l’Annamaria Clementi di Ca’ del Bosco (versione brut o rosè): una bollicina avvolgente ed elegante che al naso ricorda frutta bianca e note mentolate e in bocca si rivela piena e ricca, con un perlage fine ma presente. I suoi nove anni di affinamento sui lieviti si avvertono nel gioco tra freschezza e profondità che invita a un nuovo assaggio, contrastando piacevolmente l’opulenza della pizza e dei salumi.

Arriva dal Veneto la ricetta dell’insalata pasqualina che apre tradizionalmente il pranzo della Domenica di Resurrezione: inaspettatamente ricca, affianca la delicatezza di lattuga, asparagi e gamberetti alla presenza più decisa della salsa a base di tuorli, olive verdi, aceto, vino, erbe aromatiche e olio extravergine d’oliva. Senza allontanarci troppo geograficamente, possiamo aprire lo Chardonnay Löwengang di Alois Lageder (versione magnum o doppio magnum): di un bel colore giallo dorato, al naso si esprime con note di pesca e fiori gialli con un accenno di tè nero. In bocca è snello, con sentori di fiori e vaniglia e qualche nota fumé nella chiusura sapida. Come primo piatto, tra una minestra maritata di origine campana e un timballo di riso all’abruzzese, noi propenderemmo per le lasagne verdi della tradizione emiliana, che con il colore della sfoglia (dovuto all’aggiunta di spinaci, oppure di ortiche) trasmettono allegria e un senso di primavera solo a guardarle. Farcite con ragù e besciamella, all’assaggio rivelano il loro carattere grasso e strutturato e richiedono una “spalla” adeguata: per esempio il poderoso Gewürztraminer Konrad Oberhofer Vigna Pirchschrait di Hofstätter. Un vero gioiello enologico dell’Alto Adige, affina per ben 10 anni sui propri lieviti in botti da 500 litri. Straordinariamente ampio, al naso si avvertono note di fiori di zagara, crosta di pane e frutta matura. Il sorso è importante, con freschezza e mineralità che viaggiano insieme per un lungo finale.

Dal vicino Trentino arriva un’idea per un secondo piatto che interpreta in modo diverso dal solito la carne ovina, un grande classico – insieme al capretto – delle tavole pasquali. Nella regione del Nord Italia si preparano le gustose polpette di agnello: profumate dall’aggiunta di erbe e cotte al forno, hanno un sapore delizioso ma non invadente. Cerchiamo quindi un rosso “di montagna”, intenso ma dotato di buona freschezza, e anziché guardare alle Dolomiti planiamo sulle pendici dell’Etna – “A Muntagna” siciliana per eccellenza – dove, da uve Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Alicante e Francisi, nasce il Profumo di Vulcano di Federico Graziani. Il nome racconta l’essenza di questo vino: al naso si avvertono frutti rossi ed erbe aromatiche. In bocca è morbido, con un accenno di alcol e il tannino presente ma perfettamente integrato. Sul finale torna la frutta rossa con un bel sottofondo minerale.

Gioca su un carattere decisamente più robusto e strutturato la ricetta abruzzese della pecora alla Neretese, cucinata in umido con pomodori, chiodi di garofano e peperoni fritti. Abbastanza per chiamare in causa uno dei “re” dell’enologia toscana, il Brunello. Per esempio il Tenuta Nuova di Casanova di Neri (standard o magnum): dal naso intenso di frutti rossi arricchito da note balsamiche; in bocca è corposo, con un tannino importante ma che già si lascia apprezzare. Dal profilo fruttato con una bella progressione sapida, chiude su leggere note di spezie.

Ottima scelta anche il Brunello Campo del Drago di Castiglion del Bosco(standard o magnum); dal naso leggiadro, molto floreale e con note di frutta che sembra quasi fresca, con qualche accenno fumé, in bocca è saporito, con dei tannini presenti ma morbidi, mentre ritorna la frutta la cui freschezza lo accompagna per tutto il sorso.

Arrivati al dolce, potremmo pensare di sostituire l’immancabile colomba lievitata – che è buonissima anche se mangiata prima o dopo Pasqua – con dei dolci dall’impronta più casereccia. In Toscana, ad esempio, si prepara la schiacciata (o ciaccia) livornese, altro soffice dolce lievitato profumato dall’aggiunta di semi di anice. Quest’ultimo potrebbe rendere arduo l’abbinamento con un vino dolce, eppure se la scelta ricade sull’8’9’10 di Gravner il problema non si pone: a base di Ribolla gialla in purezza, è un vino che nel bicchiere brilla di luce propria. Avvicinando il naso sembra di entrare in pasticceria, tra note di canditi, frutta secca di ogni tipo, zafferano e resina. In bocca è suadente come un elisir: la dolcezza, la frutta, le spezie e una bellissima nota salmastra accompagnano il sorso verso un finale lunghissimo e indimenticabile.

Viene dalla Calabria, infine, la ricetta delle nepitelle (o pitte co niepita): friabili mezzelune di pasta frolla farcite con confettura d’uva, cacao, frutta secca e un’erba locale che ricorda la menta. Provate ad accompagnarle con il Vin Santo Occhio di Pernice di Avignonesi: tra i vini dolci più importanti d’Italia, già dal nome regala l’idea di qualcosa di prezioso. Si avvertono immediatamente note di frutta secca, cuoio e cacao e molte altre spezie, come se si annusasse un ottimo panpepato. In bocca la sua imponente dolcezza è mitigata da straordinaria freschezza e sapidità, tutto intrecciato in una finissima trama tannica che invoglia nuovamente alla beva. L’ideale per trascorrere un pomeriggio in piena serenità dopo un lauto pasto.

– Luciana Squadrilli 26.03.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

L’eroe della Toscana, il Sangiovese

Quanto amiamo la Toscana, terra d’ingegni arditi, dove ogni paesaggio sembra un dipinto, ogni calice di vino un’opera d’arte. Camminare la terra toscana, significa mettere i piedi nella storia dell’enologia, passeggiando dov’è nato il mito del Brunello, del Chianti Classico, del Nobile di Montepulciano e dei più recenti Supertuscan. Tutte queste denominazioni hanno in comune un vitigno, il Sangiovese, l’eroe incontrastato del Granducato di Toscana. Ma non si può fare di tutti i Sangiovese un fascio, sia ben chiaro.

Sono molti i Sangiovese, o meglio i cloni, esattamente come lo sono i nomi con cui è chiamata localmente quest’uva. Il nome autoctono più celebre è senza dubbio proprio “Brunello”, ma l’elenco è pressocché infinito, quanto curioso: Morellino, Calabrese, Negretta, Nerina, Prugnolo Gentile, Primaticcio, Pignolo, Uva Abruzzi, Tignolo, Sangioveto, San Zoveto, Sangiovetino e così a seguire per pagine intere. Il vitigno è presente anche in Romagna, dove ha avuto meno successo storico-commerciale, ma dalla cui terra nascono oggi dei rossi da Sangiovese di grande potenza.

Il nostro eroe, il Sangiovese, in Toscana specie in passato, veniva distinto in Grosso per la produzione di Brunello e Vino Nobile di Montepulciano, e in Piccolo utilizzato nel resto delle produzioni. Oggi questa differenza non è più strettamente tenuta in considerazione, ma ci si riferisce ai singoli cloni creati nei vivai, o alle selezioni massali dei produttori, come quello di Biondi Santi. Proprio nella fattoria Il Greppo della Biondi Santi nasce il rosso toscano più famoso della storia, il Brunello di Montalcino. Si devono a Clemente Santi quei singolari esperimenti di vinificazione, che portarono nel 1865 alla presentazione al pubblico della prima bottiglia di Brunello. Un nome iconico scelto all’epoca per celebrare la sua uva a bacca nera, denominata dai contadini proprio “brunello”. Questo celeberrimo rosso toscano è oggi tutelato da un rigido disciplinare di produzione, che prevede una resa massima di 80 q.li/ha, l’immissione in commercio a partire dal quinto anno dopo la vendemmia, un affinamento di non meno di due anni in botte di legno e di almeno altri quattro mesi in bottiglia.

Ogni anno nel mese di gennaio una speciale commissione di degustazione, composta da 20 tecnici di Montalcino, assaggia i campioni dell’annata in corso conferendo delle stelle qualitative, da una a cinque. Tra le annate considerate eccezionali, che si sono meritate il massimo di stelle previsto, ci sono la 1995, la 2006 e la 2012, delle bombe per serbevolezza, profumi ed evoluzione. La storica e pluripremiata annata 1995 di Biondi Santi, in particolare, oltre a rientrare tra le migliori per il Consorzio, e ad aver ottenuto ben 97/100 da Wine Spectator, è quella che per volere della proprietà è rimasta più a lungo ad affinare nella cantina del Greppo, addirittura fino al 2019!

Tra le denominazioni che vantano una storia antica e gloriosa c’è quella del Chianti Classico prodotto con Sangiovese in purezza o in blend con l’80% minimo di Sangiovese, più un 20% massimo di altri vitigni a bacca rossa. Per la Riserva occorrono 24 mesi di invecchiamento, mentre per la Gran Selezione non meno di 30, di cui 3 mesi in bottiglia. Nel cuore del Chianti Classico, ossia della zona più antica di produzione di questo vino, c’è un vino entrato nel mito, al punto tale da essersi emancipato dalla denominazione nel 1981 per scegliere una propria strada produttiva. Ci riferiamo al Pergole Torte di Montevertine, il primo Sangiovese in purezza vinificato nel 1977 nella zona di Radda in Chianti, le cui etichette da collezione create dall’artista Alberto Manfredi sono diventate famose al pari del vino stesso. Raffinato al naso, con quelle pennellate olfattive ritmate, che cambiano nel calice istante dopo istante, dal pepe, ai chiodi di garofano, dall’arancia sanguinelle al cacao, questo vino rappresenta con eleganza tutte le potenzialità dalla zona, emancipandosene con classe. Nessuna sfida col Chianti Classico, sono prodotti affini, ma diversi, ognuno con propria straordinaria dignità.

Tornando proprio al simbolo del territorio e della Docg, il Gallo Nero riportato su tutte le bottiglie di Chianti Classico, il cui emblema rappresenta l’antica Lega Militare chiantigiana, c’è una curiosa leggenda che aleggia da secoli sulla sua nascita. Sembra che per porre fine alle contese di territorio tra le Repubbliche di Firenze e Siena, che si combattevano sanguinosamente per strappare una zolla di terra l’una all’altra, fu escogitata una disfida tra due cavalieri. Entrambi, partiti dai rispettivi territori al canto del proprio gallo, di piumaggio bianco per i senesi, nero per i fiorentini, avrebbero fissato il confine tra le due Repubbliche nel loro punto d’incontro. La beffa fu ordita dagli astuti fiorentini che lasciarono il povero gallo nero a digiuno per molti giorni, inducendo il povero pennuto a cantare non appena liberato, con largo anticipo rispetto al gallo senese. Questo escamotage permise al cavaliere fiorentino di partire per primo, segnando a Fonterutoli il confine tra le due Repubbliche, ad appena 12 chilometri da Siena.

Supertuscan è un termine usato per la prima volta da Nicholas Belfrage, giornalista e Master of Wine. C’è un nome che rappresenta una seconda via a questi vini, che crearono all’epoca un vero e proprio spartiacque tra il prima e il dopo. Parliamo del Tignanello di Marchesi Antinori, prodotto a partire dagli anni Settanta con un blend di Sangiovese e Cabernet Sauvignon e inizialmente con l’aggiunta di una piccola parte di uve bianche. Giacomo Tachis, enologo di straordinario talento, fu determinante, per la nascita di questo celeberrimo vino, assieme a Piero Antinori. Nel 1975 le uve bianche furono definitivamente abbandonate e nel 1982 il blend del Tignanello divenne quello che ancora oggi conosciamo – Sangiovese (80%), Cabernet Sauvignon (15%) e Cabernet Franc (5%) – e che matura per 14-16 mesi in barrique francesi e ungheresi di primo e secondo passaggio. L’annata 2017 ha una componente di aromi fruttati molto evoluti, quasi masticabili, dove vince la marasca rispetto all’usuale ciliegia rossa.

Anche il Vino Nobile di Montepulciano è figlio del Sangiovese. In questo paesino a 25 chilometri da Siena, Montepulciano, si produce il vino dal tempo degli Etruschi. Il successo del Nobile, tuttavia, è ben più recente. Citato persino da Voltaire nel suo Candide nel 1759, il Nobile assurge alla fama, quando diventa il rosso preferito dall’aristocrazia. Dall’Ottocento il Chianti ne prende il posto nelle Corti e occorrerà aspettare fino agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, per vederlo tornare in auge.

Quel vitigno “morello”, infine, con cui si fa il Morellino di Scansano è ancora il nostro eroe, il Sangiovese, i cui vigneti circondano le colline di Scansano, in provincia di Grosseto. In questa terra il Sangiovese trova un’evoluzione leggermente più rapida, rispetto ai cugini del nord della Toscana, tanto da dare vini mediamente più pronti e rotondi in meno tempo.

Siete dunque pronti a sfidare il nostro eroe? Lui vi attendere in cantina con la nobiltà e lo stile di un vero cavaliere. Cin cin!

di Giordana Talamona 11.11.2021

Giordana Talamona, giornalista specializzata in enogastronomia e consulente wine&food, collabora con testate di settore e lifestyle come La Wine, Bubble’s, The Italian Wine Journal, Style.it del Corriere e Life Style Made in Italy Magazine. Per dare solidità alla sua preparazione è diventata sommelier, qualifica che le ha permesso di tenere degustazioni guidate, corsi di avvicinamento al vino per scuole di cucina e di organizzare tasting per il lancio di prodotti con la stampa come PR.

Quando l’etichetta è un’opera d’arte

In principio fu il Barone Philippe de Rotschild. Arrivato nel 1922 alla guida del domaine Mouton Rothschild, il giovane aristocratico, nel 1924, commissiona al celebre illustratore Jean Carlu l’etichetta per lo Château Mouton di quell’anno. L’iniziativa rimane un esperimento isolato fino al secondo dopoguerra, quando il Barone decide di far diventare le etichette firmate da artisti di fama mondiale una consuetudine, con il doppio obiettivo di costruire un’identità visiva forte e originale e di rendere ancora più speciale – se possibile – un vino già di per sé mitico.

Joan Miró, Marc Chagall, George Braque, Pablo Picasso, Francis Bacon, Salvador Dalí, Balthus, Jeff Koons, David Hockney, Gerhard Richter, William Kentridge, Annette Messager: sono solo alcuni dei grandi nomi che, dal 1945 a oggi, hanno collaborato con il domaine, creando in assoluta libertà piccole opere d’arte che celebrano il vino in tutte le sue sfaccettature. Se al Barone de Rotschild spetta il titolo di precursore di questa peculiare forma di mecenatismo, in seguito sono state tante e a tutte le latitudini le cantine che hanno voluto legare l’identità delle loro bottiglie a progetti artistici capaci di raccontare, meglio di molte parole, il carattere di un vino e le suggestioni che può trasmettere.

Limitandoci agli esempi italiani, è impossibile non ricordare la bella storia delle etichette disegnate da Alberto Manfredi per Le Pergole Torte di Montevertine, un Sangiovese in purezza nato nel 1977 dalla passione di Sergio Manetti e destinato a cambiare il panorama del vino toscano. Nel 1981 Manetti – ex imprenditore siderurgico trasformatosi in vignaiolo – conosce Manfredi e dalla loro assidua frequentazione nasce l’idea di un’etichetta disegnata ad hoc per l’annata 1982. Quel volto di donna tratteggiato nell’inconfondibile stile dell’artista emiliano conquista il pubblico, tanto da convincere i due amici a proseguire su questa strada e a realizzare ogni anno un’etichetta diversa ma sempre caratterizzata da un viso femminile. Fino al 1988 solo una parte delle bottiglie delle Pergole Torte si fregia di questa etichetta speciale ma successivamente Manetti decide di utilizzarla su tutta la produzione. Questa storia di amicizia e di amore per il vino continua fino alla scomparsa – avvenuta nel 2001 – di Manetti e Manfredi. L’ultima annata interpretata da quest’ultimo è, dunque, la 1998, ma da allora in poi, per desiderio degli eredi di entrambi, ogni nuova annata di questo splendido vino è caratterizzata da un’etichetta che riproduce un’opera del maestro, scelta fra quelle presenti nei vasti archivi delle due famiglie.

Piero Cascella, Mino Maccari, Pier Paolo Pasolini, Robert Cottingham, Wayne Thiebaud: sono solo alcuni dei grandi artisti che hanno firmato le Etichette d’Autore di Vietti, nate dalla passione per l’arte contemporanea di Alfredo Currado.

Nel 1974, Currado decide di portare un po’ di questa passione in cantina, chiedendo ogni anno ad un’artista diverso di interpretare il vino di quella particolare annata e legando, dunque, inscindibilmente l’opera creata a quel millesimo. Si tratta di bottiglie a tiratura limitata sulla base del numero complessivo prodotto e le prime cento sono firmate dall’artista. Dal 1988 – quando viene presentato il Barolo Riserva Villero 1982 – la famiglia Currado decide di associare il progetto artistico esclusivamente a questo vigneto e al suo iconico vino.

Iniziativa più recente e di grande respiro è la Vendemmia d’artista di Ornellaia, che – dal 2009 – celebra ogni nuova annata, commissionando a un grande artista sia un’opera destinata alla tenuta di Bolgheri, sia un’etichetta, entrambe ispirate al carattere dell’annata stessa.

L’etichetta è pensata soprattutto per fare la gioia dei collezionisti di arte e di vino; si trova, infatti, solo su una delle sei bottiglie che compongono una cassa di Ornellaia e su 111 bottiglie di grande formato, firmate e numerate dall’artista. Questi formati speciali vengono in seguito battuti all’asta e il ricavato raccolto viene devoluto, ogni anno, a Mind’s Eye, il progetto della Guggenheim Foundation che aiuta le persone con disabilità visive ad avvicinarsi all’arte grazie l’uso di tutti i sensi.

Nel 2020 (annata 2017) l’artista scelto per Vendemmia d’artista è stato Tomàs Saraceno. Aspettiamo, come sempre con grande curiosità, la prossima tappa di questo percorso artistico. In alcune circostanze, infine, il connubio vino e arte assume anche connotazioni fortemente solidali, come è accaduto nel 1997, quando tutti i produttori di Montalcino hanno dato il loro contributo a un’iniziativa benefica a favore delle popolazioni di Umbria e Marche, colpite dal sisma di quell’anno. Tutte le cantine del Consorzio del Brunello hanno messo a disposizione una parte del proprio vino per uno stock di 8994 bottiglie vendute en primeur per raccogliere fondi a favore dei terremotati. Bottiglie da collezione per più di un motivo: il 1997 è considerato la migliore annata del secolo scorso e, a supporto dell’iniziativa, Fernando Botero per la prima volta ha concesso la riproduzione di una propria opera (Il ratto di Europa) in un contesto simile. Le bottiglie sono state ritirate dagli acquirenti nel 2002, anno di presentazione dell’annata.

Redazione 22.02.2021

 

Bottiglie preziose: come conservarle a regola d’arte

È tra i temi più “caldi” del vino, anche se il caldo fa male al vino! Giochi di parole a parte, quello della conservazione è davvero uno degli argomenti più dibattuti da chi si avvicina a questo mondo affascinante.

Quanto dura un vino, ma soprattutto come conservarlo sono domande classiche, dalle risposte non del tutto scontate. Già chiedersi quanto duri un vino è di per sé sbagliato, non tanto per la curiosità legittima, quanto perché la domanda è mal posta. Ogni vino ha caratteristiche differenti, che gli conferiscono una potenzialità di affinamento in bottiglia completamente diversa. Non a caso l’AIS (Associazione Italiana Sommelier) usa termini che si ispirano a quelli dell’età dell’essere umano per definire lo stato evolutivo di un vino: immaturo, giovane, pronto, maturo e vecchio. Per tornare alla nostra domanda iniziale, dovrebbe essere posta chiedendosi quale sia l’evoluzione di un vino specifico, con tanto di denominazione e nome della cantina. Esistono fattori, infatti, che incidono enormemente sulla sua potenzialità, a partire dal vitigno, dalla vendemmia, dall’annata, e dal tipo di maturazione in cantina (acciaio, anfora, legno). Non dimentichiamo, quindi, che il vino è un alimento “vivo”, che cambia nel tempo con una curva di evoluzione massima, che non dovrebbe mai arrivare alla vecchiaia.

È un meraviglioso gioco quello acquistare svariate bottiglie della stessa annata importante e di goderne l’evoluzione aprendole anno dopo anno. Si può osservare come cambia il colore, come i profumi al naso diventino più evoluti, sconcertati dal fatto che quelle rosa fresca, segnata sul taccuino di degustazione, in pochi anni sia diventato un pot-pourri di fiori secchi, o che quel tannino ruvido sulla lingua, sia oggi una carezza avvolgente.

Giocare con l’invecchiamento del vino è tuttavia rischioso, perché quelle bottiglie che abbiamo scelto con cura e atteso con trasporto emotivo, potrebbero rovinarsi irrimediabilmente se non conservate correttamente. Facile, tra l’altro, che tale deterioramento non sia immediatamente riconoscibile dai nostri sensi: un vino può invecchiare male ma non diventare necessariamente cattivo, solo non lo stiamo gustando al massimo delle sue potenzialità.

L’ambiente nel quale viene riposto il vino può fare la differenza, anche per questo occorre capire con onestà intellettuale se la cantina di casa soddisfi certe caratteristiche. La temperatura è tra i fattori fondamentali per la corretta conservazione del vino. L’evoluzione di una bottiglia è alterata, nel suo naturale processo ossidativo, da temperature inferiori ai 10 gradi centigradi e superiori a 16°: ecco dunque definito il range di temperatura di una cantina benfatta. Sono molto pericolose le rapide oscillazioni della temperatura stessa, le peggiori quelle nell’arco di 24 ore, perché è proprio lo sbalzo termico a rovinare il nostro pregiato nettare. Anche per questo sarebbe bene avere una cantina interrata di diversi metri, meglio se costruita con pareti di pietra, che mantengono la naturale coibentazione.

Altrettanto importante è l’umidità. In una cantina casalinga è difficilissimo avere l’esatto standard di umidità compreso tra il 60% e l’80%. Un’umidità più bassa di questa percentuale tende a seccare i tappi di sughero, una più alta può portare alla proliferazione delle muffe. Sono in commercio dei deumidificatori che possono aiutare a stabilizzare l’umidità, ma bisogna dire, onestamente, che mantenerla stabile in una cantina moderna, spesso non interrata, è davvero un’impresa titanica.

La cantina un tempo era il luogo in cui si riponevano i salami e le caciotte appese. Se siete di quelli che ancora lo fanno, non usatela per il vino, perché attraverso il sughero potrebbero penetrane odori sgradevoli. Anche le bottiglie più pregiate, tappate con un sughero monopezzo di altissima qualità, potrebbero risentirne pesantemente. Ragione di più che le caldaie o i bruciatori dovrebbero stare lontani anni luce dalle vostre pregiate bottiglie. A proposito di luce: anche l’illuminazione dev’essere scelta con cura, utilizzando possibilmente delle lampade schermate di bassa intensità. Sconsigliati i classici neon, che forniscono una luce troppo forte per il corretto invecchiamento di una bottiglia. La luminosità eccessiva danneggia il vino accelerandone l’ossidazione, anche per questo per molti bianchi, più suscettibili alla luce, i produttori si orientano su bottiglie scure. Le lampade inoltre producono calore, quindi meglio utilizzare delle luci al LED. Non ultimo le vibrazioni leggere e costanti possono portare a un rapido deterioramento del vino.

Anche la scaffalatura dev’essere pensata in maniera furba, alloggiando il maggior numero di bottiglie in orizzontale. La ragione è legata alla classica e tradizionale tappatura col sughero, mantenuto umido a contatto col vino per conservarne l’elasticità.

Tornando alla prima domanda mal posta, quanto dura un vino, c’è anche un fattore, in ultima battuta, che spesso viene sottovalutato, ed è proprio il tipo di tappo. È chiaro che un grande Brunello di Montalcino o un Barolo saranno quasi certamente chiusi con un pregiato tappo di sughero monopezzo, il cui prezzo può superare anche l’euro. Più il sughero è di buona qualità, più manterrà l’elasticità sulle pareti della bottiglia, evitando uno scambio troppo violento tra vino e ossigeno esterno. Esistono poi in commercio svariate quantità di tappi, tutti indicati per vini diversi, pensati anche per risolvere l’annosa questione della molecola TCA, responsabile dell’odore di tappo. Il tema più interessante emerso ormai anni fa, anche a seguito ad alcune ricerche fatte, è legato proprio alla tenuta del tappo. In particolare, una ricerca dell’Old Bridge Cellars Australian Wine Research Institute, durata 125 mesi, ha chiarito come la chiusura col tappo a vite Stelvin sia quella in grado di conservare meglio il vino a lungo termine.

Ne avevamo già parlato qui qualche tempo fa: dire a un italiano di utilizzare questo tappo per un grande vino da invecchiamento è un po’ come insultare la mamma. Senza prendere posizioni, però, c’è un dato di fatto, cioè che all’estero questa chiusura è molto apprezzata, anche per vini importanti, come i grandi Riesling o gli Chablis del Domaine Laroche. Ora che sapete tutto sulla conservazione del vino, il consiglio migliore che possiamo darvi è questo: dimenticatevi quello che avete appena letto, pensate a un menù importante, scendete in cantina, prendete tra le mani uno dei vostri amati vini e con cura e metodo (specie se la bottiglia ha qualche decennio), stappatela e godetevela!

E se avete paura di commettere degli errori nella stappatura di una preziosa bottiglia di 20 o 30 anni, vi spieghiamo la prossima volta come si fa.

Redazione 09.02.2021

I passiti secchi tra grazia e maestosità

Quando si parla di passiti il primo pensiero va spesso a vini dolci nati da un processo di appassimento. Esistono però casi di vini passiti secchi, ovvero privi di residuo zuccherino o quasi. I due esempi italiani più noti sono quelli dell’Amarone della Valpolicella e dello Sforzato di Valtellina, accomunati da un processo produttivo del tutto analogo e da un impatto nel bicchiere altrettanto assimilabile. Il punto cardine è quello dell’appassimento dell’uva, con perdita di peso e relativa concentrazione che vanno a elevare in potenza struttura e forza espressiva, oltre a incrementare il tenore alcolico. Esiste però un tema ulteriore legato a trasformazioni profonde che avvengono nell’acino e vanno oltre la perdita d’acqua e la concentrazione degli zuccheri.

Durante le fasi di appassimento, infatti, acidi e polifenoli partecipano a una serie di trasformazioni complesse. Determinate classi di composti, responsabili di alcune note complesse come quelle boschive e più genericamente legate alla terra, si attivano specificatamente proprio nell’uva appassita. Senza contare che in molti casi la ricchezza degli acini è ulteriormente accresciuta dall’apporto nobile della botryris cinerea, elemento scatenante e principale responsabile della magia dei vini muffati. Lo Sforzato in particolare viene prodotto in Valtellina dalla lavorazione di uve Nebbiolo, fatte appassire su graticci in fruttai dalla perfetta areazione per circa tre mesi. Il Nebbiolo, in questa vallata, prende il nome di Chiavennasca, una variante che si esprime in una versione alpina distinguendosi per la spiccata freschezza e mineralità. Se i vini valtellinesi si caratterizzano dunque per il loro profilo sottile, lo Sforzato, con il suo vigore, ne rappresenta il nobile contraltare, tanto da creare spesso più di un interrogativo per quanto riguarda gli abbinamenti. Selvaggina? Brasati? Formaggi a pasta dura? Tutte strade percorribili, purché il piatto abbia sufficiente struttura per “reggere” l’accostamento.

Discorsi del tutto simili valgono anche per l’Amarone, il vino icona della Valpolicella. Strepitoso caso di serendipità, è infatti soprannominato “Recioto Scapà” proprio perché deve la sua scoperta alla disattenzione di un cantiniere. Si narra che alcune botti di Recioto, che infatti è un vino dolce, vennero scordate in fermentazione fino all’esaurimento completo degli zuccheri, dando vita incidentalmente all’Amarone. Le uve storiche con cui viene prodotto sono Corvina, Corvinone e Rondinella, a cui è possibile aggiungere altre uve locali e non.[ La raccolta viene fatta utilizzando cassette da circa 7 chilogrammi, dopo una rigorosa selezione dei grappoli. L’appassimento avviene nei fruttai in collina, dove si sfruttano la buona ventilazione e la scarsa umidità. Il processo, che dura tra i tre e i quattro mesi, si può svolgere su stuoie, tavole di legno o sui tradizionali graticci chiamati “arele”. Il risultato è un calo del peso dei grappoli tra il 30% e il 40%. Si procede quindi a una pigiatura soffice, con o senza diraspatura, e a una lunga macerazione, finalizzata alla miglior estrazione di tannini e pigmenti. La fermentazione è lenta e può protrarsi fino a novanta giorni. L’Amarone riposa poi almeno due anni in legno, barrique o comunque botti di rovere. Il risultato è un vino potente e strutturato, caratterizzato da una marcata impronta glicerica e un titolo alcolometrico importante che si attesta in genere tra il 15% e il 16%.

L’Amarone ha saputo ritagliarsi negli anni un palcoscenico internazionale di altissimo profilo e tra i produttori di culto spicca certamente Romano Dal Forno. All’età di ventidue anni, l’incontro con il leggendario Giuseppe Quintarelli segna la via verso una ricerca della qualità assoluta, quasi ossessiva. La versione 2013 dell’Amarone Monte Lodoletta è un monumento di smisurata energia a questa tipologia di vino nella sua espressione più nobile.

Quattro mesi di appassimento, sessanta mesi di barrique, esprime già al naso tutta la sua maestosità con sentori di succo di mirtillo cui fanno da contrappunto le note di cacao amaro. Il sorso è sontuoso, materico, sottilmente terroso. Un polo sul frutto, con la prugna e il lampone in primo piano, un secondo polo su note scure di liquirizia, un terzo polo sui toni caldi del cuoio. La ricchezza di Monte Lodoletta è strabordante e il ventaglio apre ulteriormente su una miriade di altre suggestioni raffinate tra cui spicca il tartufo bianco, punto d’incontro sublime tra lo scuro della terra e il chiaro di sensazioni raffinatissime. E proprio questo caleidoscopio, che apre generosamente a nuove nuance senza soluzione di continuità, porta a pensare che forse il posto giusto per un vino come questo non è tanto accanto a un piatto quanto a fine pasto, per conto proprio. Quando il clangore di piatti e stoviglie lascia spazio al suono dolce delle chiacchiere senza fretta, e il piacere più grande è quello di prendersi tutto il tempo che serve.

di Graziano Nani 21.01.2021

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Benanti: avanguardia etnea

Salvino Benanti, insieme al fratello Antonio, si occupa da alcuni anni dell’azienda agricola fondata dal padre Giuseppe negli anni Ottanta. Dagli inizi fino ad arrivare al nuovo corso inaugurato con il cambio generazionale, abbiamo chiesto a Salvino di ripercorrere la storia di una realtà che ha contribuito in maniera determinante alla rinascita vitivinicola dell’Etna, diventando un punto di riferimento per tutto il territorio.

La vostra è una storia di famiglia ancora prima che aziendale, impossibile quindi non iniziare da qui. Ci racconti come e quando tuo padre ha scelto di occuparsi di vino?

Faccio un piccolo excursus storico: la mia famiglia si è trasferita da Bologna in Sicilia nel Settecento, da allora abbiamo sempre avuto terreni e, in qualche misura, un rapporto con il mondo agricolo. Poi, ai primi del Novecento, il mio bisnonno divenne uno dei primi farmacisti di Catania. L’attività venne portata avanti da mio nonno Antonio, che si inventò, nel vero senso della parola, alcune formulazioni originali nel retrobottega della sua farmacia. Da quelle invenzioni è nata un’azienda vera e propria che ancora oggi esiste e che ha un fatturato molto importante. Ho fatto questa premessa perché, per molti anni l’attività principale di famiglia è stata questa e la campagna e le vigne erano soprattutto una questione di passione e di tempo libero. Solo alla metà degli anni Ottanta mio padre decise di rimettere in attività in maniera seria e meditata la parte agricola.

Quale è stata la molla che lo ha portato a immaginare un progetto come quello della vostra cantina, per molti aspetti visionario per quegli anni sull’Etna?

Credo che, arrivato a un certo del suo percorso, mio padre sentisse la necessità di fare qualcosa di interamente suo, anche se più piccolo rispetto all’azienda farmaceutica. Sicuramente ha avuto ruolo indiretto il suo lavoro, che lo ho portato a viaggiare molto e ad avere una mentalità aperta e cosmopolita. Questa mentalità unita al forte legame affettivo con la terra, gli ha fatto venire voglia di fare qualcosa di altamente qualitativo sull’Etna, sul modello di tante cantine che aveva visitato all’estero. Aveva il desiderio di valorizzare tutto il potenziale che c’era qui ma al quale era sempre mancata una visione imprenditoriale di un certo tipo.

C’è anche un altro aspetto: mio padre per circa vent’anni ha continuato a portare avanti tutte e due le professioni e il fatto di avere alle spalle un solido lavoro imprenditoriale gli ha dato la possibilità di investire e sperimentare, prendendosi tutto il tempo necessario per farlo. Non aveva la necessità di guadagnare da subito come produttore di vino.

A parte l’approccio imprenditoriale che dicevi, rispetto al panorama enologico di quel periodo, cosa ha portato lui che ancora non c’era?

Diciamo che il mondo del vino dell’Etna era molto embrionale all’epoca, c’erano due o tre realtà di grande qualità, che però lui voleva “sfidare”. È stato il primo a puntare con convinzione sulla DOC dell’Etna e sull’internazionalizzazione. E, cosa nuova qui in quegli anni, ha messo in piedi un gruppo di lavoro importante con figure locali di grande esperienza ma anche con consulenti che venivano da fuori, dalla Borgogna e dalle Langhe soprattutto.

Tutti noi, qui, gli dobbiamo qualcosa perché ha avuto un’intuizione e l’ha portata avanti, mosso solo dalla passione. Anche quando gli stessi consulenti gli suggerivano di investire sui vitigni internazionali, mio padre ha sempre insistito perché il focus fosse tutto sui vitigni autoctoni: il Nerello Mascalese, il Nerello Cappuccio e il Carricante. Anche se il disciplinare ammette il Catarratto, che è stato importato dal resto della Sicilia ormai tantissimo tempo fa, noi utilizziamo da sempre come uva a bacca bianca esclusivamente il Carricante perché dal nostro punto di vista esprime una tipicità più marcata e genuina.

Tu e tuo fratello Antonio avete affiancato vostro padre nella gestione della cantina circa una decina di anni fa, per poi subentrare a lui. In questo passaggio di testimone generazionale è evidente una continuità dal punto di vista dei valori e della visione ma ti chiedo anche cosa avete portato di vostro in azienda e che cifra state cercando di imprimerle.

A livello personale, ti direi che abbiamo seguito un percorso simile a quello di nostro padre: arrivati intorno ai quarant’anni, proprio come lui, abbiamo sentito il bisogno di fare qualcosa di diverso, più semplice e più legato alla terra. Abbiamo maturato progressivamente l’idea di dedicarci solo all’azienda agricola e per questo, d’accordo con lui, siamo arrivati alla decisione di cedere totalmente la nostra parte dell’azienda farmaceutica per diventare contadini moderni a tempo pieno, diciamo così.

Per il resto, il momento in cui noi siamo entrati in cantina è molto diverso da quello che ha vissuto papà, che ha iniziato da solo, per molto tempo ha lavorato da solo e ha visto anche la situazione sull’Etna cambiare molto con l’arrivo di nuovi investitori. Noi, invece, siamo arrivati in una fase in cui tutto era molto più definito e venendo da una formazione manageriale è stato per noi relativamente facile analizzare lo status quo e capire dove e come intervenire. Siamo stati aiutati, credo, anche dal fatto di essere meno coinvolti emotivamente, per questo abbiamo potuto fare le nostre valutazioni con una certa razionalità.

Da queste riflessioni e da un lungo periodo di studio sono nate alcune scelte: cedere alcuni terreni e acquistarne altri, ammodernare la cantina con tecnologie più evolute, ripensare il sistema delle nostre etichette e far crescere il nostro enologo. Enzo Calì è in azienda da quando si è diplomato ma prima era affiancato da consulenti, oggi è l’unica figura di riferimento. Adesso, abbiamo una struttura che per noi è quasi quella definitiva e che ci ha permesso di reggere molto bene anche in quest’anno così difficile per via della pandemia.

Dicevi che siete intervenuti sul sistema delle etichette, in che modo?

L’obiettivo è stato quello di dare maggiore intelligibilità al nostro portfolio, che rispecchiava molto il carattere eccentrico di nostro padre. Lui ha iniziato, per inclinazione personale, con vini dal lunghissimo affinamento: Pietra Marina, Serra della Contessa e il suo gemello sul lato Nord, il Rovittello – le nostre icone insomma – sono nati subito. Poiché questi sono vini di nicchia, sia per la loro complessità, sia per una questione di fascia di prezzo, nel tempo, ha ampliato l’offerta con vini più semplici da approcciare. In questo modo, però, si è creata una polarizzazione: da un lato le etichette da beva più semplice per un pubblico più ampio, dall’altro, i vini da collezione, senza nessuna sfumatura in mezzo.

Noi abbiamo cercato di riempire questo vuoto, ripensando contemporaneamente i due poli: abbiamo spinto ancora più su le tre Icone – allungando l’affinamento da tre a cinque anni e facendo diventare riserva il Serra della Contessa e il Rovittello – e abbiamo alleggerito i base (che oggi chiamiamo i Tradizionali) rispetto all’impostazione di nostro padre, che proprio non riesce a concepire vini che non stiano una vita in cantina!

Ora sono più snelli: sono dei vini di grande tipicità, non ruffiani, dove il vitigno emerge con forza e semplicità. Sono anche vini longevi ma chiaramente sono concepiti per uscire ogni anno e per un consumo quotidiano.

La fascia di mezzo è rappresentata dalle Contrade.

Sì, esatto. Sono una sorta di mappa organolettica delle tipicità dell’Etna, perché in questo caso vinifichiamo per zone e quindi osservando la DOC, da nord, est, sud, sud ovest, si incontrano vari vigneti e ognuno produce un rosso o un bianco o a volte entrambi. È una linea che permette di apprezzare – in senso orizzontale – le sensibili differenze fra le diverse zone ed è destinata a crescere nei prossimi anni.

Tornando per un attimo alle due Icone Serra Della Contessa Particella No. 587 e Rovittello Particella No. 341: da qualche anno applicate una sorta di zonazione estrema, perché lavorate su singole parcelle, come riportano anche le due etichette.

Sì, sono vini riserva che provengono da vigne vecchissime, fanno cinque anni di affinamento e sono prodotti in quantità estremamente limitata. Li rilasciamo dal 2015 con l’idea che le persone li comprino non per consumarli subito ma per lasciarli in cantina per almeno altri cinque o sei anni, perché sono vini che si possono apprezzare pienamente quando raggiungono un livello di maturazione elevato. Il nostro desiderio è che il collezionista si possa costruire, progressivamente, la sua personale verticale.

In questo percorso come si inserisce il vostro recente studio sui lieviti indigeni?

Da buon perfezionista e chimico, nostro padre, a un certo, ha ritenuto che fosse giunto il momento di abbandonare i lieviti commerciali in favore di qualcosa di autoctono. Abbiamo suoli così diversi dal resto della Sicilia, per giunta figli di un vulcano ancora attivo, i nostri vitigni sono autoctoni: è un controsenso lavorare con lieviti che possono essere utilizzati per fare qualunque altro vino in qualunque parte d’Italia. Cercavamo un lievito che fosse tanto stabile da assicurare una vinificazione perfetta ma che preservasse le qualità organolettiche dell’uva, senza aggiungere nulla di alloctono. Nostro padre ha progettato lo studio e poi la realizzazione è avvenuta in collaborazione con l’Istituto Regionale della Vite e del Vino.

Come siete arrivati al risultato finale?

È stato tutto molto semplice ma anche meticoloso e scientificamente impeccabile. Siamo andati, a fine fermentazione, nelle cantine dei contadini che ancora producono vino, per recuperare dalle loro vasche di pietra lavica – i tradizionali palmenti – quello che era rimasto sulle pareti. In questo modo abbiamo isolato centinaia di ceppi, che sono stati replicati in laboratorio e successivamente usati per fare micro-prove di vinificazione. Partendo da questo lavoro preliminare, alla vendemmia successiva abbiamo isolato decine di parcelle di mosto e le abbiamo fatte fermentare con lieviti diversi per capire come lo stesso mosto si comportava in differenti situazioni. Al termine di questa lunga fase di test siamo arrivati ad avere solo quattro lieviti, quelli che più ci hanno convinti. Questi sono a tutti gli effetti i nostri lieviti: uno per ognuno dei due Nerelli, uno per il Carricante e uno per i due spumanti.

Abbiamo raggiunto l’equilibrio che cercavamo: una fermentazione impeccabile, non spontanea, che parte, però, da un lievito super indigeno, per avere un vino molto tipico e territoriale. La vinificazione controllata gli conferisce uno stile fatto di eleganza, purezza e discrezione. Vogliamo, infatti, che i nostri non siano vini potenti e esplosivi ma di grande finezza.

Tornando a guardare al territorio, forse la fase più strettamente sperimentale è superata ma senz’altro sull’Etna c’è ancora tanta vivacità. Come vedi il futuro?

Ovviamente la pandemia ha cambiato moltissimo il contesto di riferimento e rallentato la crescita di tutti. Adesso ci aspettano, credo, anni di consolidamento. In prospettiva ci saranno, secondo me, meno piccolissimi produttori e più realtà medio-grandi. Si tratta anche di un passaggio fisiologico, perché alla fine la nostra è una piccola DOC e ci sono già quasi 200 cantine. Per poter affrontare un mercato sempre più competitivo è necessario essere adeguatamente strutturati, dal punto di vista finanziario e da quello dell’approccio: si deve continuare a essere romantici ma non si può più improvvisare, bisogna avere capacità di investire, essere molto coerenti in tutto – nelle piccole e nelle grandi cose – e darsi un orizzonte ampio. Chi ha le spalle più larghe, ha più strumenti per far fronte a tutto questo. E del resto è inevitabile procedere in questa direzione se davvero la nostra DOC si vuole confrontare alla pari con le grandi realtà internazionali.

In tutto questo, la cosa bella dell’Etna è che si è creato una sorta di movimento di giovani produttori, tutti molto appassionati e perbene che credono nel lavoro di qualità e che fanno gioco di squadra. E questo è importantissimo: lavorare non solo per sé ma anche per la valorizzazione dell’intero territorio rende più forti tutti noi.

Redazione 11.01.2021

Cambiamenti climatici: la resilienza delle bollicine di montagna

“Non ci sono più le stagioni di una volta” dice la saggezza popolare, ma modi di dire a parte, il cambiamento climatico è sicuramente un fatto di attualità che costantemente trova conferma nel nostro quotidiano. Il professor Attilio Scienza, docente di viticoltura all’Università Statale di Milano e noto esperto internazionale del settore, lo etichetta come un fatto ormai inconfutabile. Gli studi si sprecano e alcune delle previsioni più allarmanti prevedono che fra cent’anni la Sicilia sarà un deserto e che la Pianura Padana avrà le stesse temperature dell’attuale Pakistan, con tutte le conseguenze del caso. In un mio recente viaggio nel territorio della Mosella tedesca un produttore mi disse che, se quarant’anni fa portare a maturazione perfetta le uve era un’operazione che riusciva due o tre annate ogni decennio, con il nuovo millennio questo accade praticamente a ogni vendemmia senza nessun problema.

Sono tante le conseguenze che questo stravolgimento climatico porterebbe con sé. Il caldo eccessivo conduce inevitabilmente ad un calo dell’uva prodotta, espone la vite ad un maggior rischio di contrarre malattie e forse potrebbe anche portare all’insorgere di alcune nuove patologie nel futuro, a noi ancora sconosciute in campo agronomico. Le alte temperature, soprattutto in fase di vendemmia, creerebbero scompensi dal punto di vista dei profumi del vino portando ad uno sviluppo aromatico incompleto, causato dell’alterazione dei tempi di maturazione, fino al rischio di scomparsa di alcune varietà. Soprattutto quelle con una limitata capacità di adattamento come il Pinot Nero.

Anche la struttura generale dei vini risentirebbe di questi cambiamenti, il profilo organolettico metterebbe in evidenza degli aromi più maturi ed evoluti mentre la struttura, arricchita da un aumento medio dell’alcol, ci riporterebbe ad uno stile ricco e concentrato simile a quello di 20/25 anni fa che da qualche anno abbiamo (finalmente, direi) dimenticato. Ma è tutto così nero? Questo scenario appare decisamente sfavorevole per il produttore ed ancor più per l’appassionato, ma per rincuorarli bisogna dire che la natura ha sempre dimostrato di avere mille risorse e che la vite, nello specifico, evidenzia tra le sue caratteristiche principali la capacità di adattamento come fattore determinante per la sua sopravvivenza. La pianta in parte sa, quindi, compensare questi mutamenti climatici e se aggiungiamo il fatto che l’esperienza dell’uomo porterà (e sta già portando) a un adattamento dei metodi di coltivazione, ecco che tutto ricomincia a prendere colore e che lo scenario riappare improvvisamente meno buio. Anche la tecnologia e la ricerca possono risultare determinanti in questo percorso. La prima può contribuire con lo sviluppo di sistemi sempre più evoluti in termini di prevenzione, ad esempio individuando singolarmente le piante in sofferenza grazie ai droni, oppure portando allo sviluppo di sistemi di irrigazione sempre più evoluti. La ricerca può aiutare, sostiene sempre il professor Scienza, in tanti altri modi: utilizzando sesti d’impianto più distanziati in modo da favorire lo sviluppo in profondità delle radici, delocalizzando i vigneti in zone collinari, nell’entroterra, vicino alle coste o soprattutto in quota.

Non ultima, anche la genetica può risultare utile in questo percorso. Il miglioramento dei portainnesti (che non si sono praticamente più evoluti dai tempi della fillossera) e la selezione di viti più resistenti alle alte temperature e capaci di conservare le acidità nei grappoli nonostante il calore, possono essere aiuti determinanti.

Da trentino, posso testimoniare come negli ultimi anni la scelta di innalzare la quota dei vigneti sia stata una scelta vincente in questo contesto e sia sempre di più la tendenza del momento. L’altitudine è uno dei fattori determinanti per i quali questi scenari introduttivi, che potrebbero spaventare più di un lettore, appaiono meno preoccupanti. La media degli impianti utilizzati per la produzione del Trentodoc supera i 450/550 mt e raggiunge le quote massime poco sotto i 900 mt di elevazione. Qui le escursioni termiche garantite dalle Dolomiti, la grande esposizione ai venti sui ripidi pendii e il clima fresco del periodo di vendemmia sono dei validi alleati ,che si sommano a tutto quanto già raccontato nelle riflessioni precedenti. La produzione del Trentodoc ne è il più chiaro esempio: le uve raccolte in quota presentano aromi ricchi e maturi, le acidità sono perfettamente conservate e permettono di sostenere affinamenti sui lieviti molto lunghi, alle volte superiori alla decina di anni. Ecco quindi che l’appellativo di “bollicina di montagna” si addice perfettamente ai caratteri che il territorio riesce ad imprimere. Parlando di Trentino è impossibile non citare il percorso – storicamente lungimirante e innovativo – di Ferrari: la cantina fondata dal pioniere del Metodo Classico, Giulio Ferrari, già più di cento anni fa aveva intuito il potenziale del nostro territorio e, ormai da tempo, ha certificato la sua produzione come totalmente biologica, sviluppando recentemente impianti nuovi che sfruttano l’elevazione del territorio.

L’esempio virtuoso del Trentino è, naturalmente, solo uno dei tanti che si possono trovare nel panorama produttivo, ma è quello che conosco meglio. Ovviamente la speranza è quella che il riscaldamento del pianeta non continui con il passo degli ultimi anni, che la sensibilità dell’uomo porti alla tutela dell’ambiente – prima – e allo sviluppo di una serie di accorgimenti che ci permettano di assaggiare vini sempre più espressione del territorio, avendo sempre ben chiara la consapevolezza che alla natura non si comanda, se non assecondandola.

– di Roberto Anesi 22.07.2020

Sommelier e ambassador di Trentodoc, Roberto Anesi vive a Canazei, dove si occupa del suo ristorante El Pael. Nel 2017 ha ricevuto il premio come miglior sommelier d’Italia AIS.

Le carte del vino. Atlante dei vigneti del mondo

La storia del vino e la sua geografia in 100 cartine d’autore

Una pubblicazione di Slow Food Editore del 2018 che è già, a suo modo, un piccolo classico per gli appassionati e gli addetti ai lavori. 

Le carte del vino, infatti, è un accuratissimo atlante storico-geografico che racconta la diffusione della vite e dei diversi vitigni nel mondo: dalla Georgia all’Italia, dalla Francia agli Stati Uniti, senza dimenticare la Spagna, l’Uruguay, il Giappone, il Sudafrica e anche luoghi solitamente trascurati dalle mappature come Tahiti o il Kazakistan. 

Un’ampia panoramica attraverso ottomila anni di storia e cinquantasei paesi per ripercorrere, luogo per luogo, la storia dei vitigni e la loro evoluzione, le denominazioni e le caratteristiche essenziali dei loro vini, fino ad arrivare alla situazione del presente, con dati sulla produzione e spunti degustativi. Tutto questo sotto forma di atlante, quindi attraverso cento cartine geografiche splendidamente illustrate. Il libro è firmato da Adrien Grant Smith Bianchi e Jules Gaubert-Turpin, due studiosi appassionati di vino e cartografia che hanno scelto di raccontare il terroir dalla prospettiva delle mappe e della geografia. Le illustrazioni sono del primo, i testi del secondo.

Adrien Grant Smith Bianchi e Jules Gaubert-Turpin, Le carte del vino. Atlante dei vigneti del mondo, 2018, Slow Food Editore

– Redazione 28.07.2020