The Winefully Magazine

ZUCCHERO CHIAMA ZUCCHERO: I VINI DA ABBINARE AI DOLCI DI NATALE.

Le feste natalizie sono uniche anche perché, per molti, è il momento giusto per concedersi qualcosa di speciale a tavola. Salumi particolari, magari quel caviale da gustare una volta ogni tanto, oppure un buon torrone lavorato a mano o un panettone artigianale. Il mondo dei dolci natalizi, in particolare, è decisamente ricco di alternative tra cui scegliere per chiudere un pranzo o una cena a casa.
A volte si tende a pensare che un Brut Metodo Classico, oltre a essere perfetto per aprire il pasto, può essere una buona alternativa anche da abbinare al dessert. La verità è che in questo caso uno spumante può funzionare solo se presenta una certa quantità di residuo zuccherino. Uno spumante demi-sec, ad esempio, ci può stare, perché i suoi zuccheri oscillano tra i 33 e i 50 grammi per litro; così come uno spumante dolce, dove si supera la soglia dei 50 gr/l.
Senza entrare negli aspetti tecnici, è sufficiente tenere a mente una formula molto semplice: dolce chiama dolce. Non si tratta di un principio assoluto ed esistono tante eccezioni, ad esempio quando si parla di cioccolato fondente, ma è una buona regola base. Non solo per evitare accostamenti poco riusciti, ma anche per non sprecare una bottiglia di pregio, magari quel Metodo Classico conservato mesi e mesi in attesa dell’occasione giusta. È un rischio tipico delle feste, e non accade solo con gli spumanti: abbiamo una bottiglia di valore da parte, aspettiamo da tempo l’occasione giusta per aprirla, e presi dall’entusiasmo del clima natalizio non pensiamo all’abbinamento, perdendo l’occasione di valorizzarla come merita. Dunque a fine pasto, per non sbagliare, ricordiamo che si può sempre assecondare la presenza dello zucchero con altro zucchero. Tecnicamente è quello che si chiama abbinamento per concordanza, alternativa all’accostamento per contrapposizione. La formula non riguarda solo gli spumanti, ma tutti i vini dolci. Tra questi, in particolare, ci sono i passiti, di cui l’Italia è ricchissima a tutte le latitudini, dall’Alto Adige a Pantelleria. Si tratta di vini realizzati attraverso la lavorazione di acini appassiti. L’appassimento può avvenire in pianta, con una vendemmia tardiva che innesca un processo di surmaturazione, oppure dopo la raccolta dell’uva, lasciando disidratare gli acini per un certo periodo di tempo. Quello che si cerca attraverso l’appassimento è una maggior concentrazione diaromi e zuccheri, che si ritroverà poi anche nel bicchiere dopo la lavorazione. Per accostare bene un vino a un dessert non basta scegliere un passito qualsiasi. Anche questo tipo di abbinamento richiede qualche considerazione e permette di giocare tra un ventaglio di opzioni e interpretazioni. Un fattore da tener presente è quello della struttura del dolce che andremo a mangiare. Una torta paradiso, ad esempio, ha una struttura molto diversa rispetto a quella di un panforte, decisamente più importante, dove abbiamo tra gli ingredienti il miele, le mandorle, la frutta candita e diverse spezie. Se nel primo caso possiamo optare per un vino delicato, ad esempio un Moscato d’Asti, nel secondo caso la scelta può andare su un prodotto più strutturato, come ad esempio un Vin Santo. Un altro punto da considerare riguarda il livello di dolcezza, ovvero la quantità di zuccheri presenti nella ricetta, perché c’è dolce e dolce. Un plumcake allo yogurt, in questo senso, è molto diverso da una crostata alla confettura di albicocche. Nel primo caso uno spumante leggero da uve Malvasia può essere una buona soluzione. Nel secondo caso invece si può optare per uno Zibibbo passito che arriva dalla Sicilia, dove il clima caldo favorisce la dolcezza degli acini, e conseguentemente del prodotto finale. Continuando con i fattori da tenere a mente quando cerchiamo l’abbinamento giusto per un dolce, possiamo considerare anche la sua aromaticità. Questa può derivare dalle erbe aromatiche previste dalla ricetta, oppure dal profumo intrinseco di uno specifico ingrediente. Un esempio può essere quello, inconfondibile, dei canditi nel panettone, caratterizzati appunto da spiccata aromaticità. In questo caso per l’abbinamento, sempre in una logica di concordanza, si può valutare un vino di
buona intensità. L’intensità, per intenderci, è quel parametro che descrive in termini quantitativi la forza con cui i sentori si esprimono al naso e al palato. Tipicamente presentano grande intensità diversi vini ottenuti da uve aromatiche come Moscato, Malvasia o Gewürztraminer. Proprio quest’ultima è alla base del passito Rechtenthaler Schlossleiten firmato dalla storica azienda altoatesina Hofstätter, ideale appunto da abbinare a un buon panettone. Un Gewürztraminer da vendemmia tardiva di grande spessore, che prende il nome da uno dei prestigiosi cru dei vigneti di proprietà. Caratteristica chiave è la sua sorprendente freschezza, decisamente sopra la media nella categoria dei vini dolci, e fondamentale per evitare di appesantire la fine di pasti che a Natale possono risultare già di per sé impegnativi. Anche il ridotto contenuto di alcol, intorno al 7%, aiuta a delineare un profilo snello ed elegante. Al naso miele ed erbe aromatiche, in bocca albicocche, pere e agrumi canditi. La lunghissima persistenza connota questo Gewürztraminer come la scelta giusta per chiudere in bellezza un pranzo o una cena natalizia, con l’idea di portare con sé il più a lungo possibile il sapore dolce delle feste.

Le feste natalizie sono uniche anche perché, per molti, è il momento giusto per concedersi qualcosa di speciale a tavola. Salumi particolari, magari quel caviale da gustare una volta ogni tanto, oppure un buon torrone lavorato a mano o un panettone artigianale. Il mondo dei dolci natalizi, in particolare, è decisamente ricco di alternative tra cui scegliere per chiudere un pranzo o una cena a casa.
A volte si tende a pensare che un Brut Metodo Classico, oltre a essere perfetto per aprire il pasto, può essere una buona alternativa anche da abbinare al dessert. La verità è che in questo caso uno spumante può funzionare solo se presenta una certa quantità di residuo zuccherino. Uno spumante demi-sec, ad esempio, ci può stare, perché i suoi zuccheri oscillano tra i 33 e i 50 grammi per litro; così come uno spumante dolce, dove si supera la soglia dei 50 gr/l.
Senza entrare negli aspetti tecnici, è sufficiente tenere a mente una formula molto semplice: dolce chiama dolce. Non si tratta di un principio assoluto ed esistono tante eccezioni, ad esempio quando si parla di cioccolato fondente, ma è una buona regola base. Non solo per evitare accostamenti poco riusciti, ma anche per non sprecare una bottiglia di pregio, magari quel Metodo Classico conservato mesi e mesi in attesa dell’occasione giusta. È un rischio tipico delle feste, e non accade solo con gli spumanti: abbiamo una bottiglia di valore da parte, aspettiamo da tempo l’occasione giusta per aprirla, e presi dall’entusiasmo del clima natalizio non pensiamo all’abbinamento, perdendo l’occasione di valorizzarla come merita. Dunque a fine pasto, per non sbagliare, ricordiamo che si può sempre assecondare la presenza dello zucchero con altro zucchero. Tecnicamente è quello che si chiama abbinamento per concordanza, alternativa all’accostamento per contrapposizione. La formula non riguarda solo gli spumanti, ma tutti i vini dolci. Tra questi, in particolare, ci sono i passiti, di cui l’Italia è ricchissima a tutte le latitudini, dall’Alto Adige a Pantelleria. Si tratta di vini realizzati attraverso la lavorazione di acini appassiti. L’appassimento può avvenire in pianta, con una vendemmia tardiva che innesca un processo di surmaturazione, oppure dopo la raccolta dell’uva, lasciando disidratare gli acini per un certo periodo di tempo. Quello che si cerca attraverso l’appassimento è una maggior concentrazione diaromi e zuccheri, che si ritroverà poi anche nel bicchiere dopo la lavorazione. Per accostare bene un vino a un dessert non basta scegliere un passito qualsiasi. Anche questo tipo di abbinamento richiede qualche considerazione e permette di giocare tra un ventaglio di opzioni e interpretazioni. Un fattore da tener presente è quello della struttura del dolce che andremo a mangiare. Una torta paradiso, ad esempio, ha una struttura molto diversa rispetto a quella di un panforte, decisamente più importante, dove abbiamo tra gli ingredienti il miele, le mandorle, la frutta candita e diverse spezie. Se nel primo caso possiamo optare per un vino delicato, ad esempio un Moscato d’Asti, nel secondo caso la scelta può andare su un prodotto più strutturato, come ad esempio un Vin Santo. Un altro punto da considerare riguarda il livello di dolcezza, ovvero la quantità di zuccheri presenti nella ricetta, perché c’è dolce e dolce. Un plumcake allo yogurt, in questo senso, è molto diverso da una crostata alla confettura di albicocche. Nel primo caso uno spumante leggero da uve Malvasia può essere una buona soluzione. Nel secondo caso invece si può optare per uno Zibibbo passito che arriva dalla Sicilia, dove il clima caldo favorisce la dolcezza degli acini, e conseguentemente del prodotto finale. Continuando con i fattori da tenere a mente quando cerchiamo l’abbinamento giusto per un dolce, possiamo considerare anche la sua aromaticità. Questa può derivare dalle erbe aromatiche previste dalla ricetta, oppure dal profumo intrinseco di uno specifico ingrediente. Un esempio può essere quello, inconfondibile, dei canditi nel panettone, caratterizzati appunto da spiccata aromaticità. In questo caso per l’abbinamento, sempre in una logica di concordanza, si può valutare un vino di
buona intensità. L’intensità, per intenderci, è quel parametro che descrive in termini quantitativi la forza con cui i sentori si esprimono al naso e al palato. Tipicamente presentano grande intensità diversi vini ottenuti da uve aromatiche come Moscato, Malvasia o Gewürztraminer. Proprio quest’ultima è alla base del passito Rechtenthaler Schlossleiten firmato dalla storica azienda altoatesina Hofstätter, ideale appunto da abbinare a un buon panettone. Un Gewürztraminer da vendemmia tardiva di grande spessore, che prende il nome da uno dei prestigiosi cru dei vigneti di proprietà. Caratteristica chiave è la sua sorprendente freschezza, decisamente sopra la media nella categoria dei vini dolci, e fondamentale per evitare di appesantire la fine di pasti che a Natale possono risultare già di per sé impegnativi. Anche il ridotto contenuto di alcol, intorno al 7%, aiuta a delineare un profilo snello ed elegante. Al naso miele ed erbe aromatiche, in bocca albicocche, pere e agrumi canditi. La lunghissima persistenza connota questo Gewürztraminer come la scelta giusta per chiudere in bellezza un pranzo o una cena natalizia, con l’idea di portare con sé il più a lungo possibile il sapore dolce delle feste.

ZUCCHERO CHIAMA ZUCCHERO: I VINI DA ABBINARE AI DOLCI DI NATALE.

Le feste natalizie sono uniche anche perché, per molti, è il momento giusto per concedersi qualcosa di speciale a tavola. Salumi particolari, magari quel caviale da gustare una volta ogni tanto, oppure un buon torrone lavorato a mano o un panettone artigianale. Il mondo dei dolci natalizi, in particolare, è decisamente ricco di alternative tra cui scegliere per chiudere un pranzo o una cena a casa.
A volte si tende a pensare che un Brut Metodo Classico, oltre a essere perfetto per aprire il pasto, può essere una buona alternativa anche da abbinare al dessert. La verità è che in questo caso uno spumante può funzionare solo se presenta una certa quantità di residuo zuccherino. Uno spumante demi-sec, ad esempio, ci può stare, perché i suoi zuccheri oscillano tra i 33 e i 50 grammi per litro; così come uno spumante dolce, dove si supera la soglia dei 50 gr/l.
Senza entrare negli aspetti tecnici, è sufficiente tenere a mente una formula molto semplice: dolce chiama dolce. Non si tratta di un principio assoluto ed esistono tante eccezioni, ad esempio quando si parla di cioccolato fondente, ma è una buona regola base. Non solo per evitare accostamenti poco riusciti, ma anche per non sprecare una bottiglia di pregio, magari quel Metodo Classico conservato mesi e mesi in attesa dell’occasione giusta. È un rischio tipico delle feste, e non accade solo con gli spumanti: abbiamo una bottiglia di valore da parte, aspettiamo da tempo l’occasione giusta per aprirla, e presi dall’entusiasmo del clima natalizio non pensiamo all’abbinamento, perdendo l’occasione di valorizzarla come merita. Dunque a fine pasto, per non sbagliare, ricordiamo che si può sempre assecondare la presenza dello zucchero con altro zucchero. Tecnicamente è quello che si chiama abbinamento per concordanza, alternativa all’accostamento per contrapposizione. La formula non riguarda solo gli spumanti, ma tutti i vini dolci. Tra questi, in particolare, ci sono i passiti, di cui l’Italia è ricchissima a tutte le latitudini, dall’Alto Adige a Pantelleria. Si tratta di vini realizzati attraverso la lavorazione di acini appassiti. L’appassimento può avvenire in pianta, con una vendemmia tardiva che innesca un processo di surmaturazione, oppure dopo la raccolta dell’uva, lasciando disidratare gli acini per un certo periodo di tempo. Quello che si cerca attraverso l’appassimento è una maggior concentrazione diaromi e zuccheri, che si ritroverà poi anche nel bicchiere dopo la lavorazione. Per accostare bene un vino a un dessert non basta scegliere un passito qualsiasi. Anche questo tipo di abbinamento richiede qualche considerazione e permette di giocare tra un ventaglio di opzioni e interpretazioni. Un fattore da tener presente è quello della struttura del dolce che andremo a mangiare. Una torta paradiso, ad esempio, ha una struttura molto diversa rispetto a quella di un panforte, decisamente più importante, dove abbiamo tra gli ingredienti il miele, le mandorle, la frutta candita e diverse spezie. Se nel primo caso possiamo optare per un vino delicato, ad esempio un Moscato d’Asti, nel secondo caso la scelta può andare su un prodotto più strutturato, come ad esempio un Vin Santo. Un altro punto da considerare riguarda il livello di dolcezza, ovvero la quantità di zuccheri presenti nella ricetta, perché c’è dolce e dolce. Un plumcake allo yogurt, in questo senso, è molto diverso da una crostata alla confettura di albicocche. Nel primo caso uno spumante leggero da uve Malvasia può essere una buona soluzione. Nel secondo caso invece si può optare per uno Zibibbo passito che arriva dalla Sicilia, dove il clima caldo favorisce la dolcezza degli acini, e conseguentemente del prodotto finale. Continuando con i fattori da tenere a mente quando cerchiamo l’abbinamento giusto per un dolce, possiamo considerare anche la sua aromaticità. Questa può derivare dalle erbe aromatiche previste dalla ricetta, oppure dal profumo intrinseco di uno specifico ingrediente. Un esempio può essere quello, inconfondibile, dei canditi nel panettone, caratterizzati appunto da spiccata aromaticità. In questo caso per l’abbinamento, sempre in una logica di concordanza, si può valutare un vino di
buona intensità. L’intensità, per intenderci, è quel parametro che descrive in termini quantitativi la forza con cui i sentori si esprimono al naso e al palato. Tipicamente presentano grande intensità diversi vini ottenuti da uve aromatiche come Moscato, Malvasia o Gewürztraminer. Proprio quest’ultima è alla base del passito Rechtenthaler Schlossleiten firmato dalla storica azienda altoatesina Hofstätter, ideale appunto da abbinare a un buon panettone. Un Gewürztraminer da vendemmia tardiva di grande spessore, che prende il nome da uno dei prestigiosi cru dei vigneti di proprietà. Caratteristica chiave è la sua sorprendente freschezza, decisamente sopra la media nella categoria dei vini dolci, e fondamentale per evitare di appesantire la fine di pasti che a Natale possono risultare già di per sé impegnativi. Anche il ridotto contenuto di alcol, intorno al 7%, aiuta a delineare un profilo snello ed elegante. Al naso miele ed erbe aromatiche, in bocca albicocche, pere e agrumi canditi. La lunghissima persistenza connota questo Gewürztraminer come la scelta giusta per chiudere in bellezza un pranzo o una cena natalizia, con l’idea di portare con sé il più a lungo possibile il sapore dolce delle feste.

La forza dell’etichetta (e non solo)

Immaginiamo uno scaffale ben rifornito di vino o, in alternativa, la pagina web di un e-shop che preveda una chiara e facile navigazione oltre che una corretta prospettiva di osservazione: questa è di sicuro una situazione classica che ognuno di noi ha vissuto (a maggior ragione essendo all’interno del Magazine di Winefully) e che ha visto entrare in gioco una serie di dinamiche tali da governare la scelta del proprio vino da acquistare.

Le ragioni a guidare la selezione sono varie e molte di essere sono legate alla motivazione intrinseca all’acquisto: un’occasione da celebrare, un presente da omaggiare, una bottiglia da collezionare, un vino desiderato da tempo finalmente disponibile, un’etichetta scelta in funzione di un consiglio diretto di un amico o indiretto da parte di social media o di guide internazionali, la disponibilità di determinati formati ed infine anche la dinamica prezzo, vuoi perchè legata ad un determinato budget o perchè in grado di generare un risparmio se confrontata ad altre opportunità di acquisto. In cosa consiste il fil rouge che connette, in modo più o meno intenso, le motivazioni menzionate, sicuramente non esaustive di tutte le opportunità di acquisto che possiamo vivere? L’estetica, ovvero la percezione mediata attraverso i sensi delle caratteristiche di un prodotto che, al momento dell’acquisto, non si conosce o si conosce solo in parte.

E’ fuori dubbio che l’antico detto secondo cui “anche l’occhio vuole la sua parte” si applica molto bene a tali situazioni d’acquisto, da qui il ruolo chiave del Marketing nel creare un certo appeal nel prodotto, la bottiglia di vino, tanto da motivare l’acquirente a selezionarlo in modo congiunto o disgiunto rispetto ad altre variabili parte del processo decisionale.

Non tutti i cinque sensi sono però stimolati nella fase di studio in cui si captano le informazioni di interesse: una bottiglia chiusa difficilmente potrà stimolare l’olfatto salvo che le condizioni di stoccaggio del sito di acquisto non siano all’altezza e ci motivino ad allontanarci al più presto (vedi anche l’articolo “Bottiglie preziose: come conservarle a regola d’arte”), o il gusto; maggiori possono invece essere gli stimoli nei confronti dell’udito, soprattutto se combinato al tatto nel tastare una bottiglia ed immagazzinare una serie di informazioni dal suo profilo, da eventuali scritte impresse sul vetro o dalla qualità e grana di etichetta e capsula, ove presente.

Lasciamo inevitabilmente per ultima la vista, essendo questo il senso che condiziona maggiormente la scelta di un vino in sede di acquisto in persona condividendo, appunto, altri dettagli con tatto ed udito, e condizionando esclusivamente l’acquisto nel caso in cui si opti per piattaforme online.

Nel mondo dei vino è da tempo chiara la strategicità del packaging di una bottiglia: si investe moltissimo affinchè il prodotto trasmetta i valori della cantina, comunichi chiaramente ed in modo immediato al consumatore, permetta di andare oltre le informazioni di etichetta e retroetichetta, fornisca dettagli in linea con le legislazioni vigenti, menzioni il progressivo della bottiglia in caso di edizioni limitate o, e non in ultimo, fornisca un messaggio legato al posizionamento del prodotto a livello di Marketing.

Anche il più piccolo dettaglio conta e può realmente fare la differenza: oggettivamente, in quanti ci siamo trovati nella condizione di dover scegliere uno o più vini facendoci guidare sì dalle nostre conoscenze o da referenze di terzi, ma anche dal nostro istinto e dalle nostre preferenze visive? Quante volte ci siamo trovati di fronte ad etichette ammiccanti, packaging fantasiosi che generano curiosità e voglia di approfondire o a delle mise semplicemente eleganti perfettamente in linea con la nomea di un determinato vino? E quante volte ci siamo sottratti all’acquisto di vini non in grado di comunicare o il cui packaging non è stato considerato all’altezza della situazione specifica?

E’ accaduto, accade ed accadrà essendo il consumatore sempre più informato ed essendoci mezzi a disposizione che forniscono informazioni che un tempo magari non erano così rilevanti (o lo erano ma solo per gli esperti di settore).

Il trend è comune a tutti i mercati (non solo del vino visto che sia i superalcolici che l’acqua e bevande gassate non sono da meno) ma nel nostro mondo si notano con maggiore chiarezza le scelte aziendali volte ad un maggior focus sull’apparenza e la percezione del prodotto al cliente (consumatore o meno).

Questo avviene perchè ovviamente il mercato del vino è fortemente eterogeneo e caratterizzato da una storia spesso legata ai singoli territori ed alle singole cantine, a loro volta custodi di una tradizione il più delle volte familiare che i trend del mercato non hanno modo di scalfire (o almeno non riescono a farlo, al momento).

Risulterà quindi sempre difficile ed anche limitante confrontare vini dove l’essenza è contenuta all’interno del vetro e vini dove l’involucro esterno risulta fondamentale per finalizzarne la vendita. Entrambi hanno l’esigenza di incontrare il potere d’acquisto del cliente ma le modalità in cui lo fanno sono radicalmente diverse, attivando il modo diametralmente opposto i sensi alla base del processo decisionale oltre che l’emozione, il trasporto ed il sentimento che possono caratterizzare determinati acquisti.

A supporto della scelta di un vino possiamo categorizzare elementi decisionali interni ed esterni. I primi fanno riferimento al vino di per sè, alla sua storia, alle tecniche di vinificazione ed affinamento, all’annata ed al terroir. I secondi sono invece riconducibili al modo in cui viene presentato il vino, all’etichetta, al packaging, al prezzo e altri fattori che permettono di raccontare il prodotto di per sè.

Come è emerso nello studio “Il neuromarketing incontra l’arte dell’etichetta” commissionato da UPM Raflatac a SenseCatch nel 2018, emerge chiaramente che, tralasciando la variabile prezzo, sono l’etichetta con il suo design, le tipologie di carta e di nobilitazioni ad influenzare la scelta di un vino piuttosto che un altro.

Come accennato dal titolo, la materia è stata analizzata a livello scientifico utilizzando la metodologia di ricerca di SenseCatch, che integra neuroscienze e consumer behavior per analizzare le ragioni dietro i processi decisionali del consumatore in modo oggettivo e scientifico.

Il lavoro di ricerca è stato pubblicato in questo libro e nell’articolo scientifico “Neuromarketing Meets the Art of Labelling. How Papers and Finishing on Labels Affect Wine Buying Decisions” della rivista American Association of Wine Economics.

Esistono quindi delle ragioni oggettive, oltre che soggettive, dietro determinate scelte d’acquisto che coinvolgono uno o più sensi nel valutare più alternative così da scremarle progressivamente per identificare il prodotto di maggiore interesse.

L’estetica intesa come ciò che più aggrada l’occhio tanto da creare soddisfazione per un acquisto entra quindi in gioco e ci porta a propendere per determinate opzioni a seconda che gli stimoli siano più o meno allineati alle aspettative.

L’aspetto esteriore di una bottiglia di vino, quindi, risulta chiave in questo scenario, con l’etichetta che gioca il ruolo più importante insieme ad un eventuale packaging esterno che rende il prodotto unico e da subito riconoscibile, oltre che fortemente attraente.

Anche focalizzando la riflessione soltanto sull’etichetta, il vero e proprio carattere distintivo di ogni vino, avremmo uno spettro molto ampio di messaggi da recepire ed analizzare: da qui il focus sulle dinamiche che spingono un acquirente a selezionare specifiche etichette a seguito di stimoli specifici legati alla grafica, alla percezione tattile, al mix di colori che contraddistinguono i singoli vini.

A seconda delle specifiche necessità che sottintendono al processo di acquisto, ciascuna o tutte insieme possono svolgere un ruolo più o meno decisivo, dai risultati fortemente eterogenei a seguito di un ragionamento razionale per buona parte ma, inevitabilmente (ed aggiungiamo, fortunatamente) anche emozionale.

La serendipità dell’Amarone e il mito di Giuseppe Quintarelli

La serendipità è quel fenomeno per cui, mentre si sta cercando qualcosa, imprevedibilmente si trova altro. E il bello è che questo “altro” risulta una vera e propria sorpresa, qualcosa che spesso ha un valore più grande di ciò che si inseguiva originariamente. In poche parole si tratta di una scoperta fortunata, non pianificata. Cristoforo Colombo che scopre l’America, mentre in realtà cercava le Indie, è forse il caso più famoso di serendipità. Poi ci sono la Tarte Tatin, nata quando le sorelle Tatin scordarono di mettere la base nella torta di mele; il ghiacciolo, inventato incidentalmente da Frank Epperson dimenticando un bicchiere di soda al freddo; e la penicillina, figlia dell’errata disinfezione di un provino da parte di Alexander Fleming.

Anche l’Amarone pare sia un tipico caso di serendipità. La leggenda narra di un tale Adelino Lucchese, cantiniere della Cantina sociale di Negrar, che nel 1936 ritrova una botte di Recioto dimenticata. Spillando si rende conto che il vino dolce, continuando a fermentare, è diventato secco. Prova a recuperare il danno, ma senza successo. Il direttore della cantina, avvisato del problema, decide comunque di assaggiare quel “Recioto scapà” e rimane piacevolmente sorpreso dal risultato ottenuto. La frase che pare abbia rivolto al cantiniere è proprio “questo non è amaro, ma Amarone!”.

Nasce così il celebre vino della Valpolicella, il cui primo documento di vendita risale al 1938. L’Amarone viene poi distribuito a tutti gli effetti a partire dal 1953, ottenendo subito un ottimo riscontro commerciale. Nel 1968 viene approvato il primo disciplinare: al vino viene riconosciuta la certificazione DOC. Il suo successo continua a crescere, soprattutto all’estero, e nel 2010 arriva anche la DOCG. L’Amarone tecnicamente è un passito secco, ovvero privi di residuo zuccherino o quasi. La peculiarità del processo produttivo sta proprio nell’appassimento dell’uva, che porta a concentrazione e grande potenziale espressivo. Il vino viene prodotto con le uve storiche Corvina, Corvinone e Rondinella, a cui è possibile aggiungere sia uve locali che altre varietà.

Se guardiamo al percorso compiuto da questo grande vino, una stella brilla più delle altre lungo la sua parabola ascendente. È quella di Giuseppe Quintarelli, l’uomo che ha saputo portare l’Amarone ai livelli qualitativi più alti, fino a sancirne il successo e la fama in tutto il mondo. La cantina viene fondata dal padre Silvio a Negrar agli inizi del Novecento. Sarà proprio Giuseppe, il più giovane dei figli, a prenderla in mano negli anni Cinquanta, proseguendo il lavoro iniziato dal padre. L’azienda cresce nel rispetto dei metodi di lavorazione tradizionali, arricchiti da alcune importanti scelte evolutive. Negli anni Ottanta, ad esempio, alle varietà tradizionali ne vengono aggiunte altre internazionali come Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, e altre ancora come Nebbiolo e Croatina. Quello che negli anni invece non cambia è la tensione a un’eccellenza senza compromessi, assoluta.

Giuseppe Quintarelli è un uomo semplice e generoso, così altruista da condividere tutti i segreti del proprio mestiere con Romano Dal Forno, rendendolo di fatto il suo successore. Un grandissimo produttore mancato esattamente dieci anni fa, nel 2012, quando la figlia Fiorenza prende in mano le redini dell’azienda insieme al marito e ai figli. Diverse le etichette, tutte di monumentale importanza. Tra queste, l’Amarone della Valpolicella Classico spicca come vera e propria bottiglia leggendaria. Parliamo della 2013. L’annata, dal punto di vista climatico, è stata ambivalente. Nella prima parte le piante hanno subito gli effetti di un clima difficile, con temperature basse e frequenti piogge. Nella seconda parte, da giugno in poi, il meteo ha invece virato in direzione opposta, portando alla raccolta di frutti dal grande profilo qualitativo. Si tratta di fatto di una tra le migliori annate per l’Amarone, che molti produttori sono riusciti a tradurre in vini di estrema finezza. Quello di Quintarelli, in particolare, si presenta con un rosso rubino di grande intensità, lasciando presagire fin da subito una materia viva e vibrante. Al naso apre con sentori di potpourri e delinea un tocco di note scure che il palato renderà più evidenti. Il sorso è regale, sontuoso, con la frutta in confettura che lascia spazio prima a sensazioni iodate, poi a richiami sui toni della fava di cacao e della liquirizia. Come in tutte le opere massime, non solo quelle enologiche, è nel finale che si ha la conferma del capolavoro.

di Graziano Nani 09.03.2022

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

La forza dell’etichetta (e non solo)

Immaginiamo uno scaffale ben rifornito di vino o, in alternativa, la pagina web di un e-shop che preveda una chiara e facile navigazione oltre che una corretta prospettiva di osservazione: questa è di sicuro una situazione classica che ognuno di noi ha vissuto (a maggior ragione essendo all’interno del Magazine di Winefully) e che ha visto entrare in gioco una serie di dinamiche tali da governare la scelta del proprio vino da acquistare.

Le ragioni a guidare la selezione sono varie e molte di essere sono legate alla motivazione intrinseca all’acquisto: un’occasione da celebrare, un presente da omaggiare, una bottiglia da collezionare, un vino desiderato da tempo finalmente disponibile, un’etichetta scelta in funzione di un consiglio diretto di un amico o indiretto da parte di social media o di guide internazionali, la disponibilità di determinati formati ed infine anche la dinamica prezzo, vuoi perchè legata ad un determinato budget o perchè in grado di generare un risparmio se confrontata ad altre opportunità di acquisto. In cosa consiste il fil rouge che connette, in modo più o meno intenso, le motivazioni menzionate, sicuramente non esaustive di tutte le opportunità di acquisto che possiamo vivere? L’estetica, ovvero la percezione mediata attraverso i sensi delle caratteristiche di un prodotto che, al momento dell’acquisto, non si conosce o si conosce solo in parte.

E’ fuori dubbio che l’antico detto secondo cui “anche l’occhio vuole la sua parte” si applica molto bene a tali situazioni d’acquisto, da qui il ruolo chiave del Marketing nel creare un certo appeal nel prodotto, la bottiglia di vino, tanto da motivare l’acquirente a selezionarlo in modo congiunto o disgiunto rispetto ad altre variabili parte del processo decisionale.

Non tutti i cinque sensi sono però stimolati nella fase di studio in cui si captano le informazioni di interesse: una bottiglia chiusa difficilmente potrà stimolare l’olfatto salvo che le condizioni di stoccaggio del sito di acquisto non siano all’altezza e ci motivino ad allontanarci al più presto (vedi anche l’articolo “Bottiglie preziose: come conservarle a regola d’arte”), o il gusto; maggiori possono invece essere gli stimoli nei confronti dell’udito, soprattutto se combinato al tatto nel tastare una bottiglia ed immagazzinare una serie di informazioni dal suo profilo, da eventuali scritte impresse sul vetro o dalla qualità e grana di etichetta e capsula, ove presente.

Lasciamo inevitabilmente per ultima la vista, essendo questo il senso che condiziona maggiormente la scelta di un vino in sede di acquisto in persona condividendo, appunto, altri dettagli con tatto ed udito, e condizionando esclusivamente l’acquisto nel caso in cui si opti per piattaforme online.

Nel mondo dei vino è da tempo chiara la strategicità del packaging di una bottiglia: si investe moltissimo affinchè il prodotto trasmetta i valori della cantina, comunichi chiaramente ed in modo immediato al consumatore, permetta di andare oltre le informazioni di etichetta e retroetichetta, fornisca dettagli in linea con le legislazioni vigenti, menzioni il progressivo della bottiglia in caso di edizioni limitate o, e non in ultimo, fornisca un messaggio legato al posizionamento del prodotto a livello di Marketing.

Anche il più piccolo dettaglio conta e può realmente fare la differenza: oggettivamente, in quanti ci siamo trovati nella condizione di dover scegliere uno o più vini facendoci guidare sì dalle nostre conoscenze o da referenze di terzi, ma anche dal nostro istinto e dalle nostre preferenze visive? Quante volte ci siamo trovati di fronte ad etichette ammiccanti, packaging fantasiosi che generano curiosità e voglia di approfondire o a delle mise semplicemente eleganti perfettamente in linea con la nomea di un determinato vino? E quante volte ci siamo sottratti all’acquisto di vini non in grado di comunicare o il cui packaging non è stato considerato all’altezza della situazione specifica?

E’ accaduto, accade ed accadrà essendo il consumatore sempre più informato ed essendoci mezzi a disposizione che forniscono informazioni che un tempo magari non erano così rilevanti (o lo erano ma solo per gli esperti di settore).

Il trend è comune a tutti i mercati (non solo del vino visto che sia i superalcolici che l’acqua e bevande gassate non sono da meno) ma nel nostro mondo si notano con maggiore chiarezza le scelte aziendali volte ad un maggior focus sull’apparenza e la percezione del prodotto al cliente (consumatore o meno).

Questo avviene perchè ovviamente il mercato del vino è fortemente eterogeneo e caratterizzato da una storia spesso legata ai singoli territori ed alle singole cantine, a loro volta custodi di una tradizione il più delle volte familiare che i trend del mercato non hanno modo di scalfire (o almeno non riescono a farlo, al momento).

Risulterà quindi sempre difficile ed anche limitante confrontare vini dove l’essenza è contenuta all’interno del vetro e vini dove l’involucro esterno risulta fondamentale per finalizzarne la vendita. Entrambi hanno l’esigenza di incontrare il potere d’acquisto del cliente ma le modalità in cui lo fanno sono radicalmente diverse, attivando il modo diametralmente opposto i sensi alla base del processo decisionale oltre che l’emozione, il trasporto ed il sentimento che possono caratterizzare determinati acquisti.

A supporto della scelta di un vino possiamo categorizzare elementi decisionali interni ed esterni. I primi fanno riferimento al vino di per sè, alla sua storia, alle tecniche di vinificazione ed affinamento, all’annata ed al terroir. I secondi sono invece riconducibili al modo in cui viene presentato il vino, all’etichetta, al packaging, al prezzo e altri fattori che permettono di raccontare il prodotto di per sè.

Come è emerso nello studio “Il neuromarketing incontra l’arte dell’etichetta” commissionato da UPM Raflatac a SenseCatch nel 2018, emerge chiaramente che, tralasciando la variabile prezzo, sono l’etichetta con il suo design, le tipologie di carta e di nobilitazioni ad influenzare la scelta di un vino piuttosto che un altro.

Come accennato dal titolo, la materia è stata analizzata a livello scientifico utilizzando la metodologia di ricerca di SenseCatch, che integra neuroscienze e consumer behavior per analizzare le ragioni dietro i processi decisionali del consumatore in modo oggettivo e scientifico.

Il lavoro di ricerca è stato pubblicato in questo libro e nell’articolo scientifico “Neuromarketing Meets the Art of Labelling. How Papers and Finishing on Labels Affect Wine Buying Decisions” della rivista American Association of Wine Economics.

Esistono quindi delle ragioni oggettive, oltre che soggettive, dietro determinate scelte d’acquisto che coinvolgono uno o più sensi nel valutare più alternative così da scremarle progressivamente per identificare il prodotto di maggiore interesse.

L’estetica intesa come ciò che più aggrada l’occhio tanto da creare soddisfazione per un acquisto entra quindi in gioco e ci porta a propendere per determinate opzioni a seconda che gli stimoli siano più o meno allineati alle aspettative.

L’aspetto esteriore di una bottiglia di vino, quindi, risulta chiave in questo scenario, con l’etichetta che gioca il ruolo più importante insieme ad un eventuale packaging esterno che rende il prodotto unico e da subito riconoscibile, oltre che fortemente attraente.

Anche focalizzando la riflessione soltanto sull’etichetta, il vero e proprio carattere distintivo di ogni vino, avremmo uno spettro molto ampio di messaggi da recepire ed analizzare: da qui il focus sulle dinamiche che spingono un acquirente a selezionare specifiche etichette a seguito di stimoli specifici legati alla grafica, alla percezione tattile, al mix di colori che contraddistinguono i singoli vini.

A seconda delle specifiche necessità che sottintendono al processo di acquisto, ciascuna o tutte insieme possono svolgere un ruolo più o meno decisivo, dai risultati fortemente eterogenei a seguito di un ragionamento razionale per buona parte ma, inevitabilmente (ed aggiungiamo, fortunatamente) anche emozionale.

Luciano Sandrone: nati sotto il segno del Nebbiolo

Nel periodo più intenso dell’anno, quello della vendemmia, Barbara Sandrone – figlia di Luciano – è riuscita lo stesso a dedicarci un po’ del suo tempo per raccontarci la storia della loro cantina, che, prima ancora di essere una bellissima vicenda imprenditoriale, è un’intensa vicenda di famiglia e di affetti. Una storia nella quale l’amore che lega le tre generazioni oggi in azienda trova un riflesso e un completamento nel rapporto quasi simbiotico con il territorio, dal quale nascono sei vini che interpretano la tradizione in maniera pura e appassionata.

Tuo padre Luciano, il fondatore della vostra cantina, ha una bellissima storia personale. Vorrei partire da qui, se ti va.

Sì, certo, per noi è sempre una gioia raccontare come è iniziato tutto perché non veniamo da una tradizione di famiglia nel vino. Mio nonno, in realtà, era falegname e, a un certo punto, decise di trasferirsi a Barolo per ampliare la sua attività e – chiamalo caso oppure destino – la sede della nuova falegnameria era a fianco della cantina del grande Giacomo Borgogno. Mio papà all’epoca era un ragazzino e si divideva fra questi due mondi, con il signor Giacomo che lo aveva preso in simpatia e gli ripeteva sempre – in dialetto piemontese ovviamente – “Cresci in fretta Luciano, perché qui c’è posto per te”. E alla fine è andata davvero così: dopo l’avviamento, ha iniziato a lavorare insieme a lui, assorbendo tutti i suoi insegnamenti e osservando tutti i suoi gesti. Un’esperienza bellissima per mio padre che è durata fino al servizio militare, poi al suo ritorno in paese è diventato capo cantiniere per le famiglie Abbona e Scarzello, titolari de  Marchesi di Barolo, nel 1970. Aveva solo ventiquattro anni ed è rimasto lì fino al 1990. A che punto di questo percorso Luciano ha deciso che voleva fare un vino suo, partendo da zero?

È successo verso la fine degli anni Settanta, mio padre ha iniziato ad avere desiderio di confrontarsi anche con quello che accade, prima della cantina, in vigna. La qualità del vino, lo sai, nasce nel vigneto e lui voleva capire meglio anche quella parte di processo. Nel 1977 è arrivato l’acquisto del vigneto Cannubi Boschis, da cui poi è nato il nostro primo Barolo.

Mio padre non aveva spazi o strumenti di proprietà perché – come ti dicevo – non veniva da una famiglia di vignaioli, perciò è partito da zero, usando il nostro garage perché era il miglior luogo che aveva a disposizione. La nostra azienda è cresciuta in questa maniera semplice e per piccoli passi: prima con pochi fusti, poche vasche e a volte attrezzi di seconda mano; poi nel tempo abbiamo affittato altri garage per poterci allargare un po’ e, infine, il progetto della nuova cantina, che è arrivato solo nel 1998. Si trova sempre qui a Barolo, proprio ai piedi della collina di Cannubi e qui siamo riusciti, gradualmente, a portare tutto dentro: dai trattori alle sale dove affiniamo.

Ti vorrei fare una domanda riguardo al vostro carattere che si riflette, in ultimo, nei vostri vini. Siete sicuramente uno dei nomi di riferimento per il Barolo, eppure mi sembra che siate riusciti a conservare quello spirito garagista, essenziale e semplice degli inizi, come ci siete riusciti?

Non saprei. Non c’è stata una strategia, abbiamo solo creduto tanto, con il cuore e con la testa, in quello che abbiamo fatto e abbiamo voluto rimanere una famiglia, anche se questo ha significato darsi dei limiti. Ma va bene così perché vogliamo gestire le cose in una certa maniera – la nostra – e vogliamo esercitare il controllo su tutte le fasi in vigna e in cantina.

Non bisogna avere fretta e questa è una cosa che prima di tutto ci dicono i nostri vigneti. Se c’è una cosa che la famiglia del Nebbiolo insegna è proprio l’arte della pazienza e del saper aspettare. Ti direi che questo insegnamento dalla vigna lo abbiamo trasposto a tutti gli aspetti del nostro lavoro. Questo è anche uno dei motivi per i quali, in fondo, i nostri vini non sono tanti, perché abbiamo scelto di farci guidare dai vitigni autoctoni e dalla tradizione, senza avere fretta. Pensa che il nostro ultimo nato, il Barolo Vite Talin, ha avuto più o meno trent’anni di gestazione prima di vedere la luce.

Tu ti occupi della parte commerciale, giusto?

Sì, anche se ammetto che non mi piace chiamarla così. Lavoro insieme a un gruppo di sole donne davvero molto in gamba, ci tengo a dirlo perché penso che l’abilità relazionale femminile faccia la differenza. Per noi è indispensabile far capire ai distributori la complessità di certe scelte che facciamo, a volte all’apparenza antieconomiche ma coerenti con la nostra filosofia.

Mio zio Luca con la sua squadra di otto  persone segue, invece, la vigna. Con l’arrivo del vigneto Le Corse di Monforte, che entrerà a far parte del Barolo Le Vigne dall’annata 2019, siamo a trenta ettari. Ti parlo di questa acquisizione perché ci teniamo davvero tanto: il titolare dell’appezzamento è sempre stato in rapporti di stima e di collaborazione con mio padre, nel momento in cui ha scelto di ritirarsi ha voluto venderlo a noi perché sapeva di lasciarlo a qualcuno con un certo pensiero e un certo modo di lavorare. Per noi è stata una grande soddisfazione e anche un onore. Con l’ingresso in azienda dei tuoi figli, Alessia e Stefano, siete alla terza generazione ormai ma si può dire che siete ancora oggi prima una famiglia e poi un’azienda. Quanto influisce questo nel vostro modo di fare vino?

Essere famiglia è una forza incredibile. Ovviamente non dimentichiamo mai di essere un’azienda ma lo facciamo animati da un sentimento comune e anche dal rapporto che ci lega e questo ci consente, credo, di lavorare con una serenità e una convinzione fortissime.

Sul vostro sito ho notato che definite il vino per sua stessa essenza “naturale”, ci racconti qualcosa di più su come lavorate?

Per noi le nostre vigne sono come persone, sono parte della nostra famiglia: occorre curarle, essere presenti, saperle ascoltare, senza prevaricare. Ti faccio l’esempio del Nebbiolo di Barolo e di Valmaggiore: la varietà è la stessa, ma le condizioni pedoclimatiche e idriche sono così diverse che dobbiamo rapportarci a loro in modi altrettanto diversi. Siamo noi a dover essere capaci di cogliere i segni che la vite ci dà e aiutarla a compiere il suo percorso. Questo richiede una cura che assomiglia alla dedizione, soprattutto nei momenti più delicati come l’estate o quelli che precedono la vendemmia. Luca a fine agosto inizia a campionare per parcelle perché chiaramente, a seconda dell’esposizione, i tempi e i modi della maturazione cambiano molto e questo determina una vendemmia molto articolata, nel senso che ogni appezzamento, anzi ogni parcella fa storia a sé. È il motivo per cui abbiamo molte persone a supporto, che devono essere specializzate ma anche appassionate. Il lavoro in vigna è sempre tanto e faticoso e richiede in parti uguali competenza e sensibilità.

Voi operate a tutti gli effetti in biologico ma non avete certificazione. Non la ritenete utile?

Non ci definiamo biologici, o meglio operiamo alla nostra maniera da sempre ma non abbiamo bisogno di una bollinatura, perché sappiamo come lavoriamo. La mia famiglia è radicata qui, ora ci sono i miei figli che lavorano con noi, amiamo questi luoghi, sarebbe assurdo violare questa terra che ci ha dato tanto, lavorando male, con interventi poco rispettosi.

Usate lieviti indigeni e praticate la fermentazione spontanea, possiamo dire che non avete scelto la strada più facile. Le variabili che entrano in gioco operando così sono molto maggiori.

Lavoriamo così da sempre, non ti saprei nemmeno dire com’è essere diversi. E forse per questo sento meno i rischi e le complessità. È anche vero che siamo aiutati dal fatto di conoscere bene i nostri vigneti e che il patrimonio genetico delle nostre uve è talmente unico che va conservato. Detto questo, scegliere di operare in questo modo richiede un’attenzione maniacale, assoluta. Per farti un esempio, quando bisogna fare i rimontaggi, durante la fermentazione, le persone in cantina si fermano poche ore al giorno, perché ci vuole una cura pazzesca e perché questi lieviti sono vivi e non si comportano mai nello stesso modo. Anche in questo caso, ci vuole competenza ma soprattutto bisogna “sentire” questo lavoro, capire che si ha a che fare con qualcosa di vivo, di pulsante.

Siete naturali e biologi ma mi sembra che siate molto poco interessati al dibattito sul naturale e alle tendenze che ha innescato.

Sinceramente noi abbiamo sempre seguito la nostra strada, senza cercare di assomigliare a qualcun altro. Spesso siamo anche andati controcorrente, per esempio, quando negli anni Novanta c’erano barrique ovunque e sembrava che bisognasse barricare tutto, mio padre ha sempre ostinatamente usato il tonneaux, a volte facendo una fatica incredibile per trovare le botti perché c’era poca offerta. Ma noi abbiamo sempre pensato che il vino deve avere la sua personalità, rispetto alla quale il legno è solo un complemento e per questo siamo sempre andati avanti così. Magari, in questo modo si corre il rischio di non piacere a tutti, ma è giusto in un certo senso, è solo un bene che ci siano più voci e più strade possibili. Ben vengano anche tutti i dibattiti ma poi è importante che ognuno scelga il proprio percorso con indipendenza e coerenza.

Poco fa parlavi di vendemmia, in questo momento (ndr. inizi di ottobre) è ancora in corso quella di quest’anno. Non ti chiedo un bilancio perché è troppo presto ma una vostra prima impressione sul suo andamento.

In effetti non amo parlare della vendemmia prima che sia conclusa. Anche per questioni di scaramanzia! Però posso dire che siamo molto contenti di quello che abbiamo raccolto fino a questo momento. L’andamento climatico di quest’anno ci ha tenuti sempre con il fiato sospeso, con le gelate di aprile e poi le grandinate in estate. Sono stati tutti fenomeni abbastanza violenti ma devo dire che è andata bene e le uve sono sane e belle. Il raccolto è buono per qualità e quantità.

Sul nostro shop si trovano sia Le vigne sia Aleste, due Barolo con una allure particolare. Ci vuoi raccontare la loro storia?

Le Vigne è sempre stato un vino speciale per noi. I primi riconoscimenti sono arrivati con il Cannubi Boschis, ma mio padre ha sempre avuto nel cuore l’idea del Barolo secondo la tradizione dell’assemblaggio finale di uve di parcelle diverse. Mi piace descriverlo come una sinfonia di strumenti musicali che insieme esprimono compiutamente il territorio: ogni vigneto viene trattato, vendemmiato e vinificato da solo, nel rispetto delle sue caratteristiche e poi, con progressivi assaggi e prove, si decide la composizione finale capace di esprimere le caratteristiche dell’annata e del territorio. La nostra impronta c’è ma è sullo sfondo, per armonizzare le singole voci in un tutto. Aleste in realtà è il mitico Cannubi Boschis, che a un certo punto tuo padre ha deciso di rinominare, dedicandolo ai tuoi figli (Ale e Ste). Un generoso passaggio di testimone generazionale che però avrebbe gettato nel panico qualunque consulente di marketing. Come è andata?

Mi fai parlare di una cosa che ancora mi commuove perché ricordo benissimo quando mio padre ci ha spiegato che voleva dedicare alle nuove generazioni – all’epoca in arrivo – la cosa più preziosa che aveva: il suo primo vigneto e il suo primo vino. Sulle prime, io e Luca eravamo un po’ spaesati perché cambiare nome al vino che tutti considerano il nostro simbolo era un rischio dal punto di vista comunicativo. La cosa che ho ritenuto giusto fare è stato passare tantissimo tempo in giro per spiegare in prima persona ai nostri distributori questa scelta: era importante per noi che tutti capissero che si trattava puramente di una scelta di cuore che non coinvolgeva l’identità del vino. Il Barolo è rimasto lo stesso: un vino vigoroso, diretto, pieno, pronto da subito, anche per via della maturazione “più spinta” del vigneto Cannubi Boschis, che sta più in basso rispetto agli altri vigneti, quindi in una zona un po’ più calda.

Le Vigne, invece, è più floreale, più morbido, prima ti abbraccia e poi conquista la tua attenzione. Sono due personalità complementari.

Sibi et paucis che progetto è e perché non avete voluto fare una classica riserva?

È un accantonamento delle nostre bottiglie che facciamo da circa quindici anni. Abbiamo iniziato con una piccola quantità aumentando progressivamente. I vini riposano in una cantina dedicata per otto anni, quindi per dieci anni in tutto (due in fusto e otto in bottiglia) perché è un progetto nato per valorizzare la capacità del Nebbiolo di crescere nel tempo e pensato per noi e per coloro che vogliono comprendere cos’è un Barolo dopo dieci o venti anni. La riserva nasce già in vigna, da appezzamenti che le vengono dedicati ma noi non volevamo avere appezzamenti “speciali”. Sibi et paucis è sempre il nostro vino, semplicemente tenuto da parte, per noi e per gli amici.

Per concludere, come hai visto cambiare la Langa in questi decenni.

È una domandona questa. C’è una questione che mi sta a cuore: a me non è mai piaciuta la distinzione fra tradizionalisti e modernisti, perché penso che abbiamo tutti le stesse radici, senza le quali oggi non saremmo qui. È una distinzione che ho sempre percepito come un’esigenza comunicativa, per spiegare in maniera semplice, schematica – a volte troppo – un territorio complesso come questo.

Più che di due poli distinti parlerei di evoluzione: in una storia come la nostra è normale che si attraversino diversi momenti evolutivi, che però nascono tutti dalla tradizione. Oggi mi sembra che siamo arrivati a un punto di equilibrio fra le diverse anime, fra chi ha sperimentato di più e chi invece non si è allontanato dalle origini. E mi sembra un’ottima cosa.

Veglione vintage

E se per quest’anno ci lasciassimo andare a un po’ di nostalgia gastronomica, scegliendo per il cenone della Vigilia di Capodanno delle portate festive ma piacevolmente retrò?

Ecco qualche idea per un menu a base di pesce all’insegna di sapori d’antan ma sempre deliziosi, da accompagnare con vini “da grande occasione” e anch’essi – quando è il caso – d’annata. Partiamo in maniera spumeggiante con una bella bolla da aperitivo per un tuffo negli anni Ottanta con un cocktail di gamberi accompagnato dalla sensuale salsa rosa e con le intramontabili tartine al salmone, giocando a tavola sulle sfumature di colore che si rincorrono tra piatto e calice. In questo caso, infatti, la scelta ideale potrebbe essere una bollicina rosata: italiana e sbarazzina – come il fresco e minerale Francesco I Franciacorta Rosé di Uberti ravvivato da note di frutta rossa e pompelmo rosa affiancate da nuance speziate – oppure francese e raffinata, come un’etichetta dalla grande personalità: il Perrier Jouët Belle Epoque Rosé millesimato, delicato e voluttuoso insieme.

Nel secondo caso, la stessa bottiglia – magari in formato magnum – potrà rivelarsi ideale per abbinarsi anche a un primo piatto semplice ma sfarzoso e gustosissimo, adatto alle feste, come gli spaghetti all’astice con la presenza discreta del pomodoro.

Una bolla bianca invece – che non sfigurerebbe di certo nemmeno con il cocktail di gamberi d’apertura – potrebbe essere la scelta ideale per accompagnare un altro grande classico della cucina vintage anni Settanta e Ottanta, mai passato del tutto di moda: le pennette al salmone sfumate con la vodka, amate tanto da Ugo Tognazzi quanto dagli habitué delle serate in discoteca della riviera romagnola e da chiunque sappia indovinare la giusta alchimia tra pesce affumicato, (poca) panna, pomodoro e distillato russo. Il pomodoro infatti, tralasciato da molte ricette successive all’originale, serve a bilanciare la dolcezza del piatto e a fare da trait-d’union con la Vodka, un incontro suggellato anche nel cocktail Bloody Mary. La presenza del distillato – che serve soprattutto a sfumare il salmone – potrebbe creare qualche problema per l’abbinamento ma una bolla vivace ed estremamente elegante come il Meraviglioso di Bellavista, uvaggio fifty-fifty di Chardonnay e Pinot Noir, con i suoi dodici anni di affinamento in bottiglia saprà tenervi testa al meglio. Meraviglioso è frutto dell’assemblaggio di sei annate storiche dell’azienda franciacortina già usate per la Riserva che porta il nome del fondatore Vittorio Moretti (1984, 1988, 1991, 1995, 2001 e 2002).

Per il secondo piatto, l’ideale è restare sul semplice puntando soprattutto sull’eccellente qualità della materia prima: un pesce in crosta di sale, sapido e succoso, accompagnato da una impeccabile e voluttuosa maionese fatta in casa renderà tutti felici. Così come lo stappare un grande vino bianco come il Testamatta Bianco di Bibi Graetz: fresco e altrettanto sapido, nonostante l’abbondanza di profumi che rimandano alla frutta matura e candita (dal dattero alla scorza d’arancia, fino mela cotogna e all’albicocca) e al miele, si rivela perfettamente equilibrato grazie alle note iodate e, più che anticipare il panettone, sembra portare indietro ai mesi estivi sul mare. Se volete sorprendere i vostri ospiti con un vino – e un vitigno – poco conosciuto e invece della maionese volete servire accanto al pesce una squisita insalata russa (altro grande classico sempre molto amato), potreste decidere di aprire ancora un’altra bottiglia prima del passaggio al dessert e al vino dolce.

Anziché tornare indietro su una bolla rinfrescante, infatti, sottolineate l’opulenza del contorno con un calice di Vin de la Neu di Nicola Biasi: lo Johanniter – una varietà resistente che ben si adatta alle temperature fredde e alle alte quote, come quelle degli appezzamenti in Val di Non di Biasi – dà vita a un vino che profuma di agrumi, frutti tropicali, erba fresca e fiori bianchi, che al sorso sorprende per verticalità e sapidità ma senza rinunciare a una certa avvolgenza dovuta anche al passaggio in legno di quasi un anno e alla lunga permanenza in bottiglia.

Per chiudere il cenone in maniera classica, la scelta vintage potrà essere un eccellente e burroso pandoro artigianale dagli effluvi di vaniglia, magari accompagnato da una crema allo zabaione comme il faut. Da abbinare, un calice del mitico Vin Santo Occhio di Pernice di Avignonesi, dolce ma non stucchevole, con i sentori di frutta secca, miele e spezie ingentiliti da una bella freschezza e da una persistenza affascinante.

– Luciana Squadrilli 23.12.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

ALTRE NEWS

Quando l’etichetta è un’opera d’arte

In principio fu il Barone Philippe de Rotschild. Arrivato nel 1922 alla guida del domaine Mouton Rothschild, il giovane aristocratico, nel 1924, commissiona al celebre illustratore Jean Carlu l’etichetta per lo Château Mouton di quell’anno. L’iniziativa rimane un esperimento isolato fino al secondo dopoguerra, quando il Barone decide di far diventare le etichette firmate da artisti di fama mondiale una consuetudine, con il doppio obiettivo di costruire un’identità visiva forte e originale e di rendere ancora più speciale – se possibile – un vino già di per sé mitico.

Joan Miró, Marc Chagall, George Braque, Pablo Picasso, Francis Bacon, Salvador Dalí, Balthus, Jeff Koons, David Hockney, Gerhard Richter, William Kentridge, Annette Messager: sono solo alcuni dei grandi nomi che, dal 1945 a oggi, hanno collaborato con il domaine, creando in assoluta libertà piccole opere d’arte che celebrano il vino in tutte le sue sfaccettature. Se al Barone de Rotschild spetta il titolo di precursore di questa peculiare forma di mecenatismo, in seguito sono state tante e a tutte le latitudini le cantine che hanno voluto legare l’identità delle loro bottiglie a progetti artistici capaci di raccontare, meglio di molte parole, il carattere di un vino e le suggestioni che può trasmettere.

Limitandoci agli esempi italiani, è impossibile non ricordare la bella storia delle etichette disegnate da Alberto Manfredi per Le Pergole Torte di Montevertine, un Sangiovese in purezza nato nel 1977 dalla passione di Sergio Manetti e destinato a cambiare il panorama del vino toscano. Nel 1981 Manetti – ex imprenditore siderurgico trasformatosi in vignaiolo – conosce Manfredi e dalla loro assidua frequentazione nasce l’idea di un’etichetta disegnata ad hoc per l’annata 1982. Quel volto di donna tratteggiato nell’inconfondibile stile dell’artista emiliano conquista il pubblico, tanto da convincere i due amici a proseguire su questa strada e a realizzare ogni anno un’etichetta diversa ma sempre caratterizzata da un viso femminile. Fino al 1988 solo una parte delle bottiglie delle Pergole Torte si fregia di questa etichetta speciale ma successivamente Manetti decide di utilizzarla su tutta la produzione. Questa storia di amicizia e di amore per il vino continua fino alla scomparsa – avvenuta nel 2001 – di Manetti e Manfredi. L’ultima annata interpretata da quest’ultimo è, dunque, la 1998, ma da allora in poi, per desiderio degli eredi di entrambi, ogni nuova annata di questo splendido vino è caratterizzata da un’etichetta che riproduce un’opera del maestro, scelta fra quelle presenti nei vasti archivi delle due famiglie.

Piero Cascella, Mino Maccari, Pier Paolo Pasolini, Robert Cottingham, Wayne Thiebaud: sono solo alcuni dei grandi artisti che hanno firmato le Etichette d’Autore di Vietti, nate dalla passione per l’arte contemporanea di Alfredo Currado.

Nel 1974, Currado decide di portare un po’ di questa passione in cantina, chiedendo ogni anno ad un’artista diverso di interpretare il vino di quella particolare annata e legando, dunque, inscindibilmente l’opera creata a quel millesimo. Si tratta di bottiglie a tiratura limitata sulla base del numero complessivo prodotto e le prime cento sono firmate dall’artista. Dal 1988 – quando viene presentato il Barolo Riserva Villero 1982 – la famiglia Currado decide di associare il progetto artistico esclusivamente a questo vigneto e al suo iconico vino.

Iniziativa più recente e di grande respiro è la Vendemmia d’artista di Ornellaia, che – dal 2009 – celebra ogni nuova annata, commissionando a un grande artista sia un’opera destinata alla tenuta di Bolgheri, sia un’etichetta, entrambe ispirate al carattere dell’annata stessa.

L’etichetta è pensata soprattutto per fare la gioia dei collezionisti di arte e di vino; si trova, infatti, solo su una delle sei bottiglie che compongono una cassa di Ornellaia e su 111 bottiglie di grande formato, firmate e numerate dall’artista. Questi formati speciali vengono in seguito battuti all’asta e il ricavato raccolto viene devoluto, ogni anno, a Mind’s Eye, il progetto della Guggenheim Foundation che aiuta le persone con disabilità visive ad avvicinarsi all’arte grazie l’uso di tutti i sensi.

Nel 2020 (annata 2017) l’artista scelto per Vendemmia d’artista è stato Tomàs Saraceno. Aspettiamo, come sempre con grande curiosità, la prossima tappa di questo percorso artistico. In alcune circostanze, infine, il connubio vino e arte assume anche connotazioni fortemente solidali, come è accaduto nel 1997, quando tutti i produttori di Montalcino hanno dato il loro contributo a un’iniziativa benefica a favore delle popolazioni di Umbria e Marche, colpite dal sisma di quell’anno. Tutte le cantine del Consorzio del Brunello hanno messo a disposizione una parte del proprio vino per uno stock di 8994 bottiglie vendute en primeur per raccogliere fondi a favore dei terremotati. Bottiglie da collezione per più di un motivo: il 1997 è considerato la migliore annata del secolo scorso e, a supporto dell’iniziativa, Fernando Botero per la prima volta ha concesso la riproduzione di una propria opera (Il ratto di Europa) in un contesto simile. Le bottiglie sono state ritirate dagli acquirenti nel 2002, anno di presentazione dell’annata.

Redazione 22.02.2021

 

Bottiglie preziose: come conservarle a regola d’arte

È tra i temi più “caldi” del vino, anche se il caldo fa male al vino! Giochi di parole a parte, quello della conservazione è davvero uno degli argomenti più dibattuti da chi si avvicina a questo mondo affascinante.

Quanto dura un vino, ma soprattutto come conservarlo sono domande classiche, dalle risposte non del tutto scontate. Già chiedersi quanto duri un vino è di per sé sbagliato, non tanto per la curiosità legittima, quanto perché la domanda è mal posta. Ogni vino ha caratteristiche differenti, che gli conferiscono una potenzialità di affinamento in bottiglia completamente diversa. Non a caso l’AIS (Associazione Italiana Sommelier) usa termini che si ispirano a quelli dell’età dell’essere umano per definire lo stato evolutivo di un vino: immaturo, giovane, pronto, maturo e vecchio. Per tornare alla nostra domanda iniziale, dovrebbe essere posta chiedendosi quale sia l’evoluzione di un vino specifico, con tanto di denominazione e nome della cantina. Esistono fattori, infatti, che incidono enormemente sulla sua potenzialità, a partire dal vitigno, dalla vendemmia, dall’annata, e dal tipo di maturazione in cantina (acciaio, anfora, legno). Non dimentichiamo, quindi, che il vino è un alimento “vivo”, che cambia nel tempo con una curva di evoluzione massima, che non dovrebbe mai arrivare alla vecchiaia.

È un meraviglioso gioco quello acquistare svariate bottiglie della stessa annata importante e di goderne l’evoluzione aprendole anno dopo anno. Si può osservare come cambia il colore, come i profumi al naso diventino più evoluti, sconcertati dal fatto che quelle rosa fresca, segnata sul taccuino di degustazione, in pochi anni sia diventato un pot-pourri di fiori secchi, o che quel tannino ruvido sulla lingua, sia oggi una carezza avvolgente.

Giocare con l’invecchiamento del vino è tuttavia rischioso, perché quelle bottiglie che abbiamo scelto con cura e atteso con trasporto emotivo, potrebbero rovinarsi irrimediabilmente se non conservate correttamente. Facile, tra l’altro, che tale deterioramento non sia immediatamente riconoscibile dai nostri sensi: un vino può invecchiare male ma non diventare necessariamente cattivo, solo non lo stiamo gustando al massimo delle sue potenzialità.

L’ambiente nel quale viene riposto il vino può fare la differenza, anche per questo occorre capire con onestà intellettuale se la cantina di casa soddisfi certe caratteristiche. La temperatura è tra i fattori fondamentali per la corretta conservazione del vino. L’evoluzione di una bottiglia è alterata, nel suo naturale processo ossidativo, da temperature inferiori ai 10 gradi centigradi e superiori a 16°: ecco dunque definito il range di temperatura di una cantina benfatta. Sono molto pericolose le rapide oscillazioni della temperatura stessa, le peggiori quelle nell’arco di 24 ore, perché è proprio lo sbalzo termico a rovinare il nostro pregiato nettare. Anche per questo sarebbe bene avere una cantina interrata di diversi metri, meglio se costruita con pareti di pietra, che mantengono la naturale coibentazione.

Altrettanto importante è l’umidità. In una cantina casalinga è difficilissimo avere l’esatto standard di umidità compreso tra il 60% e l’80%. Un’umidità più bassa di questa percentuale tende a seccare i tappi di sughero, una più alta può portare alla proliferazione delle muffe. Sono in commercio dei deumidificatori che possono aiutare a stabilizzare l’umidità, ma bisogna dire, onestamente, che mantenerla stabile in una cantina moderna, spesso non interrata, è davvero un’impresa titanica.

La cantina un tempo era il luogo in cui si riponevano i salami e le caciotte appese. Se siete di quelli che ancora lo fanno, non usatela per il vino, perché attraverso il sughero potrebbero penetrane odori sgradevoli. Anche le bottiglie più pregiate, tappate con un sughero monopezzo di altissima qualità, potrebbero risentirne pesantemente. Ragione di più che le caldaie o i bruciatori dovrebbero stare lontani anni luce dalle vostre pregiate bottiglie. A proposito di luce: anche l’illuminazione dev’essere scelta con cura, utilizzando possibilmente delle lampade schermate di bassa intensità. Sconsigliati i classici neon, che forniscono una luce troppo forte per il corretto invecchiamento di una bottiglia. La luminosità eccessiva danneggia il vino accelerandone l’ossidazione, anche per questo per molti bianchi, più suscettibili alla luce, i produttori si orientano su bottiglie scure. Le lampade inoltre producono calore, quindi meglio utilizzare delle luci al LED. Non ultimo le vibrazioni leggere e costanti possono portare a un rapido deterioramento del vino.

Anche la scaffalatura dev’essere pensata in maniera furba, alloggiando il maggior numero di bottiglie in orizzontale. La ragione è legata alla classica e tradizionale tappatura col sughero, mantenuto umido a contatto col vino per conservarne l’elasticità.

Tornando alla prima domanda mal posta, quanto dura un vino, c’è anche un fattore, in ultima battuta, che spesso viene sottovalutato, ed è proprio il tipo di tappo. È chiaro che un grande Brunello di Montalcino o un Barolo saranno quasi certamente chiusi con un pregiato tappo di sughero monopezzo, il cui prezzo può superare anche l’euro. Più il sughero è di buona qualità, più manterrà l’elasticità sulle pareti della bottiglia, evitando uno scambio troppo violento tra vino e ossigeno esterno. Esistono poi in commercio svariate quantità di tappi, tutti indicati per vini diversi, pensati anche per risolvere l’annosa questione della molecola TCA, responsabile dell’odore di tappo. Il tema più interessante emerso ormai anni fa, anche a seguito ad alcune ricerche fatte, è legato proprio alla tenuta del tappo. In particolare, una ricerca dell’Old Bridge Cellars Australian Wine Research Institute, durata 125 mesi, ha chiarito come la chiusura col tappo a vite Stelvin sia quella in grado di conservare meglio il vino a lungo termine.

Ne avevamo già parlato qui qualche tempo fa: dire a un italiano di utilizzare questo tappo per un grande vino da invecchiamento è un po’ come insultare la mamma. Senza prendere posizioni, però, c’è un dato di fatto, cioè che all’estero questa chiusura è molto apprezzata, anche per vini importanti, come i grandi Riesling o gli Chablis del Domaine Laroche. Ora che sapete tutto sulla conservazione del vino, il consiglio migliore che possiamo darvi è questo: dimenticatevi quello che avete appena letto, pensate a un menù importante, scendete in cantina, prendete tra le mani uno dei vostri amati vini e con cura e metodo (specie se la bottiglia ha qualche decennio), stappatela e godetevela!

E se avete paura di commettere degli errori nella stappatura di una preziosa bottiglia di 20 o 30 anni, vi spieghiamo la prossima volta come si fa.

Redazione 09.02.2021

I passiti secchi tra grazia e maestosità

Quando si parla di passiti il primo pensiero va spesso a vini dolci nati da un processo di appassimento. Esistono però casi di vini passiti secchi, ovvero privi di residuo zuccherino o quasi. I due esempi italiani più noti sono quelli dell’Amarone della Valpolicella e dello Sforzato di Valtellina, accomunati da un processo produttivo del tutto analogo e da un impatto nel bicchiere altrettanto assimilabile. Il punto cardine è quello dell’appassimento dell’uva, con perdita di peso e relativa concentrazione che vanno a elevare in potenza struttura e forza espressiva, oltre a incrementare il tenore alcolico. Esiste però un tema ulteriore legato a trasformazioni profonde che avvengono nell’acino e vanno oltre la perdita d’acqua e la concentrazione degli zuccheri.

Durante le fasi di appassimento, infatti, acidi e polifenoli partecipano a una serie di trasformazioni complesse. Determinate classi di composti, responsabili di alcune note complesse come quelle boschive e più genericamente legate alla terra, si attivano specificatamente proprio nell’uva appassita. Senza contare che in molti casi la ricchezza degli acini è ulteriormente accresciuta dall’apporto nobile della botryris cinerea, elemento scatenante e principale responsabile della magia dei vini muffati. Lo Sforzato in particolare viene prodotto in Valtellina dalla lavorazione di uve Nebbiolo, fatte appassire su graticci in fruttai dalla perfetta areazione per circa tre mesi. Il Nebbiolo, in questa vallata, prende il nome di Chiavennasca, una variante che si esprime in una versione alpina distinguendosi per la spiccata freschezza e mineralità. Se i vini valtellinesi si caratterizzano dunque per il loro profilo sottile, lo Sforzato, con il suo vigore, ne rappresenta il nobile contraltare, tanto da creare spesso più di un interrogativo per quanto riguarda gli abbinamenti. Selvaggina? Brasati? Formaggi a pasta dura? Tutte strade percorribili, purché il piatto abbia sufficiente struttura per “reggere” l’accostamento.

Discorsi del tutto simili valgono anche per l’Amarone, il vino icona della Valpolicella. Strepitoso caso di serendipità, è infatti soprannominato “Recioto Scapà” proprio perché deve la sua scoperta alla disattenzione di un cantiniere. Si narra che alcune botti di Recioto, che infatti è un vino dolce, vennero scordate in fermentazione fino all’esaurimento completo degli zuccheri, dando vita incidentalmente all’Amarone. Le uve storiche con cui viene prodotto sono Corvina, Corvinone e Rondinella, a cui è possibile aggiungere altre uve locali e non.[ La raccolta viene fatta utilizzando cassette da circa 7 chilogrammi, dopo una rigorosa selezione dei grappoli. L’appassimento avviene nei fruttai in collina, dove si sfruttano la buona ventilazione e la scarsa umidità. Il processo, che dura tra i tre e i quattro mesi, si può svolgere su stuoie, tavole di legno o sui tradizionali graticci chiamati “arele”. Il risultato è un calo del peso dei grappoli tra il 30% e il 40%. Si procede quindi a una pigiatura soffice, con o senza diraspatura, e a una lunga macerazione, finalizzata alla miglior estrazione di tannini e pigmenti. La fermentazione è lenta e può protrarsi fino a novanta giorni. L’Amarone riposa poi almeno due anni in legno, barrique o comunque botti di rovere. Il risultato è un vino potente e strutturato, caratterizzato da una marcata impronta glicerica e un titolo alcolometrico importante che si attesta in genere tra il 15% e il 16%.

L’Amarone ha saputo ritagliarsi negli anni un palcoscenico internazionale di altissimo profilo e tra i produttori di culto spicca certamente Romano Dal Forno. All’età di ventidue anni, l’incontro con il leggendario Giuseppe Quintarelli segna la via verso una ricerca della qualità assoluta, quasi ossessiva. La versione 2013 dell’Amarone Monte Lodoletta è un monumento di smisurata energia a questa tipologia di vino nella sua espressione più nobile.

Quattro mesi di appassimento, sessanta mesi di barrique, esprime già al naso tutta la sua maestosità con sentori di succo di mirtillo cui fanno da contrappunto le note di cacao amaro. Il sorso è sontuoso, materico, sottilmente terroso. Un polo sul frutto, con la prugna e il lampone in primo piano, un secondo polo su note scure di liquirizia, un terzo polo sui toni caldi del cuoio. La ricchezza di Monte Lodoletta è strabordante e il ventaglio apre ulteriormente su una miriade di altre suggestioni raffinate tra cui spicca il tartufo bianco, punto d’incontro sublime tra lo scuro della terra e il chiaro di sensazioni raffinatissime. E proprio questo caleidoscopio, che apre generosamente a nuove nuance senza soluzione di continuità, porta a pensare che forse il posto giusto per un vino come questo non è tanto accanto a un piatto quanto a fine pasto, per conto proprio. Quando il clangore di piatti e stoviglie lascia spazio al suono dolce delle chiacchiere senza fretta, e il piacere più grande è quello di prendersi tutto il tempo che serve.

di Graziano Nani 21.01.2021

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Benanti: avanguardia etnea

Salvino Benanti, insieme al fratello Antonio, si occupa da alcuni anni dell’azienda agricola fondata dal padre Giuseppe negli anni Ottanta. Dagli inizi fino ad arrivare al nuovo corso inaugurato con il cambio generazionale, abbiamo chiesto a Salvino di ripercorrere la storia di una realtà che ha contribuito in maniera determinante alla rinascita vitivinicola dell’Etna, diventando un punto di riferimento per tutto il territorio.

La vostra è una storia di famiglia ancora prima che aziendale, impossibile quindi non iniziare da qui. Ci racconti come e quando tuo padre ha scelto di occuparsi di vino?

Faccio un piccolo excursus storico: la mia famiglia si è trasferita da Bologna in Sicilia nel Settecento, da allora abbiamo sempre avuto terreni e, in qualche misura, un rapporto con il mondo agricolo. Poi, ai primi del Novecento, il mio bisnonno divenne uno dei primi farmacisti di Catania. L’attività venne portata avanti da mio nonno Antonio, che si inventò, nel vero senso della parola, alcune formulazioni originali nel retrobottega della sua farmacia. Da quelle invenzioni è nata un’azienda vera e propria che ancora oggi esiste e che ha un fatturato molto importante. Ho fatto questa premessa perché, per molti anni l’attività principale di famiglia è stata questa e la campagna e le vigne erano soprattutto una questione di passione e di tempo libero. Solo alla metà degli anni Ottanta mio padre decise di rimettere in attività in maniera seria e meditata la parte agricola.

Quale è stata la molla che lo ha portato a immaginare un progetto come quello della vostra cantina, per molti aspetti visionario per quegli anni sull’Etna?

Credo che, arrivato a un certo del suo percorso, mio padre sentisse la necessità di fare qualcosa di interamente suo, anche se più piccolo rispetto all’azienda farmaceutica. Sicuramente ha avuto ruolo indiretto il suo lavoro, che lo ho portato a viaggiare molto e ad avere una mentalità aperta e cosmopolita. Questa mentalità unita al forte legame affettivo con la terra, gli ha fatto venire voglia di fare qualcosa di altamente qualitativo sull’Etna, sul modello di tante cantine che aveva visitato all’estero. Aveva il desiderio di valorizzare tutto il potenziale che c’era qui ma al quale era sempre mancata una visione imprenditoriale di un certo tipo.

C’è anche un altro aspetto: mio padre per circa vent’anni ha continuato a portare avanti tutte e due le professioni e il fatto di avere alle spalle un solido lavoro imprenditoriale gli ha dato la possibilità di investire e sperimentare, prendendosi tutto il tempo necessario per farlo. Non aveva la necessità di guadagnare da subito come produttore di vino.

A parte l’approccio imprenditoriale che dicevi, rispetto al panorama enologico di quel periodo, cosa ha portato lui che ancora non c’era?

Diciamo che il mondo del vino dell’Etna era molto embrionale all’epoca, c’erano due o tre realtà di grande qualità, che però lui voleva “sfidare”. È stato il primo a puntare con convinzione sulla DOC dell’Etna e sull’internazionalizzazione. E, cosa nuova qui in quegli anni, ha messo in piedi un gruppo di lavoro importante con figure locali di grande esperienza ma anche con consulenti che venivano da fuori, dalla Borgogna e dalle Langhe soprattutto.

Tutti noi, qui, gli dobbiamo qualcosa perché ha avuto un’intuizione e l’ha portata avanti, mosso solo dalla passione. Anche quando gli stessi consulenti gli suggerivano di investire sui vitigni internazionali, mio padre ha sempre insistito perché il focus fosse tutto sui vitigni autoctoni: il Nerello Mascalese, il Nerello Cappuccio e il Carricante. Anche se il disciplinare ammette il Catarratto, che è stato importato dal resto della Sicilia ormai tantissimo tempo fa, noi utilizziamo da sempre come uva a bacca bianca esclusivamente il Carricante perché dal nostro punto di vista esprime una tipicità più marcata e genuina.

Tu e tuo fratello Antonio avete affiancato vostro padre nella gestione della cantina circa una decina di anni fa, per poi subentrare a lui. In questo passaggio di testimone generazionale è evidente una continuità dal punto di vista dei valori e della visione ma ti chiedo anche cosa avete portato di vostro in azienda e che cifra state cercando di imprimerle.

A livello personale, ti direi che abbiamo seguito un percorso simile a quello di nostro padre: arrivati intorno ai quarant’anni, proprio come lui, abbiamo sentito il bisogno di fare qualcosa di diverso, più semplice e più legato alla terra. Abbiamo maturato progressivamente l’idea di dedicarci solo all’azienda agricola e per questo, d’accordo con lui, siamo arrivati alla decisione di cedere totalmente la nostra parte dell’azienda farmaceutica per diventare contadini moderni a tempo pieno, diciamo così.

Per il resto, il momento in cui noi siamo entrati in cantina è molto diverso da quello che ha vissuto papà, che ha iniziato da solo, per molto tempo ha lavorato da solo e ha visto anche la situazione sull’Etna cambiare molto con l’arrivo di nuovi investitori. Noi, invece, siamo arrivati in una fase in cui tutto era molto più definito e venendo da una formazione manageriale è stato per noi relativamente facile analizzare lo status quo e capire dove e come intervenire. Siamo stati aiutati, credo, anche dal fatto di essere meno coinvolti emotivamente, per questo abbiamo potuto fare le nostre valutazioni con una certa razionalità.

Da queste riflessioni e da un lungo periodo di studio sono nate alcune scelte: cedere alcuni terreni e acquistarne altri, ammodernare la cantina con tecnologie più evolute, ripensare il sistema delle nostre etichette e far crescere il nostro enologo. Enzo Calì è in azienda da quando si è diplomato ma prima era affiancato da consulenti, oggi è l’unica figura di riferimento. Adesso, abbiamo una struttura che per noi è quasi quella definitiva e che ci ha permesso di reggere molto bene anche in quest’anno così difficile per via della pandemia.

Dicevi che siete intervenuti sul sistema delle etichette, in che modo?

L’obiettivo è stato quello di dare maggiore intelligibilità al nostro portfolio, che rispecchiava molto il carattere eccentrico di nostro padre. Lui ha iniziato, per inclinazione personale, con vini dal lunghissimo affinamento: Pietra Marina, Serra della Contessa e il suo gemello sul lato Nord, il Rovittello – le nostre icone insomma – sono nati subito. Poiché questi sono vini di nicchia, sia per la loro complessità, sia per una questione di fascia di prezzo, nel tempo, ha ampliato l’offerta con vini più semplici da approcciare. In questo modo, però, si è creata una polarizzazione: da un lato le etichette da beva più semplice per un pubblico più ampio, dall’altro, i vini da collezione, senza nessuna sfumatura in mezzo.

Noi abbiamo cercato di riempire questo vuoto, ripensando contemporaneamente i due poli: abbiamo spinto ancora più su le tre Icone – allungando l’affinamento da tre a cinque anni e facendo diventare riserva il Serra della Contessa e il Rovittello – e abbiamo alleggerito i base (che oggi chiamiamo i Tradizionali) rispetto all’impostazione di nostro padre, che proprio non riesce a concepire vini che non stiano una vita in cantina!

Ora sono più snelli: sono dei vini di grande tipicità, non ruffiani, dove il vitigno emerge con forza e semplicità. Sono anche vini longevi ma chiaramente sono concepiti per uscire ogni anno e per un consumo quotidiano.

La fascia di mezzo è rappresentata dalle Contrade.

Sì, esatto. Sono una sorta di mappa organolettica delle tipicità dell’Etna, perché in questo caso vinifichiamo per zone e quindi osservando la DOC, da nord, est, sud, sud ovest, si incontrano vari vigneti e ognuno produce un rosso o un bianco o a volte entrambi. È una linea che permette di apprezzare – in senso orizzontale – le sensibili differenze fra le diverse zone ed è destinata a crescere nei prossimi anni.

Tornando per un attimo alle due Icone Serra Della Contessa Particella No. 587 e Rovittello Particella No. 341: da qualche anno applicate una sorta di zonazione estrema, perché lavorate su singole parcelle, come riportano anche le due etichette.

Sì, sono vini riserva che provengono da vigne vecchissime, fanno cinque anni di affinamento e sono prodotti in quantità estremamente limitata. Li rilasciamo dal 2015 con l’idea che le persone li comprino non per consumarli subito ma per lasciarli in cantina per almeno altri cinque o sei anni, perché sono vini che si possono apprezzare pienamente quando raggiungono un livello di maturazione elevato. Il nostro desiderio è che il collezionista si possa costruire, progressivamente, la sua personale verticale.

In questo percorso come si inserisce il vostro recente studio sui lieviti indigeni?

Da buon perfezionista e chimico, nostro padre, a un certo, ha ritenuto che fosse giunto il momento di abbandonare i lieviti commerciali in favore di qualcosa di autoctono. Abbiamo suoli così diversi dal resto della Sicilia, per giunta figli di un vulcano ancora attivo, i nostri vitigni sono autoctoni: è un controsenso lavorare con lieviti che possono essere utilizzati per fare qualunque altro vino in qualunque parte d’Italia. Cercavamo un lievito che fosse tanto stabile da assicurare una vinificazione perfetta ma che preservasse le qualità organolettiche dell’uva, senza aggiungere nulla di alloctono. Nostro padre ha progettato lo studio e poi la realizzazione è avvenuta in collaborazione con l’Istituto Regionale della Vite e del Vino.

Come siete arrivati al risultato finale?

È stato tutto molto semplice ma anche meticoloso e scientificamente impeccabile. Siamo andati, a fine fermentazione, nelle cantine dei contadini che ancora producono vino, per recuperare dalle loro vasche di pietra lavica – i tradizionali palmenti – quello che era rimasto sulle pareti. In questo modo abbiamo isolato centinaia di ceppi, che sono stati replicati in laboratorio e successivamente usati per fare micro-prove di vinificazione. Partendo da questo lavoro preliminare, alla vendemmia successiva abbiamo isolato decine di parcelle di mosto e le abbiamo fatte fermentare con lieviti diversi per capire come lo stesso mosto si comportava in differenti situazioni. Al termine di questa lunga fase di test siamo arrivati ad avere solo quattro lieviti, quelli che più ci hanno convinti. Questi sono a tutti gli effetti i nostri lieviti: uno per ognuno dei due Nerelli, uno per il Carricante e uno per i due spumanti.

Abbiamo raggiunto l’equilibrio che cercavamo: una fermentazione impeccabile, non spontanea, che parte, però, da un lievito super indigeno, per avere un vino molto tipico e territoriale. La vinificazione controllata gli conferisce uno stile fatto di eleganza, purezza e discrezione. Vogliamo, infatti, che i nostri non siano vini potenti e esplosivi ma di grande finezza.

Tornando a guardare al territorio, forse la fase più strettamente sperimentale è superata ma senz’altro sull’Etna c’è ancora tanta vivacità. Come vedi il futuro?

Ovviamente la pandemia ha cambiato moltissimo il contesto di riferimento e rallentato la crescita di tutti. Adesso ci aspettano, credo, anni di consolidamento. In prospettiva ci saranno, secondo me, meno piccolissimi produttori e più realtà medio-grandi. Si tratta anche di un passaggio fisiologico, perché alla fine la nostra è una piccola DOC e ci sono già quasi 200 cantine. Per poter affrontare un mercato sempre più competitivo è necessario essere adeguatamente strutturati, dal punto di vista finanziario e da quello dell’approccio: si deve continuare a essere romantici ma non si può più improvvisare, bisogna avere capacità di investire, essere molto coerenti in tutto – nelle piccole e nelle grandi cose – e darsi un orizzonte ampio. Chi ha le spalle più larghe, ha più strumenti per far fronte a tutto questo. E del resto è inevitabile procedere in questa direzione se davvero la nostra DOC si vuole confrontare alla pari con le grandi realtà internazionali.

In tutto questo, la cosa bella dell’Etna è che si è creato una sorta di movimento di giovani produttori, tutti molto appassionati e perbene che credono nel lavoro di qualità e che fanno gioco di squadra. E questo è importantissimo: lavorare non solo per sé ma anche per la valorizzazione dell’intero territorio rende più forti tutti noi.

Redazione 11.01.2021

Cambiamenti climatici: la resilienza delle bollicine di montagna

“Non ci sono più le stagioni di una volta” dice la saggezza popolare, ma modi di dire a parte, il cambiamento climatico è sicuramente un fatto di attualità che costantemente trova conferma nel nostro quotidiano. Il professor Attilio Scienza, docente di viticoltura all’Università Statale di Milano e noto esperto internazionale del settore, lo etichetta come un fatto ormai inconfutabile. Gli studi si sprecano e alcune delle previsioni più allarmanti prevedono che fra cent’anni la Sicilia sarà un deserto e che la Pianura Padana avrà le stesse temperature dell’attuale Pakistan, con tutte le conseguenze del caso. In un mio recente viaggio nel territorio della Mosella tedesca un produttore mi disse che, se quarant’anni fa portare a maturazione perfetta le uve era un’operazione che riusciva due o tre annate ogni decennio, con il nuovo millennio questo accade praticamente a ogni vendemmia senza nessun problema.

Sono tante le conseguenze che questo stravolgimento climatico porterebbe con sé. Il caldo eccessivo conduce inevitabilmente ad un calo dell’uva prodotta, espone la vite ad un maggior rischio di contrarre malattie e forse potrebbe anche portare all’insorgere di alcune nuove patologie nel futuro, a noi ancora sconosciute in campo agronomico. Le alte temperature, soprattutto in fase di vendemmia, creerebbero scompensi dal punto di vista dei profumi del vino portando ad uno sviluppo aromatico incompleto, causato dell’alterazione dei tempi di maturazione, fino al rischio di scomparsa di alcune varietà. Soprattutto quelle con una limitata capacità di adattamento come il Pinot Nero.

Anche la struttura generale dei vini risentirebbe di questi cambiamenti, il profilo organolettico metterebbe in evidenza degli aromi più maturi ed evoluti mentre la struttura, arricchita da un aumento medio dell’alcol, ci riporterebbe ad uno stile ricco e concentrato simile a quello di 20/25 anni fa che da qualche anno abbiamo (finalmente, direi) dimenticato. Ma è tutto così nero? Questo scenario appare decisamente sfavorevole per il produttore ed ancor più per l’appassionato, ma per rincuorarli bisogna dire che la natura ha sempre dimostrato di avere mille risorse e che la vite, nello specifico, evidenzia tra le sue caratteristiche principali la capacità di adattamento come fattore determinante per la sua sopravvivenza. La pianta in parte sa, quindi, compensare questi mutamenti climatici e se aggiungiamo il fatto che l’esperienza dell’uomo porterà (e sta già portando) a un adattamento dei metodi di coltivazione, ecco che tutto ricomincia a prendere colore e che lo scenario riappare improvvisamente meno buio. Anche la tecnologia e la ricerca possono risultare determinanti in questo percorso. La prima può contribuire con lo sviluppo di sistemi sempre più evoluti in termini di prevenzione, ad esempio individuando singolarmente le piante in sofferenza grazie ai droni, oppure portando allo sviluppo di sistemi di irrigazione sempre più evoluti. La ricerca può aiutare, sostiene sempre il professor Scienza, in tanti altri modi: utilizzando sesti d’impianto più distanziati in modo da favorire lo sviluppo in profondità delle radici, delocalizzando i vigneti in zone collinari, nell’entroterra, vicino alle coste o soprattutto in quota.

Non ultima, anche la genetica può risultare utile in questo percorso. Il miglioramento dei portainnesti (che non si sono praticamente più evoluti dai tempi della fillossera) e la selezione di viti più resistenti alle alte temperature e capaci di conservare le acidità nei grappoli nonostante il calore, possono essere aiuti determinanti.

Da trentino, posso testimoniare come negli ultimi anni la scelta di innalzare la quota dei vigneti sia stata una scelta vincente in questo contesto e sia sempre di più la tendenza del momento. L’altitudine è uno dei fattori determinanti per i quali questi scenari introduttivi, che potrebbero spaventare più di un lettore, appaiono meno preoccupanti. La media degli impianti utilizzati per la produzione del Trentodoc supera i 450/550 mt e raggiunge le quote massime poco sotto i 900 mt di elevazione. Qui le escursioni termiche garantite dalle Dolomiti, la grande esposizione ai venti sui ripidi pendii e il clima fresco del periodo di vendemmia sono dei validi alleati ,che si sommano a tutto quanto già raccontato nelle riflessioni precedenti. La produzione del Trentodoc ne è il più chiaro esempio: le uve raccolte in quota presentano aromi ricchi e maturi, le acidità sono perfettamente conservate e permettono di sostenere affinamenti sui lieviti molto lunghi, alle volte superiori alla decina di anni. Ecco quindi che l’appellativo di “bollicina di montagna” si addice perfettamente ai caratteri che il territorio riesce ad imprimere. Parlando di Trentino è impossibile non citare il percorso – storicamente lungimirante e innovativo – di Ferrari: la cantina fondata dal pioniere del Metodo Classico, Giulio Ferrari, già più di cento anni fa aveva intuito il potenziale del nostro territorio e, ormai da tempo, ha certificato la sua produzione come totalmente biologica, sviluppando recentemente impianti nuovi che sfruttano l’elevazione del territorio.

L’esempio virtuoso del Trentino è, naturalmente, solo uno dei tanti che si possono trovare nel panorama produttivo, ma è quello che conosco meglio. Ovviamente la speranza è quella che il riscaldamento del pianeta non continui con il passo degli ultimi anni, che la sensibilità dell’uomo porti alla tutela dell’ambiente – prima – e allo sviluppo di una serie di accorgimenti che ci permettano di assaggiare vini sempre più espressione del territorio, avendo sempre ben chiara la consapevolezza che alla natura non si comanda, se non assecondandola.

– di Roberto Anesi 22.07.2020

Sommelier e ambassador di Trentodoc, Roberto Anesi vive a Canazei, dove si occupa del suo ristorante El Pael. Nel 2017 ha ricevuto il premio come miglior sommelier d’Italia AIS.

Le carte del vino. Atlante dei vigneti del mondo

La storia del vino e la sua geografia in 100 cartine d’autore

Una pubblicazione di Slow Food Editore del 2018 che è già, a suo modo, un piccolo classico per gli appassionati e gli addetti ai lavori. 

Le carte del vino, infatti, è un accuratissimo atlante storico-geografico che racconta la diffusione della vite e dei diversi vitigni nel mondo: dalla Georgia all’Italia, dalla Francia agli Stati Uniti, senza dimenticare la Spagna, l’Uruguay, il Giappone, il Sudafrica e anche luoghi solitamente trascurati dalle mappature come Tahiti o il Kazakistan. 

Un’ampia panoramica attraverso ottomila anni di storia e cinquantasei paesi per ripercorrere, luogo per luogo, la storia dei vitigni e la loro evoluzione, le denominazioni e le caratteristiche essenziali dei loro vini, fino ad arrivare alla situazione del presente, con dati sulla produzione e spunti degustativi. Tutto questo sotto forma di atlante, quindi attraverso cento cartine geografiche splendidamente illustrate. Il libro è firmato da Adrien Grant Smith Bianchi e Jules Gaubert-Turpin, due studiosi appassionati di vino e cartografia che hanno scelto di raccontare il terroir dalla prospettiva delle mappe e della geografia. Le illustrazioni sono del primo, i testi del secondo.

Adrien Grant Smith Bianchi e Jules Gaubert-Turpin, Le carte del vino. Atlante dei vigneti del mondo, 2018, Slow Food Editore

– Redazione 28.07.2020

Quattro libri da regalare a veri wine lovers

Regalare un’ottima bottiglia è sempre una buona idea, su questo non c’è il minimo dubbio ma se volessimo affiancarle una buona lettura, capace di arricchire ulteriormente l’esperienza di chi la riceve in dono? Abbiamo selezionato per voi alcune idee regalo, perfette (secondo noi) per far felice il vero appassionato, quello che il vino ama berlo ma anche studiarlo e comprenderlo.

Cogli l’acino. I grandi vitigni del mondo in un sorso (EDT, 2020) di Maryse Chevriere è un gradevolissimo e agile manuale per chi vuole approfondire in modo facile e non eccessivamente tecnico il mondo del vino, partendo dal suo elemento base: l’uva. Il libro, infatti, ci accompagna in una ricognizione attraverso le trentatré principali varietà viticole internazionali – dallo Chardonnay al Sauvignon Blanc, dal Gewürztraminer al Trebbiano, dal Syrah alla Grenache, dalla Barbera al Petit Verdot, dal Mourvèdre al Sangiovese – per mostrarci come la stessa varietà assume un carattere e sfumature diverse se allevata in luoghi diversi.

La descrizione di ogni vitigno è accompagnata da informazioni sulle sue diverse declinazioni territoriali e da suggerimenti sulle modalità di degustazione. Una sorta di prontuario facile da consultare per chi si avvicina per la prima volta a questi argomenti ma altrettanto utile per chi la materia già la conosce e desidera uno strumento di consultazione veloce da tenere sempre a portata di mano. Il respiro del vino (Mondadori, 2018) nell’arco di pochi anni è già diventato un piccolo classico della letteratura enologica di casa nostra con la firma di Luigi Moio, professore di Enologia all’Università degli Studi di Napoli Federico II, consulente enologo di tante importanti cantine e a sua volta produttore con il bel progetto di Quintodecimo. Il libro è il condensato di vent’anni di studio sugli aspetti sensoriali e biochimici dell’aroma del vino e si concentra su ogni singola componente del suo profumo per raccontarci, in modo scientificamente rigoroso ma allo stesso tempo narrativo, quanto potere sensoriale è racchiuso nel gesto semplice di accostare il naso al bicchiere. Una lettura affascinante che può davvero cambiare il modo in cui assaggiamo e “leggiamo” il vino che beviamo.

The 100 Burgundy: Exceptional Wines To Build A Dream Cellar (2019) edito da Assouline – editore da sempre sinonimo di eleganza e alta cultura – e firmato dalla Master of Wine Jeannie Cho Lee, è una raffinata guida ai migliori vini e ai più importanti domaine di quella terra mitica per tutti gli appassionati che va sotto il nome di Borgogna. Una mappatura puntuale ed estremamente accurata che ruota attorno ai 100 vini eccezionali, fra nomi storici e talenti emergenti, che non dovrebbero mancare nella cantina di un amatore.[

Concludiamo con un altro libro di Assouline che è a sua volta un prezioso oggetto da collezione: The Impossible Collection of Wine, dove il grande sommelier Enrico Bernardo si cimenta nell’impresa di disegnare la cantina perfetta del collezionista perfetto, attraverso una ricognizione fra i vini più ambiti e desiderati del mondo. Annate leggendarie, etichette mitiche e cantine che hanno fatto la storia dell’enologia internazionale vengono celebrate in questa lista ideale e “impossibile” che fa sognare ad occhi aperti. Il libro ha un formato oversize e una veste preziosa, come le storie che racconta.

– Redazione 18.12.2020

Con Cecilia Leoneschi alla scoperta di Castiglion del Bosco e Tenuta Prima Pietra

L’enologa delle due aziende di proprietà di Massimo Ferragamo ci racconta il suo lavoro, in equilibrio fra memoria storica e futuro, fra territorialità e dimensione internazionale.

Prima di tutto, ci vuole raccontare un po’ di sé e di come si è avvicinata al mondo del vino?

Come dico spesso, il mio non è stato un incontro con il mondo del vino perché, in qualche modo, ci sono cresciuta dentro. Mio padre si è sempre occupato della parte viticola ed era socio di un produttore della nostra zona, quella di Morellino di Scansano. Non abbiamo mai lavorato insieme ma mi ha trasmesso indirettamente la passione, perché l’ambiente in cui vivevamo era quello: gli assaggi, gli incontri con produttori, le vigne. Ho assorbito tutto in maniera naturale, senza quasi accorgermene. Quando ho iniziato a studiare e poi a fare pratica mi sono resa conto che alcuni aspetti di questo lavoro li conoscevo già perché li avevo visti da sempre e interiorizzati. Insomma, non è stata tanto una scelta quanto un punto d’arrivo naturale, direi che più che altro sono stata brava ad assecondare le mie inclinazioni.

Lei è enologa delle due tenute fin dall’inizio, come è nato l’incontro con Massimo Ferragamo?

Uno suoi dei collaboratori – che già conoscevo – mi contattò perché stavano cercando un enologo interno per Castiglion del Bosco. Ovviamente l’idea di lavorare a Montalcino – io all’epoca ero impegnata a Montepulciano – su un progetto nuovo, per giunta, mi ha subito stimolata. È stato abbastanza particolare quello che è accaduto il giorno dell’incontro. Arrivata lì, ho pensato di aver sbagliato posto. I tornanti, la strada bianca, il bosco tutto intorno: non capivo dove potessero essere i vigneti. Poi a un certo punto, sempre convinta di dover tornare indietro, ho scorto in mezzo al bosco questa bellissima lingua di vigneti. Sono rimasta incantata. Credo di aver fatto la mia scelta in quel momento.

Sembra che sia stato il luogo a scegliere lei e non viceversa.

È stata sicuramente una decisione d’istinto. Non dico che tutto il resto è passato in secondo piano perché, naturalmente, c’era il progetto, una proprietà importante alle spalle, il carattere squisito di Massimo, ma lui lo sa: la bellezza del posto ha fatto per me la differenza.

A proposito di Castiglion del Bosco: la sua fondazione risale al 1100 ed è un luogo che si è conservato, di fatto, intatto nel tempo. Dunque, davvero, parliamo di un patrimonio storico, culturale e ambientale prezioso. Come ci si rapporta con una storia così importante? E come si coniuga il desiderio di fare qualcosa di nuovo (con un’identità propria), con un’eredità così impegnativa?

È necessario prima di tutto un grande senso di responsabilità: qualunque cosa – per quanto meravigliosa – si voglia fare qui, va fatta seguendo una linea che arriva dal passato. Vanno lette in questo senso tutte le nuove strutture ricettive costruite (il resort, il golf club), che sono perfettamente integrate con il contesto. Ogni singolo gesto, qui, è sempre condotto con l’idea di preservare tutta questa bellezza e questa cultura. Per quanto riguarda il mio lavoro, prima di tutto sono stata guidata dall’umiltà: ho fatto un passo indietro e ho passato tanto tempo a osservare quello che avevo attorno. Sono una persona molto energica, qui ho imparato a frenarmi, perché ho letteralmente passato anni a comprendere i vigneti. Castiglion del Bosco viene da una storia lunghissima e molto frammentata, con tanti cambi di proprietà ravvicinati nel tempo, che portavano ogni volta stravolgimenti nella gestione. Anche i vini che ho trovato in cantina non avevano una vera identità, perché non raccontavano il luogo ma questi continui cambi di rotta. La vera fortuna è stata poter lavorare con persone che sono nate nei poderi delle tenuta e che sono davvero la nostra memoria storica. Ecco, ho sentito fin da subito che qui bisognava prima imparare tanto e solo dopo iniziare a fare. E su questo Massimo mi ha dato sempre pieno appoggio, anzi direi che c’è proprio una sintonia nel sentire.

Castiglion del Bosco propone tre differenti interpretazioni del Brunello. Se dovesse indicarci un tratto comune che lega, quale sarebbe?

C’è una fortissima linea comune che è quella dell’identità del vigneto. A partire dal Brunello classico – che abbraccia i numeri più grandi – fino alla selezione del Campo del Drago, c’è stata una scelta, ragionata ma anche appassionata, di forte legame con il vigneto. Questo perché, l’azienda è abbastanza grande – 60 ettari sono tanti a Montalcino, soprattutto se il 90% è iscritto a Brunello – e allora, a mio avviso, se vuoi far capire chi sei devi spostare la tua attenzione dall’azienda nel suo insieme e concentrarla sulle vigne. Lo sforzo che ho cercato di fare è stato quello di parcellizzare al massimo e vivere l’azienda come una somma di piccoli vigneti, ognuno con le sue caratteristiche e dunque con le sue operazioni colturali specifiche e diverse dalle altre. Oggi, se il Gauggiole, così sottile e fragrante, ha una certa risonanza con il 1100, che invece è pieno e ricco, è perché c’è un filo conduttore che risiede nella forte identità. Pur nella loro diversità, questi vini parlano la lingua del loro territorio, che è rimasto integro nel tempo grazie anche al suo isolamento. Ecco, in un certo senso, ho fatto diventare l’isolamento la cifra di questi vini.

C’è poi Zodiaco, un’edizione limitata del Brunello. Ce lo vuole raccontare?

A differenza di tutti gli altri che, come dicevo, sono molto identitari, nel caso di Zodiaco abbiamo seguito il percorso inverso: prima è nata l’idea e poi il vino. Massimo voleva rendere omaggio al cielo stellato – che qui, come può immaginare, in certe sere si vede magnificamente – e così è nata l’idea di usare il filo conduttore dello zodiaco e dell’oroscopo cinese. È una riserva, quindi mantiene un carattere di eccellenza, ma è un vino slegato dai singoli vigneti e dall’annata, perché dovendo seguire lo zodiaco non possiamo non produrlo e, per questo, nasce ogni anno da un vigneto diverso, che viene scelto sulla base della caratteristiche che cerchiamo. È sorta di un esercizio creativo che può nascere solo dalla conoscenza approfondita, che oggi abbiamo, dei singoli vigneti e di quello che possono dare.

Entrambe le tenute operano in biologico, sicuramente nel vostro caso è una scelta favorita dal fatto che tutte e due sono due ecosistemi protetti, isolati. Dal punto di vista delle pratiche in vigna cosa comporta?

Ho iniziato a seguire i vigneti Castiglion del Bosco solo dopo qualche anno, nel 2009, e ho chiesto alla proprietà di passare al biologico perché mi è sembrata la scelta più giusta per un posto così preservato. Ma non ho un approccio ideologico all’argomento perché oggi dire che un vino è biologico è dire troppe cose. È una definizione che abbraccia prodotti diversissimi e anche impostazioni di lavoro iper-diversificate, che dipendono da una serie di fattori – il territorio, la vigna, la mano del produttore – e se non si tiene conto di tutto questo rimane solo un’etichetta che di un vino e che del lavoro che c’è dietro dice molto poco. Operare in biologico è solo un pezzo del percorso, c’è poi tutto il resto che conta altrettanto: la scelta delle persone che lavorano con te, la decisione di lavorare meno i vigneti, di non prepotare, di produrre o meno il proprio compost. Allora per me, definizioni a parte, è tutto questo insieme a raccontare la qualità del lavoro che viene fatto.

Quindi più uno strumento di lavoro che “una visione”.

Sì. Le aziende agricole hanno per me una grandissima responsabilità. Abbiamo fatto molti danni in passato e possiamo farne ancora. Abbiamo il dovere di essere rispettosi verso il prodotto non solo perché, se fatto in un certo modo, è più buono ma anche perché è meglio per l’ambiente, perché in questo modo lo proteggiamo. È chiaro che la chimica non può funzionare. E se ami il tuo lavoro e il luogo in cui lo fai, naturalmente la scelta è quella, senza bisogno di scrivere biologico o biodinamico sulla bottiglia.

Tenuta Prima Pietra, invece, è già “nata” in biologico.

Sì, fin dall’inizio. Le dimensioni più contenute mi hanno consentito di sperimentare e studiare molto. L’esperienza maturata l’ho poi riportata su scala più ampia a Castiglion del Bosco.

A Prima Pietra, rispetto a Castiglion del Bosco siamo al polo opposto: da una parte una storia ultrastratificata, dall’altra una tenuta giovane fondata ex-novo. Come è nata?

Massimo ha scelto Riparbella prima ancora dell’acquisto di Castiglion del Bosco. In una maniera tutto sommato casuale. Nel 2002 stava cercando una piccola azienda dove fare un ottimo vino dalle parti di Bolgheri; la zona, però, all’epoca era già abbastanza satura, soprattutto nella parte collinare, la più adatta al vino d’eccellenza che lui aveva in mente. E così, mentre cercava alternative sempre in collina, si è imbattuto in questo posto bellissimo, dove non c’era davvero nulla ma per posizione ed esposizione era evidente che ci fosse del potenziale.

Avete scelto un’impostazione “internazionale”, è stata una scelta fatta da subito, dunque.

Per quanto sia nata e cresciuta in Maremma e sia molto fedele al territorio, non ho mai pensato di impiantare il Sangiovese a Riparbella, perché il Sangiovese d’espressione che ho in mente io sta un po’ lontano dal mare, è più arretrato. L’idea era quella di lavorare con vitigni internazionali ma che rispetto a Bolgheri si potessero differenziare parecchio, soprattutto grazie al microclima. Una strada già intrapresa da Luca D’Attoma ma che noi piantando così in alto abbiamo estremizzato un po’. Per darle un’idea, siamo vicinissimi a Bolgheri ma iniziamo a vendemmiare circa tre settimane dopo. Gli internazionali sono stati una scelta giusta ma ci siamo molto allontanati dall’idea di fare un vino alla maniera di Bolgheri, perché in quel contesto microclimatico non avrebbe avuto senso. È stata anche una sfida, possibile anche perché a Prima Pietra c’è sicuramente più libertà. Mentre a Castiglion del Bosco ci si muove in punta di piedi per tutti i motivi che dicevamo prima, a Prima Pietra si può seguire maggiormente la propria inclinazione.

Come li descriverebbe questi vini, allora?

L’ambizione è di pensare che ormai, dopo anni di lavoro, rimandino più a un’idea di fragranza e vibrazione di certi vini di Bordeaux che non alla pienezza e al calore che sento nei vini di Bolgheri. Iniziano ad avere un loro carattere che li differenzia dai “vicini” di casa. Oggi mi piace pensarli come due bambini irrequieti, perché, sicuramente c’è un potenziale ancora in parte inespresso. Sono dei vini molto nervosi che con l’affinamento si sedano un po’, ma hanno ancora qualcosa da tirare fuori. Sono proprio dei bambini che devono finire di crescere.

Permassimo è una dedica a Massimo Ferragamo, come è nato?

È nato quasi come un gioco. Io sono fissata, da sempre, con la qualità dei nostri Cabernet. Ogni anno preparavo questi campioni da far assaggiare a Massimo etichettandoli come “per Massimo”. E lui assaggiava ma non era mai troppo convinto e un po’ mi prendeva in giro per la mia predilezione. A un certo punto, un anno, ho preparato tre campioni alla cieca di Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot. Quello che lo ha convinto di più è stato il Cabernet Sauvignon: Permassimo è nato da quell’assaggio. È un blend con una prevalenza di Cabernet Sauvignon e in parti minori Cabernet Franc e Merlot, per ora quanto meno, poi le cose potrebbero cambiare. In parte è ancora un gioco perché è un vino che deve maturare ma è un gioco fatto seriamente perché ormai della qualità dei nostri Cabernet siamo tutti ugualmente convinti.

Anche Tenuta Prima Pietra è un posto un po’ speciale paesaggisticamente

Massimo è un patito del vigneto vista mare e credo che abbia scelto Riparbella proprio per questo. È un contesto molto più raccolto e intimo rispetto alla maestosità di Castiglion del Bosco ma lo stesso con un fascino non comune. Diciamo che sono un’enologa molto fortunata a lavorare circondata da tanta bellezza.

Redazione 15.12.2020

Brindisi alla bellezza

Palato e olfatto già lo conoscono, e apprezzano, ma il nettare degli dei è un toccasana anche per la pelle. Non a caso, curarsi con l’uva è un beauty treatment già presente nelle routine di antichi Arabi e Romani come in quella delle dame del Rinascimento che amavano preparare un impasto a base di mosto da utilizzare come una moderna maschera a effetto rimpolpante immediato. 

Per il mondo della cosmesi, la vite è paragonabile a uno scrigno contente tutti gli ingredienti per creare un elisir di eterna giovinezza. Vitamine, principalmente A e C, e minerali a effetto esfoliante e idratante sono racchiusi negli acini; il potere antiossidante e rigenerante invece, proviene dalle foglie e dai semi. Un calice da alzare e assaporare tutti i giorni per contrastare efficacemente i radicali liberi – responsabili di quei fastidiosi segni di espressione e rughe profonde – ridare luminosità ed elasticità alla pelle, prontamente servito dall’estetista di fiducia – di nome polifenoli, viniferina e tannino. 

Per ricreare una perfetta spa a casa cercando di contrastare il tempo e immergendosi, al contempo, in un’esperienza totalizzante a base di vino non è necessario stipulare un patto mefistofelico alla stregua di Dorian Gray, ma affidarsi a un rituale di bellezza personalizzato. Figlio d’arte: Active Botanical Serum by VINTNER’s Daughter

Un potente siero ad assorbimento rapido creato da April Gargiulo, figlia di viticoltori, nel 2014. E proprio alle più sofisticate tecniche di vinificazione si ispira il processo di formulazione dell’Active Botanical Serum in cui ogni ingrediente è stato scelto accuratamente per agire in sinergia con gli altri. L’olio di semi d’uva si fonde a scorza di limone, fiori di gelsomino e altri 19 elementi naturali per creare un siero multifunzionale che nutre e riequilibra l’epidermide, minimizza le rughe, ravviva il tono e restituisce alla pelle il suo naturale splendore.

Forgiata dal vento delle Cicladi: Wine Elixir Wrinkle & Firmness Lift Cream by Apivita 

Texture setosa ispirata alla scienza dell’epigenetica per riavvolgere il tempo grazie ai polifenoli provenienti dalle vigne dell’isola di Santorini. Nella sua composizione, l’acqua è sostituita da un infuso antiossidante di tre varietà di vite dell’isola delle Cicladi (Athiri, Aidani e Assyrtiko) che invertono i processi dell’invecchiamento. Inoltre, gli oli essenziali di fiori contenuti al suo interno rinnovano la pelle e risollevano l’umore. Un effetto celestiale. Sguardo D.O.C – Roll-on Occhi Olio di Vinaccioli by VOYAGE ORGANICS 

Disponibile in esclusiva sull’eco-luxury beauty store 23stbeauty.com, è un prodotto mono-ingrediente, un perfetto trattamento anti-age levigante a rapido assorbimento, a base di puro olio di vinaccioli biologico, ricco di vitamina C ed E. Durante l’applicazione, la sfera in acciaio inossidabile lavora per raffreddare la zona degli occhi e stimolare il drenaggio linfatico per ridurre il gonfiore.

Corpo di(-)vino – White Wine Body Cream Hydrating by IRENE FORTE Skincare 

Una crema idratante per rinfrescare e ammorbidire la pelle a base di vino bianco biologico siciliano e arricchita da acido ialuronico, Pantenolo B5 e Germoglio di faggio per condizionare. Mentre Vitamina E, oli di semi d’uva, mandorle dolci e oliva lavorano per sostenere la barriera naturale della pelle proteggendola dallo stress ambientale. Wine not? Lipstick! – Wine Lip Tint by LABIOTTE

Una chicca per vere wine lovers, da tenere in borsetta e sfoggiare o da collezione. Le tinte labbra Labiotte sono a lunga tenuta e realizzate con estratti di vino così da unire il momento del make-up alla fase del trattamento, per un bacio… stappato.

Dalla cantina dei profumi – Merlot by Vineyard Candles 

Lasciarsi avvolgersi dall’inebriante profumo di una bottiglia appena aperta mentre si applica il proprio trattamento di bellezza o si degusta un calice di vino. Basta accendere la candela Merlot di Vineyard, creata utilizzando cera naturale di lusso versata a mano in un contenitore di vetro che richiama forme note. Merlot si arricchisce con l’aggiunta di bacche, erbe e spezie mediterranee assicurando 80 ore di hangover.

– di Eleonora Russillo 31.07.2020

Eleonora Russillo ha un debole per la skincare, il suo bagno è più fornito di una profumeria. Ultimamente però, è riuscita a invadere anche camera e cantina. Per fortuna il suo lavoro nella comunicazione online la tiene lontana per buona parte della giornata dagli e-commerce. Ottima forchetta, lettrice onnivora, viaggiatrice senza molto senso dell’orientamento.