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The Winefully Magazine

La forza dell’etichetta (e non solo)

Immaginiamo uno scaffale ben rifornito di vino o, in alternativa, la pagina web di un e-shop che preveda una chiara e facile navigazione oltre che una corretta prospettiva di osservazione: questa è di sicuro una situazione classica che ognuno di noi ha vissuto (a maggior ragione essendo all’interno del Magazine di Winefully) e che ha visto entrare in gioco una serie di dinamiche tali da governare la scelta del proprio vino da acquistare.

Le ragioni a guidare la selezione sono varie e molte di essere sono legate alla motivazione intrinseca all’acquisto: un’occasione da celebrare, un presente da omaggiare, una bottiglia da collezionare, un vino desiderato da tempo finalmente disponibile, un’etichetta scelta in funzione di un consiglio diretto di un amico o indiretto da parte di social media o di guide internazionali, la disponibilità di determinati formati ed infine anche la dinamica prezzo, vuoi perchè legata ad un determinato budget o perchè in grado di generare un risparmio se confrontata ad altre opportunità di acquisto. In cosa consiste il fil rouge che connette, in modo più o meno intenso, le motivazioni menzionate, sicuramente non esaustive di tutte le opportunità di acquisto che possiamo vivere? L’estetica, ovvero la percezione mediata attraverso i sensi delle caratteristiche di un prodotto che, al momento dell’acquisto, non si conosce o si conosce solo in parte.

E’ fuori dubbio che l’antico detto secondo cui “anche l’occhio vuole la sua parte” si applica molto bene a tali situazioni d’acquisto, da qui il ruolo chiave del Marketing nel creare un certo appeal nel prodotto, la bottiglia di vino, tanto da motivare l’acquirente a selezionarlo in modo congiunto o disgiunto rispetto ad altre variabili parte del processo decisionale.

Non tutti i cinque sensi sono però stimolati nella fase di studio in cui si captano le informazioni di interesse: una bottiglia chiusa difficilmente potrà stimolare l’olfatto salvo che le condizioni di stoccaggio del sito di acquisto non siano all’altezza e ci motivino ad allontanarci al più presto (vedi anche l’articolo “Bottiglie preziose: come conservarle a regola d’arte”), o il gusto; maggiori possono invece essere gli stimoli nei confronti dell’udito, soprattutto se combinato al tatto nel tastare una bottiglia ed immagazzinare una serie di informazioni dal suo profilo, da eventuali scritte impresse sul vetro o dalla qualità e grana di etichetta e capsula, ove presente.

Lasciamo inevitabilmente per ultima la vista, essendo questo il senso che condiziona maggiormente la scelta di un vino in sede di acquisto in persona condividendo, appunto, altri dettagli con tatto ed udito, e condizionando esclusivamente l’acquisto nel caso in cui si opti per piattaforme online.

Nel mondo dei vino è da tempo chiara la strategicità del packaging di una bottiglia: si investe moltissimo affinchè il prodotto trasmetta i valori della cantina, comunichi chiaramente ed in modo immediato al consumatore, permetta di andare oltre le informazioni di etichetta e retroetichetta, fornisca dettagli in linea con le legislazioni vigenti, menzioni il progressivo della bottiglia in caso di edizioni limitate o, e non in ultimo, fornisca un messaggio legato al posizionamento del prodotto a livello di Marketing.

Anche il più piccolo dettaglio conta e può realmente fare la differenza: oggettivamente, in quanti ci siamo trovati nella condizione di dover scegliere uno o più vini facendoci guidare sì dalle nostre conoscenze o da referenze di terzi, ma anche dal nostro istinto e dalle nostre preferenze visive? Quante volte ci siamo trovati di fronte ad etichette ammiccanti, packaging fantasiosi che generano curiosità e voglia di approfondire o a delle mise semplicemente eleganti perfettamente in linea con la nomea di un determinato vino? E quante volte ci siamo sottratti all’acquisto di vini non in grado di comunicare o il cui packaging non è stato considerato all’altezza della situazione specifica?

E’ accaduto, accade ed accadrà essendo il consumatore sempre più informato ed essendoci mezzi a disposizione che forniscono informazioni che un tempo magari non erano così rilevanti (o lo erano ma solo per gli esperti di settore).

Il trend è comune a tutti i mercati (non solo del vino visto che sia i superalcolici che l’acqua e bevande gassate non sono da meno) ma nel nostro mondo si notano con maggiore chiarezza le scelte aziendali volte ad un maggior focus sull’apparenza e la percezione del prodotto al cliente (consumatore o meno).

Questo avviene perchè ovviamente il mercato del vino è fortemente eterogeneo e caratterizzato da una storia spesso legata ai singoli territori ed alle singole cantine, a loro volta custodi di una tradizione il più delle volte familiare che i trend del mercato non hanno modo di scalfire (o almeno non riescono a farlo, al momento).

Risulterà quindi sempre difficile ed anche limitante confrontare vini dove l’essenza è contenuta all’interno del vetro e vini dove l’involucro esterno risulta fondamentale per finalizzarne la vendita. Entrambi hanno l’esigenza di incontrare il potere d’acquisto del cliente ma le modalità in cui lo fanno sono radicalmente diverse, attivando il modo diametralmente opposto i sensi alla base del processo decisionale oltre che l’emozione, il trasporto ed il sentimento che possono caratterizzare determinati acquisti.

A supporto della scelta di un vino possiamo categorizzare elementi decisionali interni ed esterni. I primi fanno riferimento al vino di per sè, alla sua storia, alle tecniche di vinificazione ed affinamento, all’annata ed al terroir. I secondi sono invece riconducibili al modo in cui viene presentato il vino, all’etichetta, al packaging, al prezzo e altri fattori che permettono di raccontare il prodotto di per sè.

Come è emerso nello studio “Il neuromarketing incontra l’arte dell’etichetta” commissionato da UPM Raflatac a SenseCatch nel 2018, emerge chiaramente che, tralasciando la variabile prezzo, sono l’etichetta con il suo design, le tipologie di carta e di nobilitazioni ad influenzare la scelta di un vino piuttosto che un altro.

Come accennato dal titolo, la materia è stata analizzata a livello scientifico utilizzando la metodologia di ricerca di SenseCatch, che integra neuroscienze e consumer behavior per analizzare le ragioni dietro i processi decisionali del consumatore in modo oggettivo e scientifico.

Il lavoro di ricerca è stato pubblicato in questo libro e nell’articolo scientifico “Neuromarketing Meets the Art of Labelling. How Papers and Finishing on Labels Affect Wine Buying Decisions” della rivista American Association of Wine Economics.

Esistono quindi delle ragioni oggettive, oltre che soggettive, dietro determinate scelte d’acquisto che coinvolgono uno o più sensi nel valutare più alternative così da scremarle progressivamente per identificare il prodotto di maggiore interesse.

L’estetica intesa come ciò che più aggrada l’occhio tanto da creare soddisfazione per un acquisto entra quindi in gioco e ci porta a propendere per determinate opzioni a seconda che gli stimoli siano più o meno allineati alle aspettative.

L’aspetto esteriore di una bottiglia di vino, quindi, risulta chiave in questo scenario, con l’etichetta che gioca il ruolo più importante insieme ad un eventuale packaging esterno che rende il prodotto unico e da subito riconoscibile, oltre che fortemente attraente.

Anche focalizzando la riflessione soltanto sull’etichetta, il vero e proprio carattere distintivo di ogni vino, avremmo uno spettro molto ampio di messaggi da recepire ed analizzare: da qui il focus sulle dinamiche che spingono un acquirente a selezionare specifiche etichette a seguito di stimoli specifici legati alla grafica, alla percezione tattile, al mix di colori che contraddistinguono i singoli vini.

A seconda delle specifiche necessità che sottintendono al processo di acquisto, ciascuna o tutte insieme possono svolgere un ruolo più o meno decisivo, dai risultati fortemente eterogenei a seguito di un ragionamento razionale per buona parte ma, inevitabilmente (ed aggiungiamo, fortunatamente) anche emozionale.

Immaginiamo uno scaffale ben rifornito di vino o, in alternativa, la pagina web di un e-shop che preveda una chiara e facile navigazione oltre che una corretta prospettiva di osservazione: questa è di sicuro una situazione classica che ognuno di noi ha vissuto (a maggior ragione essendo all’interno del Magazine di Winefully) e che ha visto entrare in gioco una serie di dinamiche tali da governare la scelta del proprio vino da acquistare.

Le ragioni a guidare la selezione sono varie e molte di essere sono legate alla motivazione intrinseca all’acquisto: un’occasione da celebrare, un presente da omaggiare, una bottiglia da collezionare, un vino desiderato da tempo finalmente disponibile, un’etichetta scelta in funzione di un consiglio diretto di un amico o indiretto da parte di social media o di guide internazionali, la disponibilità di determinati formati ed infine anche la dinamica prezzo, vuoi perchè legata ad un determinato budget o perchè in grado di generare un risparmio se confrontata ad altre opportunità di acquisto. In cosa consiste il fil rouge che connette, in modo più o meno intenso, le motivazioni menzionate, sicuramente non esaustive di tutte le opportunità di acquisto che possiamo vivere? L’estetica, ovvero la percezione mediata attraverso i sensi delle caratteristiche di un prodotto che, al momento dell’acquisto, non si conosce o si conosce solo in parte.

E’ fuori dubbio che l’antico detto secondo cui “anche l’occhio vuole la sua parte” si applica molto bene a tali situazioni d’acquisto, da qui il ruolo chiave del Marketing nel creare un certo appeal nel prodotto, la bottiglia di vino, tanto da motivare l’acquirente a selezionarlo in modo congiunto o disgiunto rispetto ad altre variabili parte del processo decisionale.

Non tutti i cinque sensi sono però stimolati nella fase di studio in cui si captano le informazioni di interesse: una bottiglia chiusa difficilmente potrà stimolare l’olfatto salvo che le condizioni di stoccaggio del sito di acquisto non siano all’altezza e ci motivino ad allontanarci al più presto (vedi anche l’articolo “Bottiglie preziose: come conservarle a regola d’arte”), o il gusto; maggiori possono invece essere gli stimoli nei confronti dell’udito, soprattutto se combinato al tatto nel tastare una bottiglia ed immagazzinare una serie di informazioni dal suo profilo, da eventuali scritte impresse sul vetro o dalla qualità e grana di etichetta e capsula, ove presente.

Lasciamo inevitabilmente per ultima la vista, essendo questo il senso che condiziona maggiormente la scelta di un vino in sede di acquisto in persona condividendo, appunto, altri dettagli con tatto ed udito, e condizionando esclusivamente l’acquisto nel caso in cui si opti per piattaforme online.

Nel mondo dei vino è da tempo chiara la strategicità del packaging di una bottiglia: si investe moltissimo affinchè il prodotto trasmetta i valori della cantina, comunichi chiaramente ed in modo immediato al consumatore, permetta di andare oltre le informazioni di etichetta e retroetichetta, fornisca dettagli in linea con le legislazioni vigenti, menzioni il progressivo della bottiglia in caso di edizioni limitate o, e non in ultimo, fornisca un messaggio legato al posizionamento del prodotto a livello di Marketing.

Anche il più piccolo dettaglio conta e può realmente fare la differenza: oggettivamente, in quanti ci siamo trovati nella condizione di dover scegliere uno o più vini facendoci guidare sì dalle nostre conoscenze o da referenze di terzi, ma anche dal nostro istinto e dalle nostre preferenze visive? Quante volte ci siamo trovati di fronte ad etichette ammiccanti, packaging fantasiosi che generano curiosità e voglia di approfondire o a delle mise semplicemente eleganti perfettamente in linea con la nomea di un determinato vino? E quante volte ci siamo sottratti all’acquisto di vini non in grado di comunicare o il cui packaging non è stato considerato all’altezza della situazione specifica?

E’ accaduto, accade ed accadrà essendo il consumatore sempre più informato ed essendoci mezzi a disposizione che forniscono informazioni che un tempo magari non erano così rilevanti (o lo erano ma solo per gli esperti di settore).

Il trend è comune a tutti i mercati (non solo del vino visto che sia i superalcolici che l’acqua e bevande gassate non sono da meno) ma nel nostro mondo si notano con maggiore chiarezza le scelte aziendali volte ad un maggior focus sull’apparenza e la percezione del prodotto al cliente (consumatore o meno).

Questo avviene perchè ovviamente il mercato del vino è fortemente eterogeneo e caratterizzato da una storia spesso legata ai singoli territori ed alle singole cantine, a loro volta custodi di una tradizione il più delle volte familiare che i trend del mercato non hanno modo di scalfire (o almeno non riescono a farlo, al momento).

Risulterà quindi sempre difficile ed anche limitante confrontare vini dove l’essenza è contenuta all’interno del vetro e vini dove l’involucro esterno risulta fondamentale per finalizzarne la vendita. Entrambi hanno l’esigenza di incontrare il potere d’acquisto del cliente ma le modalità in cui lo fanno sono radicalmente diverse, attivando il modo diametralmente opposto i sensi alla base del processo decisionale oltre che l’emozione, il trasporto ed il sentimento che possono caratterizzare determinati acquisti.

A supporto della scelta di un vino possiamo categorizzare elementi decisionali interni ed esterni. I primi fanno riferimento al vino di per sè, alla sua storia, alle tecniche di vinificazione ed affinamento, all’annata ed al terroir. I secondi sono invece riconducibili al modo in cui viene presentato il vino, all’etichetta, al packaging, al prezzo e altri fattori che permettono di raccontare il prodotto di per sè.

Come è emerso nello studio “Il neuromarketing incontra l’arte dell’etichetta” commissionato da UPM Raflatac a SenseCatch nel 2018, emerge chiaramente che, tralasciando la variabile prezzo, sono l’etichetta con il suo design, le tipologie di carta e di nobilitazioni ad influenzare la scelta di un vino piuttosto che un altro.

Come accennato dal titolo, la materia è stata analizzata a livello scientifico utilizzando la metodologia di ricerca di SenseCatch, che integra neuroscienze e consumer behavior per analizzare le ragioni dietro i processi decisionali del consumatore in modo oggettivo e scientifico.

Il lavoro di ricerca è stato pubblicato in questo libro e nell’articolo scientifico “Neuromarketing Meets the Art of Labelling. How Papers and Finishing on Labels Affect Wine Buying Decisions” della rivista American Association of Wine Economics.

Esistono quindi delle ragioni oggettive, oltre che soggettive, dietro determinate scelte d’acquisto che coinvolgono uno o più sensi nel valutare più alternative così da scremarle progressivamente per identificare il prodotto di maggiore interesse.

L’estetica intesa come ciò che più aggrada l’occhio tanto da creare soddisfazione per un acquisto entra quindi in gioco e ci porta a propendere per determinate opzioni a seconda che gli stimoli siano più o meno allineati alle aspettative.

L’aspetto esteriore di una bottiglia di vino, quindi, risulta chiave in questo scenario, con l’etichetta che gioca il ruolo più importante insieme ad un eventuale packaging esterno che rende il prodotto unico e da subito riconoscibile, oltre che fortemente attraente.

Anche focalizzando la riflessione soltanto sull’etichetta, il vero e proprio carattere distintivo di ogni vino, avremmo uno spettro molto ampio di messaggi da recepire ed analizzare: da qui il focus sulle dinamiche che spingono un acquirente a selezionare specifiche etichette a seguito di stimoli specifici legati alla grafica, alla percezione tattile, al mix di colori che contraddistinguono i singoli vini.

A seconda delle specifiche necessità che sottintendono al processo di acquisto, ciascuna o tutte insieme possono svolgere un ruolo più o meno decisivo, dai risultati fortemente eterogenei a seguito di un ragionamento razionale per buona parte ma, inevitabilmente (ed aggiungiamo, fortunatamente) anche emozionale.

La forza dell’etichetta (e non solo)

Immaginiamo uno scaffale ben rifornito di vino o, in alternativa, la pagina web di un e-shop che preveda una chiara e facile navigazione oltre che una corretta prospettiva di osservazione: questa è di sicuro una situazione classica che ognuno di noi ha vissuto (a maggior ragione essendo all’interno del Magazine di Winefully) e che ha visto entrare in gioco una serie di dinamiche tali da governare la scelta del proprio vino da acquistare.

Le ragioni a guidare la selezione sono varie e molte di essere sono legate alla motivazione intrinseca all’acquisto: un’occasione da celebrare, un presente da omaggiare, una bottiglia da collezionare, un vino desiderato da tempo finalmente disponibile, un’etichetta scelta in funzione di un consiglio diretto di un amico o indiretto da parte di social media o di guide internazionali, la disponibilità di determinati formati ed infine anche la dinamica prezzo, vuoi perchè legata ad un determinato budget o perchè in grado di generare un risparmio se confrontata ad altre opportunità di acquisto. In cosa consiste il fil rouge che connette, in modo più o meno intenso, le motivazioni menzionate, sicuramente non esaustive di tutte le opportunità di acquisto che possiamo vivere? L’estetica, ovvero la percezione mediata attraverso i sensi delle caratteristiche di un prodotto che, al momento dell’acquisto, non si conosce o si conosce solo in parte.

E’ fuori dubbio che l’antico detto secondo cui “anche l’occhio vuole la sua parte” si applica molto bene a tali situazioni d’acquisto, da qui il ruolo chiave del Marketing nel creare un certo appeal nel prodotto, la bottiglia di vino, tanto da motivare l’acquirente a selezionarlo in modo congiunto o disgiunto rispetto ad altre variabili parte del processo decisionale.

Non tutti i cinque sensi sono però stimolati nella fase di studio in cui si captano le informazioni di interesse: una bottiglia chiusa difficilmente potrà stimolare l’olfatto salvo che le condizioni di stoccaggio del sito di acquisto non siano all’altezza e ci motivino ad allontanarci al più presto (vedi anche l’articolo “Bottiglie preziose: come conservarle a regola d’arte”), o il gusto; maggiori possono invece essere gli stimoli nei confronti dell’udito, soprattutto se combinato al tatto nel tastare una bottiglia ed immagazzinare una serie di informazioni dal suo profilo, da eventuali scritte impresse sul vetro o dalla qualità e grana di etichetta e capsula, ove presente.

Lasciamo inevitabilmente per ultima la vista, essendo questo il senso che condiziona maggiormente la scelta di un vino in sede di acquisto in persona condividendo, appunto, altri dettagli con tatto ed udito, e condizionando esclusivamente l’acquisto nel caso in cui si opti per piattaforme online.

Nel mondo dei vino è da tempo chiara la strategicità del packaging di una bottiglia: si investe moltissimo affinchè il prodotto trasmetta i valori della cantina, comunichi chiaramente ed in modo immediato al consumatore, permetta di andare oltre le informazioni di etichetta e retroetichetta, fornisca dettagli in linea con le legislazioni vigenti, menzioni il progressivo della bottiglia in caso di edizioni limitate o, e non in ultimo, fornisca un messaggio legato al posizionamento del prodotto a livello di Marketing.

Anche il più piccolo dettaglio conta e può realmente fare la differenza: oggettivamente, in quanti ci siamo trovati nella condizione di dover scegliere uno o più vini facendoci guidare sì dalle nostre conoscenze o da referenze di terzi, ma anche dal nostro istinto e dalle nostre preferenze visive? Quante volte ci siamo trovati di fronte ad etichette ammiccanti, packaging fantasiosi che generano curiosità e voglia di approfondire o a delle mise semplicemente eleganti perfettamente in linea con la nomea di un determinato vino? E quante volte ci siamo sottratti all’acquisto di vini non in grado di comunicare o il cui packaging non è stato considerato all’altezza della situazione specifica?

E’ accaduto, accade ed accadrà essendo il consumatore sempre più informato ed essendoci mezzi a disposizione che forniscono informazioni che un tempo magari non erano così rilevanti (o lo erano ma solo per gli esperti di settore).

Il trend è comune a tutti i mercati (non solo del vino visto che sia i superalcolici che l’acqua e bevande gassate non sono da meno) ma nel nostro mondo si notano con maggiore chiarezza le scelte aziendali volte ad un maggior focus sull’apparenza e la percezione del prodotto al cliente (consumatore o meno).

Questo avviene perchè ovviamente il mercato del vino è fortemente eterogeneo e caratterizzato da una storia spesso legata ai singoli territori ed alle singole cantine, a loro volta custodi di una tradizione il più delle volte familiare che i trend del mercato non hanno modo di scalfire (o almeno non riescono a farlo, al momento).

Risulterà quindi sempre difficile ed anche limitante confrontare vini dove l’essenza è contenuta all’interno del vetro e vini dove l’involucro esterno risulta fondamentale per finalizzarne la vendita. Entrambi hanno l’esigenza di incontrare il potere d’acquisto del cliente ma le modalità in cui lo fanno sono radicalmente diverse, attivando il modo diametralmente opposto i sensi alla base del processo decisionale oltre che l’emozione, il trasporto ed il sentimento che possono caratterizzare determinati acquisti.

A supporto della scelta di un vino possiamo categorizzare elementi decisionali interni ed esterni. I primi fanno riferimento al vino di per sè, alla sua storia, alle tecniche di vinificazione ed affinamento, all’annata ed al terroir. I secondi sono invece riconducibili al modo in cui viene presentato il vino, all’etichetta, al packaging, al prezzo e altri fattori che permettono di raccontare il prodotto di per sè.

Come è emerso nello studio “Il neuromarketing incontra l’arte dell’etichetta” commissionato da UPM Raflatac a SenseCatch nel 2018, emerge chiaramente che, tralasciando la variabile prezzo, sono l’etichetta con il suo design, le tipologie di carta e di nobilitazioni ad influenzare la scelta di un vino piuttosto che un altro.

Come accennato dal titolo, la materia è stata analizzata a livello scientifico utilizzando la metodologia di ricerca di SenseCatch, che integra neuroscienze e consumer behavior per analizzare le ragioni dietro i processi decisionali del consumatore in modo oggettivo e scientifico.

Il lavoro di ricerca è stato pubblicato in questo libro e nell’articolo scientifico “Neuromarketing Meets the Art of Labelling. How Papers and Finishing on Labels Affect Wine Buying Decisions” della rivista American Association of Wine Economics.

Esistono quindi delle ragioni oggettive, oltre che soggettive, dietro determinate scelte d’acquisto che coinvolgono uno o più sensi nel valutare più alternative così da scremarle progressivamente per identificare il prodotto di maggiore interesse.

L’estetica intesa come ciò che più aggrada l’occhio tanto da creare soddisfazione per un acquisto entra quindi in gioco e ci porta a propendere per determinate opzioni a seconda che gli stimoli siano più o meno allineati alle aspettative.

L’aspetto esteriore di una bottiglia di vino, quindi, risulta chiave in questo scenario, con l’etichetta che gioca il ruolo più importante insieme ad un eventuale packaging esterno che rende il prodotto unico e da subito riconoscibile, oltre che fortemente attraente.

Anche focalizzando la riflessione soltanto sull’etichetta, il vero e proprio carattere distintivo di ogni vino, avremmo uno spettro molto ampio di messaggi da recepire ed analizzare: da qui il focus sulle dinamiche che spingono un acquirente a selezionare specifiche etichette a seguito di stimoli specifici legati alla grafica, alla percezione tattile, al mix di colori che contraddistinguono i singoli vini.

A seconda delle specifiche necessità che sottintendono al processo di acquisto, ciascuna o tutte insieme possono svolgere un ruolo più o meno decisivo, dai risultati fortemente eterogenei a seguito di un ragionamento razionale per buona parte ma, inevitabilmente (ed aggiungiamo, fortunatamente) anche emozionale.

Viticoltura eroica, un dialogo serrato tra uomo e natura

Quando si parla di viticoltura eroica il primo pensiero va a un concetto romantico di coltivazione della vite in condizioni estreme e quasi proibitive. L’interpretazione di per sé è corretta, tuttavia è interessante sottolineare che la definizione ha confini più precisi. Esistono infatti quattro requisiti specifici e la pratica agricola deve rispondere almeno a uno di questi perché si possa parlare di viticoltura eroica.

Il primo, quello per cui la definizione è principalmente conosciuta, riguarda le pendenze dei terreni, che devono superare il 30%. Questo naturalmente rende tutto più difficile. Per l’uomo, prima di tutto, che si trova a dover svolgere le diverse attività agricole affrontando salite e discese estenuanti. C’è poi un tema di meccanizzazione, o meglio di non meccanizzazione, visto che questo tipo di pendenze rendono praticamente impossibile lavorare con le macchine che generalmente vengono utilizzate nei contesti agricoli “canonici”. A questo si aggiunge un ulteriore fattore “eroico”, perché in genere le estensioni di questi vigneti sono limitate. Quindi non solo le difficoltà e la fatica si moltiplicano, ma la produzione dal punto di vista quantitativo è sempre esigua. Va da sé che il lavoro, fortemente orientato a un’elevata qualità, ha senso soltanto quando parliamo di terreni ad altissima vocazione. Il secondo requisito per poter parlare di viticoltura eroica è il fatto che la coltivazione avvenga su terrazze, o gradoni. Emblematico il caso della Valtellina, tra i più citati quando si parla dell’argomento, dove i terrazzamenti cesellano il fianco della montagna con un livello di cura e precisione unici al mondo. Capolavori come questi rappresentano una vera e propria sublimazione del fragile equilibrio tra uomo e natura. Se da un lato infatti l’industria agroalimentare, supportata dalle macchine, rappresenta in un certo senso il totale dominio degli esseri umani, nei contesti come quello valtellinese va in scena un dialogo serrato e costante. Si prende, si dà, niente è facile, e gli sforzi sono enormi anche per strappare alla roccia il più piccolo fazzoletto di terra.

Terzo requisito che abilita la parola “eroica”: l’altitudine. Più si sale in quota e più è complicato fare vino. Tuttavia esistono situazioni particolari dove una commistione di fattori tra cui la varietà del vitigno, l’abilità dell’uomo e il contesto territoriale rendono possibile la coltivazione della vite ad altitudini notevoli. In Val D’Aosta e Alto Adige non è raro trovare vigneti a 800, 900 e anche sopra i 1.000 metri, fino ad arrivare ai 1.350 dell’abbazia benedettina Marienberg, che si colloca tra le pochissime in Europa in grado di arrivare così in alto.

L’ultimo punto evidenzia come viticoltura eroica non significhi per forza contesto montuoso. Il quarto requisito, infatti, parla di “coltivazione su piccole isole”. Come quelle della Laguna di Venezia, ad esempio, dove l’acqua alta arriva a sommergere le vigne e la barca diventa il mezzo di trasporto protagonista in fase di vendemmia. Terreni sospesi tra acqua e terra, dove le radici delle piante lambiscono l’acqua salata del mare e la loro stessa vita è costantemente in discussione.

Per rimanere in tema con il contesto marittimo, ci sono casi in cui la presenza del mare convive con pendenze vertiginose. Ad esempio, le vigne dove viene prodotto il famoso Sciacchetrà, noto passito prodotto in Liguria nella zona delle Cinque Terre. Altro caso eclatante è quello del fiordo di Furore, vera e propria scheggia di Nord Europa conficcata in un contesto decisamente Mediterraneo. Stiamo parlando infatti della Costiera Amalfitana, dove a Furore la roccia è solcata da una profonda spaccatura ricoperta di uliveti, limoneti e vigneti. La realtà simbolo di questo incredibile angolo d’Italia è quella di Marisa Cuomo, che insieme ad Andrea Ferraioli conduce l’azienda da oltre quarant’anni. 10 ettari di superficie, di cui 3,5 di proprietà, molti dei quali coltivati sulle pareti rocciose a strapiombo sul mare. Ginestra, Pepella, Tronto, Sciascinoso… sono solo alcune delle varietà autoctone coltivate dall’azienda. La cantina, scavata nella roccia, gode della temperatura corretta senza necessita di alcun controllo.

Fiorduva Bianco è il vino più rappresentativo dell’azienda. Splendido blend delle tre uve prefillossera Fenile, Ginestra e Ripoli, trascorre sei mesi in piccole botti di rovere. Il 2019 si presenta con uno splendido giallo dorato e un ingresso avvolgente che rimanda alle note carnose dell’albicocca e del mango. In bocca mostra una progressione che apre a leggere speziature e a cenni di erbe aromatiche. Il finale è lunghissimo, scandito da sottili percezioni iodate. Sono proprio queste, più di tutto, a ricordare il contesto unico ed estremo in cui nasce questo vino, frutto di una viticoltura di altissimo profilo che valorizza luoghi dove nulla è scontato. In due parole, una viticoltura eroica.

di Graziano Nani 23.11.2021

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Piatti iconici e abbinamenti: il risotto alla milanese

Il profumo suadente e inconfondibile dello zafferano, la cremosità della mantecatura al burro che avvolge i chicchi di riso, la ricchezza umami data dalla generosa aggiunta di Parmigiano ma anche dal brodo di carne e volendo anche la grassezza avvolgente del midollo, che qualcuno ama aggiungere a fine cottura o fuori dal fuoco, già cotto a parte.

Il risotto alla milanese, o semplicemente risotto giallo allo zafferano, è un simbolo della cucina di casa delle grandi occasioni per la sua opulenza gustativa anticipata dal colore dorato dato dalla spezia, pur senza aggiungere la foglia d’oro come fece agli inizi degli anni ’80 il Maestro Gualtiero Marchesi rendendolo un’icona anche della nouvelle vague della cucina nostrana.

E se, secondo la leggenda, la sua origine sarebbe legata al Duomo di Milano – con l’apprendista Zafferano, grande amante e utilizzatore del color oro della spezia, che nel 1574 per ripicca finisce per metterla anche nel riso preparato in occasione delle nozze della figlia del maestro Valerio di Fiandra, artista fiammingo chiamato a realizzarne le magnifiche vetrate –, le prime menzioni della ricetta (con il riso però lessato, e non ancora cotto nel brodo) risalgono già al 1300. Mentre si deve aspettare l’800 per ritrovare delle preparazioni più vicine a quella che è stata codificata e tramandata ai giorni nostri, con il riso insaporito da grasso, midollo di bue, noce moscata, brodo e formaggio grattugiato. Il vino – ingrediente fondamentale per sgrassare e dare una lieve acidità al piatto – compare solo agli inizi del Novecento ad opera di Pellegrino Artusi, che propone appunto una variante della ricetta che utilizza il vino bianco, apprezzata da molti.

La preparazione del risotto giallo, più o meno canonica, entra di diritto nel novero dei grandi classici della cucina italiana e richiede una preparazione attenta fin nei minimi dettagli, a cominciare dalla scelta del riso che dovrebbe essere preferibilmente Carnaroli, o Vialone Nano, e dall’uso di zafferano in pistilli. Altrettanta cura, allora, richiede la scelta di cosa abbinarvi nel bicchiere.

Che si tratti della versione con o senza ossobuco, la scelta più indicata è senza dubbio un vino rosso di stoffa, sufficientemente maturo e di buon corpo ma con una sua eleganza, magari a base nebbiolo. Per esempio, il carattere intenso e i tannini vellutati del Gattinara Vigna Molsino di Nervi – il cui nome, in dialetto piemontese, significa “morbido” – potrebbe accompagnare egregiamente la versione “base” del piatto. Ottenuto da una vigna incastonata in un anfiteatro naturale ai piedi delle Alpi piemontesi, mostra al naso belle note floreali e di frutta rossa con qualche accenno speziato mentre in bocca è setoso, di grande beva, con un finale fruttato e incredibilmente sapido.

La presenza del midollo potrebbe invece far dirigere la scelta su un’etichetta altrettanto iconica e avvolgente come il Barolo Francia di Giacomo Conterno, un vero monumento di eleganza e fascino tutto piemontese. Al naso si avverte subito la sua complessità, con sentori di piccoli frutti rossi (qualcuno vi ritrova addirittura qualche accenno all’anguria) accompagnati da un profilo mentolato e minerale. In bocca è potente ed elegante allo stesso tempo, molto equilibrato, morbido ma con un finale sapido e fresco che invita al boccone successivo. ]L’alternativa un po’ fuori dai canoni potrebbe essere rappresentata da una bella bolla, con il perlage a  contrastare in maniera piacevole la cremosità e la grassezza del risotto. In questo caso però il suggerimento è di puntare su un Blanc de Noirs o comunque su un vino con una base importante di Pinot Nero.

Si va di certo sul sicuro stappando una bottiglia di Dom Pérignon Vintage 2010 in cui si fondono freschezza, mineralità e avvolgenza, unite a una persistenza notevole. Frutto di un’annata resa difficile da piogge improvvise, in cui la maestria della Maison ha saputo preservare le caratteristiche del pinot noir che qui affianca lo chardonnay al 50%, è fresco al naso – con note di fiori e frutta tropicale – ma ricco e intenso al palato che viene accarezzato da note speziate e pepate e da un affascinante finale salino.

Ma andrà benissimo anche optare per un Franciacorta Docg come il Vintage Collection Dosage Zèro Noir 2011 di Ca’ del Bosco, Pinot Noir in purezza dal perlage finissimo e persistente e il sorso pieno ma dalla grande bevibilità con ricordi di erbe aromatiche e spezie e una nota leggermente fumé a completare il profilo di frutta tropicale e agrumi.

– Luciana Squadrilli 16.11.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

Luciano Sandrone: nati sotto il segno del Nebbiolo

Nel periodo più intenso dell’anno, quello della vendemmia, Barbara Sandrone – figlia di Luciano – è riuscita lo stesso a dedicarci un po’ del suo tempo per raccontarci la storia della loro cantina, che, prima ancora di essere una bellissima vicenda imprenditoriale, è un’intensa vicenda di famiglia e di affetti. Una storia nella quale l’amore che lega le tre generazioni oggi in azienda trova un riflesso e un completamento nel rapporto quasi simbiotico con il territorio, dal quale nascono sei vini che interpretano la tradizione in maniera pura e appassionata.

Tuo padre Luciano, il fondatore della vostra cantina, ha una bellissima storia personale. Vorrei partire da qui, se ti va.

Sì, certo, per noi è sempre una gioia raccontare come è iniziato tutto perché non veniamo da una tradizione di famiglia nel vino. Mio nonno, in realtà, era falegname e, a un certo punto, decise di trasferirsi a Barolo per ampliare la sua attività e – chiamalo caso oppure destino – la sede della nuova falegnameria era a fianco della cantina del grande Giacomo Borgogno. Mio papà all’epoca era un ragazzino e si divideva fra questi due mondi, con il signor Giacomo che lo aveva preso in simpatia e gli ripeteva sempre – in dialetto piemontese ovviamente – “Cresci in fretta Luciano, perché qui c’è posto per te”. E alla fine è andata davvero così: dopo l’avviamento, ha iniziato a lavorare insieme a lui, assorbendo tutti i suoi insegnamenti e osservando tutti i suoi gesti. Un’esperienza bellissima per mio padre che è durata fino al servizio militare, poi al suo ritorno in paese è diventato capo cantiniere per le famiglie Abbona e Scarzello, titolari de  Marchesi di Barolo, nel 1970. Aveva solo ventiquattro anni ed è rimasto lì fino al 1990. A che punto di questo percorso Luciano ha deciso che voleva fare un vino suo, partendo da zero?

È successo verso la fine degli anni Settanta, mio padre ha iniziato ad avere desiderio di confrontarsi anche con quello che accade, prima della cantina, in vigna. La qualità del vino, lo sai, nasce nel vigneto e lui voleva capire meglio anche quella parte di processo. Nel 1977 è arrivato l’acquisto del vigneto Cannubi Boschis, da cui poi è nato il nostro primo Barolo.

Mio padre non aveva spazi o strumenti di proprietà perché – come ti dicevo – non veniva da una famiglia di vignaioli, perciò è partito da zero, usando il nostro garage perché era il miglior luogo che aveva a disposizione. La nostra azienda è cresciuta in questa maniera semplice e per piccoli passi: prima con pochi fusti, poche vasche e a volte attrezzi di seconda mano; poi nel tempo abbiamo affittato altri garage per poterci allargare un po’ e, infine, il progetto della nuova cantina, che è arrivato solo nel 1998. Si trova sempre qui a Barolo, proprio ai piedi della collina di Cannubi e qui siamo riusciti, gradualmente, a portare tutto dentro: dai trattori alle sale dove affiniamo.

Ti vorrei fare una domanda riguardo al vostro carattere che si riflette, in ultimo, nei vostri vini. Siete sicuramente uno dei nomi di riferimento per il Barolo, eppure mi sembra che siate riusciti a conservare quello spirito garagista, essenziale e semplice degli inizi, come ci siete riusciti?

Non saprei. Non c’è stata una strategia, abbiamo solo creduto tanto, con il cuore e con la testa, in quello che abbiamo fatto e abbiamo voluto rimanere una famiglia, anche se questo ha significato darsi dei limiti. Ma va bene così perché vogliamo gestire le cose in una certa maniera – la nostra – e vogliamo esercitare il controllo su tutte le fasi in vigna e in cantina.

Non bisogna avere fretta e questa è una cosa che prima di tutto ci dicono i nostri vigneti. Se c’è una cosa che la famiglia del Nebbiolo insegna è proprio l’arte della pazienza e del saper aspettare. Ti direi che questo insegnamento dalla vigna lo abbiamo trasposto a tutti gli aspetti del nostro lavoro. Questo è anche uno dei motivi per i quali, in fondo, i nostri vini non sono tanti, perché abbiamo scelto di farci guidare dai vitigni autoctoni e dalla tradizione, senza avere fretta. Pensa che il nostro ultimo nato, il Barolo Vite Talin, ha avuto più o meno trent’anni di gestazione prima di vedere la luce.

Tu ti occupi della parte commerciale, giusto?

Sì, anche se ammetto che non mi piace chiamarla così. Lavoro insieme a un gruppo di sole donne davvero molto in gamba, ci tengo a dirlo perché penso che l’abilità relazionale femminile faccia la differenza. Per noi è indispensabile far capire ai distributori la complessità di certe scelte che facciamo, a volte all’apparenza antieconomiche ma coerenti con la nostra filosofia.

Mio zio Luca con la sua squadra di otto  persone segue, invece, la vigna. Con l’arrivo del vigneto Le Corse di Monforte, che entrerà a far parte del Barolo Le Vigne dall’annata 2019, siamo a trenta ettari. Ti parlo di questa acquisizione perché ci teniamo davvero tanto: il titolare dell’appezzamento è sempre stato in rapporti di stima e di collaborazione con mio padre, nel momento in cui ha scelto di ritirarsi ha voluto venderlo a noi perché sapeva di lasciarlo a qualcuno con un certo pensiero e un certo modo di lavorare. Per noi è stata una grande soddisfazione e anche un onore. Con l’ingresso in azienda dei tuoi figli, Alessia e Stefano, siete alla terza generazione ormai ma si può dire che siete ancora oggi prima una famiglia e poi un’azienda. Quanto influisce questo nel vostro modo di fare vino?

Essere famiglia è una forza incredibile. Ovviamente non dimentichiamo mai di essere un’azienda ma lo facciamo animati da un sentimento comune e anche dal rapporto che ci lega e questo ci consente, credo, di lavorare con una serenità e una convinzione fortissime.

Sul vostro sito ho notato che definite il vino per sua stessa essenza “naturale”, ci racconti qualcosa di più su come lavorate?

Per noi le nostre vigne sono come persone, sono parte della nostra famiglia: occorre curarle, essere presenti, saperle ascoltare, senza prevaricare. Ti faccio l’esempio del Nebbiolo di Barolo e di Valmaggiore: la varietà è la stessa, ma le condizioni pedoclimatiche e idriche sono così diverse che dobbiamo rapportarci a loro in modi altrettanto diversi. Siamo noi a dover essere capaci di cogliere i segni che la vite ci dà e aiutarla a compiere il suo percorso. Questo richiede una cura che assomiglia alla dedizione, soprattutto nei momenti più delicati come l’estate o quelli che precedono la vendemmia. Luca a fine agosto inizia a campionare per parcelle perché chiaramente, a seconda dell’esposizione, i tempi e i modi della maturazione cambiano molto e questo determina una vendemmia molto articolata, nel senso che ogni appezzamento, anzi ogni parcella fa storia a sé. È il motivo per cui abbiamo molte persone a supporto, che devono essere specializzate ma anche appassionate. Il lavoro in vigna è sempre tanto e faticoso e richiede in parti uguali competenza e sensibilità.

Voi operate a tutti gli effetti in biologico ma non avete certificazione. Non la ritenete utile?

Non ci definiamo biologici, o meglio operiamo alla nostra maniera da sempre ma non abbiamo bisogno di una bollinatura, perché sappiamo come lavoriamo. La mia famiglia è radicata qui, ora ci sono i miei figli che lavorano con noi, amiamo questi luoghi, sarebbe assurdo violare questa terra che ci ha dato tanto, lavorando male, con interventi poco rispettosi.

Usate lieviti indigeni e praticate la fermentazione spontanea, possiamo dire che non avete scelto la strada più facile. Le variabili che entrano in gioco operando così sono molto maggiori.

Lavoriamo così da sempre, non ti saprei nemmeno dire com’è essere diversi. E forse per questo sento meno i rischi e le complessità. È anche vero che siamo aiutati dal fatto di conoscere bene i nostri vigneti e che il patrimonio genetico delle nostre uve è talmente unico che va conservato. Detto questo, scegliere di operare in questo modo richiede un’attenzione maniacale, assoluta. Per farti un esempio, quando bisogna fare i rimontaggi, durante la fermentazione, le persone in cantina si fermano poche ore al giorno, perché ci vuole una cura pazzesca e perché questi lieviti sono vivi e non si comportano mai nello stesso modo. Anche in questo caso, ci vuole competenza ma soprattutto bisogna “sentire” questo lavoro, capire che si ha a che fare con qualcosa di vivo, di pulsante.

Siete naturali e biologi ma mi sembra che siate molto poco interessati al dibattito sul naturale e alle tendenze che ha innescato.

Sinceramente noi abbiamo sempre seguito la nostra strada, senza cercare di assomigliare a qualcun altro. Spesso siamo anche andati controcorrente, per esempio, quando negli anni Novanta c’erano barrique ovunque e sembrava che bisognasse barricare tutto, mio padre ha sempre ostinatamente usato il tonneaux, a volte facendo una fatica incredibile per trovare le botti perché c’era poca offerta. Ma noi abbiamo sempre pensato che il vino deve avere la sua personalità, rispetto alla quale il legno è solo un complemento e per questo siamo sempre andati avanti così. Magari, in questo modo si corre il rischio di non piacere a tutti, ma è giusto in un certo senso, è solo un bene che ci siano più voci e più strade possibili. Ben vengano anche tutti i dibattiti ma poi è importante che ognuno scelga il proprio percorso con indipendenza e coerenza.

Poco fa parlavi di vendemmia, in questo momento (ndr. inizi di ottobre) è ancora in corso quella di quest’anno. Non ti chiedo un bilancio perché è troppo presto ma una vostra prima impressione sul suo andamento.

In effetti non amo parlare della vendemmia prima che sia conclusa. Anche per questioni di scaramanzia! Però posso dire che siamo molto contenti di quello che abbiamo raccolto fino a questo momento. L’andamento climatico di quest’anno ci ha tenuti sempre con il fiato sospeso, con le gelate di aprile e poi le grandinate in estate. Sono stati tutti fenomeni abbastanza violenti ma devo dire che è andata bene e le uve sono sane e belle. Il raccolto è buono per qualità e quantità.

Sul nostro shop si trovano sia Le vigne sia Aleste, due Barolo con una allure particolare. Ci vuoi raccontare la loro storia?

Le Vigne è sempre stato un vino speciale per noi. I primi riconoscimenti sono arrivati con il Cannubi Boschis, ma mio padre ha sempre avuto nel cuore l’idea del Barolo secondo la tradizione dell’assemblaggio finale di uve di parcelle diverse. Mi piace descriverlo come una sinfonia di strumenti musicali che insieme esprimono compiutamente il territorio: ogni vigneto viene trattato, vendemmiato e vinificato da solo, nel rispetto delle sue caratteristiche e poi, con progressivi assaggi e prove, si decide la composizione finale capace di esprimere le caratteristiche dell’annata e del territorio. La nostra impronta c’è ma è sullo sfondo, per armonizzare le singole voci in un tutto. Aleste in realtà è il mitico Cannubi Boschis, che a un certo punto tuo padre ha deciso di rinominare, dedicandolo ai tuoi figli (Ale e Ste). Un generoso passaggio di testimone generazionale che però avrebbe gettato nel panico qualunque consulente di marketing. Come è andata?

Mi fai parlare di una cosa che ancora mi commuove perché ricordo benissimo quando mio padre ci ha spiegato che voleva dedicare alle nuove generazioni – all’epoca in arrivo – la cosa più preziosa che aveva: il suo primo vigneto e il suo primo vino. Sulle prime, io e Luca eravamo un po’ spaesati perché cambiare nome al vino che tutti considerano il nostro simbolo era un rischio dal punto di vista comunicativo. La cosa che ho ritenuto giusto fare è stato passare tantissimo tempo in giro per spiegare in prima persona ai nostri distributori questa scelta: era importante per noi che tutti capissero che si trattava puramente di una scelta di cuore che non coinvolgeva l’identità del vino. Il Barolo è rimasto lo stesso: un vino vigoroso, diretto, pieno, pronto da subito, anche per via della maturazione “più spinta” del vigneto Cannubi Boschis, che sta più in basso rispetto agli altri vigneti, quindi in una zona un po’ più calda.

Le Vigne, invece, è più floreale, più morbido, prima ti abbraccia e poi conquista la tua attenzione. Sono due personalità complementari.

Sibi et paucis che progetto è e perché non avete voluto fare una classica riserva?

È un accantonamento delle nostre bottiglie che facciamo da circa quindici anni. Abbiamo iniziato con una piccola quantità aumentando progressivamente. I vini riposano in una cantina dedicata per otto anni, quindi per dieci anni in tutto (due in fusto e otto in bottiglia) perché è un progetto nato per valorizzare la capacità del Nebbiolo di crescere nel tempo e pensato per noi e per coloro che vogliono comprendere cos’è un Barolo dopo dieci o venti anni. La riserva nasce già in vigna, da appezzamenti che le vengono dedicati ma noi non volevamo avere appezzamenti “speciali”. Sibi et paucis è sempre il nostro vino, semplicemente tenuto da parte, per noi e per gli amici.

Per concludere, come hai visto cambiare la Langa in questi decenni.

È una domandona questa. C’è una questione che mi sta a cuore: a me non è mai piaciuta la distinzione fra tradizionalisti e modernisti, perché penso che abbiamo tutti le stesse radici, senza le quali oggi non saremmo qui. È una distinzione che ho sempre percepito come un’esigenza comunicativa, per spiegare in maniera semplice, schematica – a volte troppo – un territorio complesso come questo.

Più che di due poli distinti parlerei di evoluzione: in una storia come la nostra è normale che si attraversino diversi momenti evolutivi, che però nascono tutti dalla tradizione. Oggi mi sembra che siamo arrivati a un punto di equilibrio fra le diverse anime, fra chi ha sperimentato di più e chi invece non si è allontanato dalle origini. E mi sembra un’ottima cosa.

Drengot: il rinascimento dell’Asprinio

Alberto Verde è un quarantaduenne dallo spirito indomito, orgogliosamente campano, che per argomentare le ragioni del suo incondizionato amore per la Campania arriva a citare il filosofo francese Régis Debray, che nel suo ultimo libro (Contro Venezia, pubblicato qualche mese fa) definisce Napoli come «la vitalità incarnata. […] La città meno narcisista che ci sia, l’unica in Europa dove il mito si incontra per strada, dove il passato si vive al presente».

Da questo amore e dalla conoscenza profonda del territorio è nato un progetto ambizioso di riscoperta e valorizzazione dell’Asprinio, un vitigno autoctono dell’aversano con una vicenda unica, che si intreccia con quella degli Angiò ma anche quella dello champagne e del Greco di Tufo e che testimonia le profonde trasformazioni (non sempre positive) vissute dal territorio campano nel corso della storia. Con la sua cantina, Drengot – in omaggio al conte normanno Rainulf Drengot, che nel 1030 fondò Aversa – oggi Alberto produce tre ottimi vini, a base di Asprinio proveniente dalle vigne ultracentenarie di famiglia.

Lo abbiamo incontrato prima della pausa estiva e ci siamo fatti raccontare qualcosa di più su Drengot e sulla sua visione.

Sei partito da una vigna di famiglia e da lunga storia, operando una piccola rivoluzione nel territorio di Cesa e di tutto l’aversano. Ci racconti come è nato il tuo progetto e perché hai scelto di lavorare solo con Asprinio?

Per raccontarti come siamo arrivati a Drengot voglio fare una premessa, per me importante, che riguarda il territorio in cui ci troviamo.

La provincia di Caserta è una delle migliori di Italia per la vitivinicoltura perché è estremamente fertile – siamo nel cuore di quella che gli antichi chiamavano Campania Felix – ma proprio la sua fertilità ha fatto sì che, soprattutto dal dopoguerra in avanti, ci si concentrasse su coltivazioni intensive, per sfruttare al massimo la ricchezza del territorio. Anche perché i prodotti alimentari del casertano non hanno eguali in Italia dal punto di vista qualitativo e, quindi, sono sempre stati molto richiesti. Non lo dico per partigianeria, è la realtà e lo dimostra il fatto che ancora oggi la gran parte dell’industria agroalimentare del paese viene qui a comprare materie prime e prodotti per poi rivenderli con la propria etichetta. Il limite di questo sistema qual è, però? Che questa zona, speciale dal punto di vista agronomico, ricchissima in biodiversità e con una lunga tradizione agroalimentare, è diventata, nel tempo, una terra di contoterzisti a servizio di tutte le aziende del paese. È stata la sorte di molte zone del Sud Italia, a seguito del boom economico e con la parallela perdita della vocazione agricola di queste zone. Sembra, però, che le cose stiano piano piano cambiando, anche se ci vorrà tempo per vedere i risultati.

Sì, è vero, gli imprenditori agricoli di nuova generazione stanno cercando di fare un lavoro diverso. Per esempio, qui nell’aversano ci sono tantissime aziende agricole che operano in biologico e soprattutto si stanno facendo strada molte realtà che hanno scelto di entrare nella grande distribuzione con un marchio proprio e con un posizionamento e una strategia di comunicazione a supporto. Stiamo cercando di uscire dalla logica contoterzista per riappropriarci della nostra identità, anche per poter dare il giusto valore – economico e culturale – ai nostri prodotti, che sono davvero di qualità altissima, che si tratti di frutta, di verdura, di vino o di formaggi.

La cosa più difficile è capovolgere la prospettiva e allontanare tutti quei pregiudizi che si sono nel tempo accumulati e che, nella maggior parte dei casi, sono frutto di una pessima narrazione delle nostre terre e della nostra storia.

Tu con Drengot stai cercando di dare un tuo contributo per quanto riguarda il vino, dando una nuova vita a varietà autoctona come l’Asprinio. Mi sembra che il tuo progetto sia animato da un certo spirito battagliero.

Assolutamente sì. Quando ho iniziato a pensare di avviare un progetto sui terreni di famiglia, non avevo in mente di fare vino ma ero sicuro di voler qualcosa per restituire a questo territorio quello che merita, con un misto di orgoglio e di senso di riscatto, per tutto quello che ci è stato tolto e le opportunità che non ci sono state date.

La scelta dell’Asprinio è arrivata strada facendo, ci sono stati due episodi piccoli ma decisivi. Il primo è stato una lunga chiacchierata con un produttore di vino del Veneto, per il quale l’Asprinio è uno dei bianchi migliori d’Italia. Per me è stata una sorta di illuminazione, che mi ha portato a riflettere molto, anche perché la mia famiglia alleva Asprinio da sempre, almeno dal 1800, ma sicuramente potremmo andare ancora più indietro, volendo fare un po’ di ricerca. E io stesso sono cresciuto in mezzo alle vigne, insieme ai miei cugini ho passato tutte le mie estati di bambino e ragazzino lì. Quindi, dopo questo incontro ho fatto un giro nella vecchia cantina di mio nonno e per le vigne e così ho deciso, immaginandolo subito come un progetto di lungo respiro, a venti – ma anche trenta – anni. Volevo costruire qualcosa che potesse durare nel tempo e che desse davvero valore a questa terra. L’Asprinio ha caratteristiche che lo rendono unico nel panorama vinicolo italiano. Ci dici qualcosa di più?

Per prima cosa bisogna dire che è un vitigno che qui si alleva fin dall’antichità e che definire territoriale è poco, perché cresce solo qui e quando dico “qui” intendo i quindici comuni dell’aversano, perché se già provi a spostare l’Asprinio di pochi chilometri, diciamo a Caserta, non cresce più.

E fammi fare anche un piccolo excursus storico: nel Settecento, a causa di una pandemia a Napoli e dintorni, un nobile locale decise di trasferirsi e isolarsi – non abbiamo certo inventato noi il lockdown –  nel castello di Tufo, portando con sé, fra i vari beni, anche alcune viti di Asprinio per impiantarle nei terreni circostanti. Ora, una delle caratteristiche di questa varietà è che si sviluppa in altezza, raggiungendo e superando i 15 metri,  a Tufo però le viti non riuscivano a crescere e presero nel tempo un’altra fisionomia e altre caratteristiche: il Greco di Tufo è nato dall’evoluzione di quelle prime viti di Asprinio.

E proprio dalla straordinaria altezza di cui ti parlavo deriva la peculiare struttura delle alberate aversane: le viti di Asprinio crescono intrecciate – o “maritate” come si dice da noi – ai pioppi che vengono utilizzati come supporti, mentre i tralci si attorcigliano a cavi di ferro zincato, creando quasi dei muri vegetali. È un’altra di quelle meraviglie che si trovano solo qui, tanto che le alberate sono state riconosciute come patrimonio immateriale della Regione Campania.

La leggenda dice che l’Asprinio è stato il primo spumante dalla storia. Quanto c’è di vero?

È tutto vero! Semplicemente perché l’Asprinio ha un’acidità di dieci decimi. Non esiste nessun’altra uva che raggiunge questi livelli, quindi si può dire che dall’Asprinio nasce un vino naturalmente frizzante. È uno spumante naturale di fatto e quando diciamo che le bollicine sono nate qui, lo diciamo perché alla corte degli Angiò si beveva solo Asprinio, proprio perché frizzante. Tutto questo è documentato.

Il primo documento ufficiale in cui si cita l’Asprinio è datato 1495 ed è una scrittura privata fra un proprietario terriero e il suo colono ma, come ti dicevo, nell’aversano si alleva da sempre.

È incredibile come un vino così speciale sia stato così poco valorizzato, quasi dimenticato. Credo che sia una dinamica collegata anche al contoterzismo di cui parlavi prima.

Sì, certo. In realtà a livello locale non si è mai smesso di consumare Asprinio ma diciamo che è sempre stato il classico vino da vendere sfuso o da produrre e destinare a uso privato e questo perché dal secondo dopoguerra fino agli anni Novanta il grosso della produzione era destinato alla cantina della Vecchia Romagna, che pagava molto bene le uve per due utilizzi: l’uva era usata per ottenere una base spumante da vendere ai produttori francesi di champagne; con la vinaccia, invece, si otteneva il famoso brandy. Quindi, per decenni – fino alla chiusura di questa cantina – non è stato più redditizio produrre un nostro vino.

Per quanto riguarda la nostra azienda agricola, alla morte di mio nonno (nel 1990), mio padre ha preso in mano la sua gestione, dedicandosi soprattutto alla vigna che è antica, tutte le nostre piante hanno circa 200 anni. Drengot nella sua fisionomia attuale quando è nata, quindi?

Le prime due annate sono state la 2015 e 2016, ma nei fatti sono state dei test, non abbiamo mai pensato di commercializzarle. Nel 2017 ho ripensato tutta la struttura, con un nuovo gruppo di lavoro che funziona molto bene e, così, siamo arrivati a una formula convincente: il lancio sul mercato del vino è avvenuto nel 2018 e quello dello spumante nel 2019.

Avevo in mente un prodotto “ultra-territoriale”, lavorando solo ed esclusivamente con Asprinio, per tutti i motivi che già ti ho raccontato, e volevo che fosse un prodotto di alta qualità che rendesse finalmente giustizia al grande potenziale di quest’uva. Volevo dimostrare, ai miei conterranei prima di tutto, che quel vino, che qui chiamavano tradizionalmente “il vinello”, poteva essere un ottimo vino, di grande piacevolezza e con buon potenziale evolutivo. Un vino di fascia alta.

Ho scelto il nome Drengot per dichiarare da subito il legame con il territorio. Mentre le nostre tre referenze hanno nomi connessi alla storia locale: Terramasca significa terra vulcanica, quindi rimanda al carattere delle nostre terre, Scalillo è un omaggio alla scala che usiamo durante la vendemmia e che ha una particolare forma rastremata per consentire la raccolta manuale sulle nostre alberate e, infine, Asprinium per celebrare fino in fondo la nostra varietà, con un rimando al mondo latino, quindi alle nostre radici.

Terramasca è la vostra referenza di punta, lo definirei un metodo Charmat “nobile” perché matura un anno in acciaio, fa diciotto mesi di affinamento sui lieviti, con un riposo, poi, in bottiglia di almeno altri sei mesi. Considerando, però, il carattere naturalmente frizzante dell’Asprinio, mi viene spontaneo chiederti se pensi di produrre anche un metodo classico.

In realtà ci stiamo già lavorando e ti posso dire che, nel futuro prossimo, Terramasca sarà esclusivamente un metodo classico, non posso essere più preciso perché vogliamo prenderci tutto il tempo che ci serve per arrivare a una bollicina perfetta, che ci soddisfi a pieno. Quest’uva se lo merita!

Sicuramente, Terramasca rimarrà la nostra eccellenza, ma non abbandoneremo del tutto lo Charmat. Lo useremo, infatti, per una nuova referenza un po’ più giovane e non più di annata e per questo più accessibile nel prezzo. Per me è importante, in questo momento, far arrivare l’Asprinio a un pubblico ampio, senza naturalmente abbassare la qualità. Il tuo progetto sta dimostrando fin dove può arrivare l’Asprinio. Che impatto ha avuto il tuo approccio a livello locale? Come è stato recepito?

Ciò che ho portato io qui è stata soprattutto una mentalità positiva: il prodotto c’era ma era poco considerato, da noi per primi. E per questo motivo, nonostante tutte le peculiarità dell’Asprinio, il vino è sempre stato di bassa qualità; quello che ho scelto di fare io, invece, è stato nobilitarlo al massimo, mettendo in piedi un gruppo di lavoro di alto livello e mostrando a tutti tutto il potenziale che abbiamo. E nel farlo ho stupito positivamente i consumatori ma anche gli altri imprenditori agricoli. Diciamo che sono riuscito a smuovere le acque.

Per me, personalmente, Drengot va oltre le opportunità imprenditoriali, è un progetto che riguarda soprattutto il territorio nella sua interezza: sono partito dall’Asprinio per dare nuovo valore a tutto quello che abbiamo qui. Però ammetto che c’è tantissimo da fare e che sono solo agli inizi, con la complicazione che ci troviamo a dover fare il lavoro di un consorzio, che qui non c’è.

Capisco, anche perché per portare avanti certi discorsi servono le istituzioni e serve anche una visione di marketing territoriale, che sono può essere affidata solo a un singolo.

Devo dire che le Pro Loco qui stanno facendo un gran lavoro di supporto. L’inserimento dell’Asprinio fra i beni immateriali campani, si deve al loro impegno. È un riconoscimento importantissimo, non solo a livello simbolico ma anche perché vincola tutti a una tutela delle viti e a una cura del territorio che prima non c’erano. Recentemente è stato fatto anche il passo successivo per ottenere il riconoscimento dall’UNESCO.

Inizia a esserci un certo movimento e una certa attenzione che prima mancavano e che riguardano l’Asprinio ma anche tutti i nostri prodotti locali. Vedo, per esempio, un rinascimento complessivo del vino del casertano, qui c’è un lunghissima e preziosa tradizione: abbiamo tanti rossi e tanti bianchi da splendide uve autoctone, sono poco conosciuti ma stanno trovando nuovo vigore, come il Casavecchia, che è davvero ottimo. È un bene perché si può creare, con il tempo e con il lavoro, un circolo virtuoso per tutto il territorio.

Per quanto riguarda me, sono molto ottimista perché credo molto nella qualità del mio prodotto, so che la storia dell’Asprinio ha un fascino tutto suo e sono molto determinato a contribuire alla rinascita della mia terra. Si tratta unicamente di dare tempo al tempo e lavorare con tenacia.

Redazione 7.09.2021

Nicola Biasi: l’importanza di rimettere al centro il territorio

Miglior giovane enologo d’Italia 2021 per Vinoway, premiato come Cult Oenologist per il Merano Wine Festival 2021 (il più giovane di sempre a ricevere questo riconoscimento), nel 2015 il premio Next in Wine di Simonit & Sirch – in collaborazione con Fondazione Italiana Sommelier Bibenda – e un carnet di esperienze professionali davvero ricco, sia come enologo all’interno di numerose aziende, sia come consulente: è il profilo molto (troppo) sintetico di Nicola Biasi, talentuoso enologo e vignaiolo che in questa intervista ci racconta come è nato il suo Vin de la Neu e qual è la strada, secondo lui, per raggiungere una reale sostenibilità.

Sia come enologo interno alle aziende, sia come consulente hai lavorato e lavori ancora in zone sicuramente vocate, una su tutte Montalcino. Quando però, si è trattato di fare il tuo vino, hai scelto un territorio non blasonato e, all’apparenza, anche difficile (ndr. Coredo, Trentino). Come mai?

Perché penso che le zone vocate non siano solo quelle “famose” e che non conosciamo ancora tutte le potenzialità dei nostri territori. L’esempio più evidente è proprio quello di Montalcino: è una delle denominazioni storiche italiane ma, in realtà, ha iniziato a fare vino seriamente e a concentrarsi sul Sangiovese solo una quarantina di anni fa. La zona è palesemente vocata e lo è sempre stata evidentemente, quello che è cambiato, nel tempo, è stato il nostro sguardo. Questa deve essere una lezione: bisogna continuare a studiare perché ci sono potenzialmente territori capaci di diventare i nuovi Montalcino.

Ovviamente, non sto dicendo che possiamo iniziare ad allevare vite dappertutto. Ma bisogna mettere il territorio al centro dei nostri pensieri. Cosa intendi? Non è sempre così, secondo te?

Sì e no. Per me il territorio è più importante del vitigno, che deve essere una sorta medium per far emergere il carattere del luogo. È un approccio, lo so, che fa passare in secondo piano il vitigno dal punto di vista dell’espressività organolettica ma che gli dà un’importanza di altro tipo, perché lo fa diventare lo strumento capace di far esprimere nella maniera più compiuta un territorio.

La scelta dello Johanniter per il tuo Vin de la Neu nasce da queste riflessioni, immagino.

Sì. Mi sono anche assunto il rischio di sbagliare ma ero convinto che lo Johanniter fosse il vitigno migliore per Coredo. Siamo in Alta Val di Non, dunque un terreno povero, che tende a farti produrre molto poco e questo eliminava già alcune scelte perché per certi vini il “poco” non è bene, né qualitativamente né quantitativamente. A quelle altitudini, poi, doveva essere per forza un bianco. E poi, volevo che fosse capace di durare nel tempo.

Mettendo insieme tutti questi fattori, sono arrivato allo Johanniter, perché ha i geni del Pinot Grigio e del Riesling: da un lato c’è la precocità del primo, di cui ho bisogno in una zona così fredda, dall’altro c’è il Riesling, importante per il potenziale evolutivo del vino.

Il terreno era un terreno di famiglia?

Era la casa dei miei nonni, una volta che sono ritornati in Italia dall’Australia e, per noi, è sempre stata il luogo delle vacanze. Noi vivevamo in Friuli all’epoca e i terreni sono sempre stati dati in affitto e ovviamente destinati alla coltivazione di mele. Dopo cinque anni di lavoro come enologo delle tenute Allegrini in Toscana, avevo voglia di fare un vino mio. Volevo mettermi alla prova e capire se e quanto ero bravo, facendo tutto da solo, senza la struttura di una grande azienda alle spalle. È stato abbastanza naturale guardare a un terreno di famiglia. Ho piantato nel 2012 e la prima annata è stata quella successiva.

Tornando allo Johanniter, quanto ha contato nella scelta il fatto che sia un vitigno PIWI?

Molto perché in questo modo ho praticamente azzerato i trattamenti. È la stata la chiusura del cerchio: fare un vino tutto mio, nel giardino di casa e per giunta realmente sostenibile. Sinceramente mi stimolava molto anche il fatto di provare a fare qualcosa che lì ancora non aveva fatto nessuno. Addirittura, ho scelto lo Johanniter quando ancora non aveva l’autorizzazione, che è arrivata solo nel 2014.

Possiamo già azzardare un bilancio di questo primi nove anni? Come si sta comportando il vitigno?

Innanzitutto, posso smentire molti detrattori dei vitigni resistenti, che sostengono che dopo alcuni anni i PIWI non resistono più alle malattie. Per ora le mie viti funzionano perfettamente dal punto di vista agronomico e sono resistenti. Poi non so cosa succederà da qui a trent’anni ma oggi è così.

Chiaramente, le vigne con qualche anno in più sulle spalle danno dei risultati diversi, i vini stanno migliorando costantemente, acquisendo col tempo una maggiore profondità organolettica. Ma fin da subito ho avuto una buonissima risposta, perché le vigne, aiutate dal terreno che le fa produrre poco, hanno sempre dato uve di alta qualità.

Vin de la Neu è una sola etichetta attualmente. Ti piacerebbe sperimentare con altre varietà?

Sono davvero molto soddisfatto di come si comporta lo Johanniter su quel terreno e, prima di tutto, vorrei incrementare la produzione: da 1000 a 2000 bottiglie. Nel 2017 ho piantato ancora perché il primo vigneto era davvero piccolo e nel 2025 amplierò ulteriormente, così arriverò a circa un ettaro di vigna e potrò far crescere la produzione.  Non escludo di piantare altro per capire come si comporta un’altra varietà, ma allo stesso tempo sono certo che farò solo un’etichetta. Forse più in là, Vin de la Neu potrebbe diventare un blend: un’evoluzione di questo tipo potrebbe interessarmi.

Ma è un progetto con una identità così forte e semplice che non voglio snaturarla con altre referenze. Quando la mattina della prima vendemmia – il 12 ottobre 2013 – ci siamo svegliati e tutto ero coperto di neve, ho pensato di aver trovato la mia storia. Il vino si chiama Vin de la Neu per questo motivo.

Con Vin de la Neu volevi fare un bianco capace di invecchiare, grazie anche al ricorso alla fermentazione malolattica. In Italia per i bianchi, tutto sommato, è ancora poco diffusa, perché secondo te?

C’è diffidenza verso la malolattica perché si teme sempre che appesantisca troppo i bianchi, li privi di freschezza. Ma è un pregiudizio, se è ben fatta conferisce stabilità al vino e quindi, al contrario, gli aromi si preservano meglio. Si perde forse qualcosa all’inizio ma in prospettiva si ha un vino bianco che può durare molto nel tempo. In Italia, i bianchi che invecchiano sono ancora troppo pochi e, siccome il potenziale evolutivo è fondamentale per dare valore a un vino, penso che dobbiamo iniziare a farne di più.

Anche per poterci confrontare davvero alla pari con i francesi, andando oltre la gara facile degli ettolitri prodotti o del numero complessivo di bottiglie vendute.

L’eterna rivalità Italia-Francia…

Guarda, io non credo che i francesi siano più bravi di noi a fare vino, credo siano più bravi a vinificare in un modo più adatto per fare vini di valore. Hanno la tranquillità e la forza di lavorare per fare vini che durano. Si sanno far aspettare. Su questo fronte, per me, siamo noi a dover cambiare, se lo vogliamo naturalmente.

Dato che la sostenibilità è una delle chiavi del tuo progetto, ti chiedo cosa rende un’azienda agricola sostenibile?

In fondo è molto semplice: alla fine del suo ciclo deve inquinare poco. Il paradosso, in questo momento, è che un’azienda può essere a tutti gli effetti certificata biologica ma inquinare comunque troppo.

Guardare solo quanti e quali prodotti vengono usati non dice abbastanza delle buone pratiche di un’azienda. Ti faccio un esempio semplice: posso usare solo zolfo e rame ma se poi devo fare più di 20 trattamenti e per ogni trattamento spreco 200 o 300 litri d’acqua l’impatto ambientale è enorme. Senza considerare la CO2 prodotta a ogni intervento. La sostenibilità deve riguardare un’azienda nella sua interezza: ogni passaggio produttivo, ogni singolo gesto quotidiano. E qui torniamo al tuo interesse per le varietà resistenti.

Ho assoluta certezza che le varietà resistenti oggi siano l’unica risposta concreta in viticoltura. Dico “oggi” perché non escludo che fra qualche tempo si scopriranno cose nuove ma allo stato attuale è così.

È per questo che, alla fine di luglio, è nata una rete di impresa che raggruppa le aziende che seguo come consulente e che hanno scelto questa strada. Nello statuto si parla di sostenibilità concreta, di vitigni resistenti, ma non solo, perché noi il focus deve essere, appunto, sulla sostenibilità e non sui mezzi che si usano per raggiungere questo obiettivo. Ogni iniziativa che tende a questo scopo per noi è ben accetta.

A questo punto mi sembra inevitabile chiederti cosa pensi della definizione di “vini naturali”.

A me non piace il termine perché divide in una maniera un po’ manichea i buoni dai cattivi: se sei naturale, sei dalla parte giusta, sennò sei un bandito. E invece le cose sono un po’ più complesse di così.

Inoltre, sono dell’idea che meno si vuole intervenire più si deve conoscere. E, invece, molto spesso – ovviamente non sempre – chi sta sotto il cappello del naturale queste conoscenze non le ha e ricorre all’idea un po’ romantica del vino una volta, del vino del contadino.

Si pensa che il vino sia soggettivo, ma non è così. O meglio, c’è il gusto personale ma prima di questo, per fare un buon prodotto – e questo vale per il vino e per ogni altra cosa – ci sono dei parametri oggettivi che arrivano dalla competenza e dal saper fare. Se un vino ha una volatile che supera le soglie di legge o comunque che devia gli aromi del vino, naturale e meno che sia, non può essere definito buono.

Diciamo che, come nel biologico, forse il naturale è un grande cappello sotto il quale si trova un po’ di tutto.

Ci deve essere un’etica in tutte le scelte che un’azienda compie, ma queste scelte devono essere indirizzate a ottenere un buon vino. Se scelgo il biologico o il biodinamico, lo devo fare non perché è una bandiera ideologica ma perché è il modo di operare che mi consente di fare il miglior vino possibile, nel contesto territoriale e ambientale in cui mi muovo.  È una prospettiva questa sulla quale mi confronto tantissimo anche con le aziende che seguo e che usano i vitigni resistenti.

Per me non ha senso mettere davanti a tutto la scelta dei PIWI, bisogna, invece, partire dalla qualità del vino, che è l’unica cosa, insieme a un approccio etico, che dà senso al nostro lavoro. Immagino che sia per questo che quando parli di Vin de la Neu parli molto poco di PIWI.

Sì, perché io credo molto nel potenziale dei PIWI ma credo anche che l’unico modo per arrivare a una loro diffusione sia quella di fare vini davvero buoni. Dobbiamo convincere i consumatori partendo dalla qualità del vino, è solo così che si può innescare un cambiamento, sennò rimarranno una bella nicchia, animata da valori sostenibili ma troppo piccola per fare la differenza.

All’inizio ho parlato del tuo curriculum molto ricco. Ci vuoi raccontare qualcosa di te?

Sono friulano e mio padre era enologo, dunque sono cresciuto in vigna e in cantina. Dopo la scuola di enologia, ho deciso di iniziare subito a lavorare perché avevo fretta di iniziare a fare. Dopo due vendemmie con Jermann, ho iniziato a lavorare con Patrizia Felluga, per Zuani, dove si facevano solo bianchi ed ero l’unico dipendente. E lì ho potuto mettere mano in tutte la parti del processo, ne avevo bisogno per capire, rendermi davvero conto.

Dopo cinque anni da Zuani, sono andato in Australia, poi una volta tornato ho lavorato per qualche mese al Castello di Fonterutoli e poi sono andato in Sud Africa. Qui mi ha chiamato Marilisa Allegrini per propormi di seguire Poggio San Polo. Non potevo rifiutare e, successivamente, ho iniziato a occuparmi anche di Poggio al Tesoro.

A Marilisa devo moltissimo ma dopo qualche anno avevo, di nuovo, bisogno di cambiare: prima ho piantato la vigna a Coredo e poi nel 2016 ho deciso di fare il consulente, mi piaceva l’idea di lavorare contemporaneamente su territori diversi. Nel 2021, in piena pandemia, ho creato la Nicola Biasi Consulting una società di consulenze per le aziende che fanno vino. L’obbiettivo è di poterle seguire a 360 gradi, collaborando con professionisti dalla formazione specifica.

Un’ultima domanda: fai anche parte del progetto Wine Research Team. Di cosa vi occupate?

È una rete d’impresa voluta da Riccardo Cotarella nel 2012 e composta da quaranta aziende che fanno ricerca e sperimentazione in viticoltura ed enologia. È una sorta di snodo fra l’università e le aziende. Diciamo che cerchiamo di trovare applicazioni pratiche, sperimentando sul territorio, tecnicamente, quanto studiato dalle università o dagli enti di ricerca scientifica.  E le soluzioni che troviamo sono messe a disposizione delle aziende associate. È un lavoro per me molto bello, molto stimolante e che ci sta dando grandissime soddisfazioni.

ALTRE NEWS

Cosa abbiamo letto a Ottobre

Il ghiottone errante. Viaggio gastronomico attraverso l’Italia

Paolo Monelli e Giuseppe Novello: alle origini della letteratura enogastronomica italiana

Paolo Monelli e Giuseppe Novello: il primo è giornalista e scrittore, dallo spirito gaudente e con una passione colta per il cibo e il vino; il secondo è un disegnatore, astemio, frugale e vagamente ascetico. In comune hanno solo l’esperienza della Grande Guerra, alla quale hanno presso entrambi parte come alpini.

Negli anni Trenta questa bizzarra coppia di amici, viene spedita in giro per l’Italia dal quotidiano torinese La Gazzetta del Popolo, per raccontare ai lettori il paese dalla prospettiva delle osterie e dei vinai.

Un percorso in più tappe, da nord a sud, attraverso le diverse tradizioni enogastronomiche, con tutto il loro carico peculiare di materie prime e preparazioni, ancora per molti versi tutte da scoprire in un’Italia unita già da diversi decenni ma ancora molto “regionale” dal punto di vista delle tradizioni e della cultura del cibo.

Dal Barolo – bevuto alla Morra e definito senza esitazioni da Monelli “il più gran vino del mondo” – fino agli strascinati (ovvero le orecchiette), che diventano oggetto di una digressione quasi poetica, l’esito finale è un racconto a episodi che ha per protagonisti cuochi e cuoche ma anche territori, usanze e rituali legati inscindibilmente a certi cibi e certi sapori. Un racconto godibilissimo, brillante e ancora oggi in gran parte attuale, dove Monelli esprime tutta la sua intelligenza e ironia di consumato bon vivant e Novello – pur nel suo disinteresse apparente per l’enogastronomia – riesce a cogliere l’essenziale con tratto lieve e arguto.

Pubblicato per la prima volta nel 1935, Il ghiottone errante raccoglie tutti gli articoli e le vignette che compongono questo diario di viaggio, aprendo di fatto la strada a un genere – quello della letteratura di viaggio enogastronomica – all’epoca ancora poco frequentato in Italia. L’edizione post bellica del 1947 è quella ripubblicata nel 2016 da Slow Food con una bella introduzione di Carlo Petrini, che spiega cosa ha rappresentato per lui la figura di Monelli e quale sia stata la sua importanza per il giornalismo enogastronomico.

Paolo Monelli, Il ghiottone errante – Viaggio gastronomico attraverso l’Italia, 2016, Slow Food Editore

Il pedante in cucina

Se in cucina c’è Julian Barnes

Cosa succede quando un brillante scrittore come Julian Barnes decide di diventare un cuoco amatoriale degno di questo nome?

Succede che ai fornelli, armato di ricettari e attrezzi vari, troviamo sì un appassionato di cucina ma della specie più pedante e rigorosa, perché abituato – per lavoro – a riflettere sulle parole, a vagliarne peso, sfumature e precisione. E qui iniziano i problemi, perché i libri di cucina si rivelano più insidiosi di quanto si potrebbe sospettare, scatenando nel pedante che si cela in Barnes (e un po’ in tutti noi) una cascata di dubbi, insicurezze, piccole manie e domande, spesso destinate a rimanere senza una risposta univoca. Per esempio, facile dire “prendete una cipolla media” ma qual è l’inequivocabile sistema di misurazione delle dimensioni delle cipolle? Oppure il classico e all’apparenza innocuo “tocchetto” quanto è grande veramente? E “una spruzzata” di vino quando diventa una pioggia che rischia di compromettere la riuscita del piatto? Per non parlare delle trappole che riservano tempi cottura, temperatura del forno e dimensioni delle pentole.

Tutto questo vi sembra secondario o eccessivo? Ebbene, non dovrebbe essere così, perché, come ci ricorda Barnes, cucinare è «la trasformazione di un’incertezza (la ricetta) in una certezza (la pietanza) facendo un sacco di storie».

Ne Il pedante in cucina, Barnes si mette ai fornelli e, fra un delizioso manicaretto e l’altro, discetta con arguzia e (auto)ironia sul piacere di cucinare e mangiare, dispensando suggerimenti su come costruire la propria libreria culinaria, ripercorrendo i libri di cucina di grandi maestri della narrativa gastronomica come Elizabeth David, Jane Grigson, Mrs Beeton e Pomiane e ricordandoci, con garbo, che tutti nascondiamo in cucina un cassetto dei misteri, dove affastelliamo senza una reale ragione gli oggetti più disparati e inutili, senza mai trovare la forza di buttarli.

Il Pedante in cucina raccoglie gli articoli dell’omonima rubrica (The Pedant in the Kitchen) tenuta da Julian Barnes su The Guardian per diversi anni.

Julian Barnes, Il pedante in cucina, 2020, Einaudi

– Redazione 27.10.2020

Campania Felix, a spasso nella storia… E tra i vigneti!

È un territorio fertile per molti motivi, quello campano, sia per la produzione vinicola, che per il patrimonio gastronomico unico nel suo genere. Non a caso gli antichi la chiamavano Campania Felix per indicare un territorio estremamente generoso e vocato per l’agricoltura, grazie ai suoli di origine vulcanica che andavano dall’area Flegrea fino al monte Massico. Fare un viaggio enogastronomico nella regione significa addentrarsi nella sua storia, percorrendo i suoi cinque principali areali (il Casertano, l’area tra Napoli le isole e la Costiera Amalfitana, l’Irpinia, il Beneventano e il Cilento), che si dischiudono su numerose enclave di microclimi, suoli e vitigni differenti.

Il cuore pulsante della regione, l’Irpinia, è l’esempio più evidente di questa complessità di paesaggi, dove l’ambiente montuoso-collinare, atipico rispetto al resto della Campania, è culla di uno dei vitigni più importanti della regione, l’Aglianico, da cui nasce il Taurasi Docg. Questo rosso opulento e complesso mantiene il suo legame con la storia antica, tanto che il suo nome, Taurasi, deriva da un piccolo borgo vinicolo creato dai romani nell’80 a.C. dopo la sconfitta degli Irpini, mentre il suo vitigno, l’Aglianico, era denominato in passato “Ellenico”, probabilmente a causa delle sue origini greche.

Chi ama questo rosso di grande corpo e intensità, deve assolutamente provare le versioni che ne dà il professore Luigi Moio, enologo pluripremiato e fondatore della cantina Quintodecimo. Tra i più fini e importanti conoscitori dei profumi del vino, vi suggeriamo di sorseggiare il suo Vigna Quintodecimo Taurasi Riserva Docg, un vino seducente dai profumi di piccoli frutti a bacca nera, spezie dolci e note floreali, bocca complessa, lunghissima ed elegante, mentre leggete “Il respiro del vino”, uno dei suoi libri più famosi.

Dal momento che la lettura fa venire fame (!), perché non sbocconcellare uno dei formaggi tipici dell’Irpinia per farsela passare? Noi vi consigliamo il pecorino Carmasciano, nella versione più stagionata col Taurasi Docg, in quella fresca col il Fiano di Avellino Docg, un altro imperdibile vino della zona. Anche in questo caso ci viene in soccorso la maestria del professor Moio, che produce il Fiano di Avellino Docg Exultet, dall’impressionante bouquet e persistenza gustativa, il cui nome rievoca l’incipit del “rotolo di Quintodecimo”, una pergamena costudita nel Museo d’Arte Sacra di Mirabella Eclano (attualmente non aperto), che recita “Exultet iam angelica turba caelorum, ovvero “esulti il coro celeste degli angeli”.

Tra i vitigni tanto amati da Federico II di Svevia, il Fiano di Avellino è probabilmente stato importato dai Greci, esattamente come è avvenuto per il Greco di Tufo (nomen omen), la cui fortuna risale al I secolo a.C., come ci confermano alcuni affreschi di Pompei che lo vedrebbero raffigurato. L’abbinamento ideale con questo vino bianco? Naturalmente con i piatti di pesce e i crostacei, ma la versione alla Quintodecimo, il Greco di Tufo Giallo d’Arles, ci consente di gustarlo anche coi formaggi, persino con un caciocavallo giovane dell’Irpinia.

Un’altra meravigliosa zona vinicola da visitare è quella tra la provincia di Napoli e quella di Salerno, che comprende anche le isole di Ischia e Capri. Il Piedirosso, anche detto Pere ‘e palummo (Piede di colombo), un vitigno autoctono che ritroviamo spesso in uvaggio con l’Aglianico, è presente in molte denominazioni, tra cui la Vesuvio Doc, la Campi Flegrei Doc, la Tramonti Costa d’Amalfi Doc e la Capri Doc. Una cantina su tutte? Certamente Masseria Frattasi, tra le aziende vinicole campane da mettere assolutamente in agenda per una visita. Una declinazione particolarmente riuscita del Piedirosso, in assemblaggio con Aglianico e altre uve autoctone, è il loro Capri Doc, appena 600 bottiglie per un vino potente ed elegante, segnato da profumi di marasca, prugna e spezie, sorso carnoso e vellutato. Se allevato su terreni vulcanici, il Piedirosso si arricchisce di componenti minerali rintracciabili anche nel vino con certa marcata sapidità gustativa. Una caratteristica, quest’ultima, che non segna solo la produzione vinicola, ma tutti i prodotti agroalimentari vulcanici, come il pomodoro giallo del Vesuvio, dal gusto molto sapido e morbido, privo quasi totalmente di acidità. Una primizia indicata con le ricette intense a base di bottarga, a cui abbinare il Donnalaura, Falanghina del Sannio Dop Taburno, un altro vino di Masseria Frattasi, omaggio di Pasquale Clemente, titolare della cantina, alla nonna tanto amata. Un bianco da vendemmia tardiva, dai profumi tropicali, spezie e di frutta secca, sorso strutturato, di corpo e con lunga persistenza, che può essere abbinato agilmente anche ai formaggi di media stagionatura.

Tra i vitigni salvati dall’estinzione negli ultimi anni, su terrazzamenti della penisola sorrentina che sfidano la forza di gravità, vi segnaliamo anche il Gragnano, un rosso frizzante citato da Mario Soldati come “un Lambrusco, ma di più corpo” e protagonista di un divertentissimo siparietto nel film “Miseria e Nobiltà” tra il grande Totò ed Enzo Turco (“…e ti fai dare due litri di Gragnano frizzante. Assicurati che sia Gragnano. Tu lo assaggi, se è frizzante lo pigli, se no…” E Totò: “Desisto!”). Ottimo con i salumi italiani, vi consigliamo di provarlo col lardo e la pancetta steccata prodotte col maialino nero casertano.

Ci spostiamo proprio in quest’ultima provincia, che va dalla pianura campana fino a lambire quasi il Vesuvio, per parlare di una denominazione misconosciuta, che meriterebbe maggiore attenzione, come l’Asprinio d’Aversa Doc. Se vi capita di essere nella zona dovete andare a vedere assolutamente l’allevamento ad alberate dell’omonimo vitigno, davvero unico nel suo genere. Si tratta di filari di Asprinio che si sviluppano in altezza anche per 20 metri, spesso aggrappati a pali o a pioppi, che creano una straordinaria barriera vegetale, tanto che per vendemmiare si usano delle altissime scale da raccolta. Con l’Asprinio si producono delle interessanti bollicine, dalla spiccata e piacevole acidità. L’abbinamento? Con una bella pizza napoletana o con una mozzarella di bufala.

In provincia di Benevento, infine, la parte del leone la fa l’Aglianico del Taburno Docg, un grande rosso da invecchiamento, come il fratello Taurasi di cui abbiamo già detto e come il cugino Aglianico del Vulture Docg, allevato in Basilicata. Se le due versioni della Campania hanno più affinità per caratteristiche organolettiche, l’Aglianico del Vulture, coltivato in un vulcano spento, ha di norma un grado alcolemico volumico più alto e minore freschezza rispetto ai cugini campani. Ma questa è un’altra storia da scoprire nel prossimo viaggio a spasso per l’enogastronomia italiana! Continuate a seguirci.

– di Giordana Talamona 06.10.2020

Giordana Talamona, giornalista specializzata in enogastronomia e consulente wine&food, collabora con testate di settore e lifestyle come La La Wine, Bubble’s, The Italian Wine Journal, Style.it del Corriere e Life Style Made in Italy Magazine. Per dare solidità alla sua preparazione è diventata sommelier, qualifica che le ha permesso di tenere degustazioni guidate, corsi di avvicinamento al vino per scuole di cucina e di organizzare tasting per il lancio di prodotti con la stampa come PR.

Masseria Frattasi: l’assoluta modernità di un sapere antico

900 metri di altitudine, pendenze oltre i 40 gradi e un Mitsubishi L200 in grado di sfrecciare in mezzo alle vigne in piena vendemmia. Ci sarebbero i presupposti per brevettare un nuovo sport estremo, ma le condizioni sarebbero irriproducibili, e per il terroir e per il pilota, “un certo” Pasquale Clemente, che dopo averci offerto la miglior pasta e patate della nostra vita al ristorante La Falanghina di Bonea (2 nomi a caso!), ci ha letteralmente trasportati in un’esperienza quasi impossibile da descrivere a parole. Nel mezzo, siamo anche riusciti a intervistare Pasquale che di Masseria Frattasi è davvero l’anima. Il risultato è stata una lunga chiacchierata su identità, territorio, storia e radici.

Partendo proprio della origini, Masseria Frattasi alleva varietà che sono per la maggior parte autoctone, avete vigneti antichi e la storia della vostra famiglia è strettamente intrecciata con quella del Sannio, dunque ti chiedo: se è vero che il vino è espressione del suo territorio, allora cosa significa per voi fare vino in questa zona?

Significa lavorare portandosi dietro le esperienze maturate dalle diverse generazioni che qui si sono succedute. Significa aver assimilato naturalmente una conoscenza del territorio profonda, quasi simbiotica. È davvero il frutto del lavoro di secoli: per noi potare una vite in un certo modo, mettere le viti in un certo luogo significa attingere a un sapere antico che va oltre la nostra storia individuale e che si è stratificato nei secoli.

Non dimentichiamo che è stato questo il territorio che i Greci hanno scelto per portare la viticoltura nell’Europa Occidentale. Dunque conoscere questo territorio significa andare alle radici dell’intera storia della viticoltura occidentale.

Una dimensione secolare che è testimoniata, fra l’altro, dalla grande varietà di vitigni autoctoni che si trovano in questa zona. È una ricchezza straordinaria, anche se molti non vengono coltivati perché non sono riconosciuti dal registro nazionale della vite. Ecco, per me, fare vino qui vuol dire portarsi dietro tutta questa complessità.

Continuando a parlare di territorio, il vostro è sempre stato un lavoro di tutela del Sannio e delle sue tipicità ma anche di valorizzazione della sua storia. Possiamo parlare di una visione umanistica del fare vino?

Ti rispondo con un aneddoto personale. Al Metropolitan Museum di New York c’è un bassorilievo che raffigura la coltivazione della vite durante il periodo imperiale. Ora, per chiunque – da qualunque altra parte del mondo provenga – quel bassorilievo è semplicemente una bellissima opera d’arte, per me – quando l’ho visto – è stato del tutto spontaneo riconoscere in quella scultura le viti di Falanghina prefillossera che abbiamo qui in Campania, soprattutto nel Sannio. Questo per dirti che noi abbiamo un patrimonio storico, culturale e ambientale che nessun altro possiede ed è nel nostro DNA. Quindi lavorare qui non può prescindere da questo aspetto, anche se per me è importante sottolineare che siamo un’azienda molto ben radicata nella contemporaneità. Non c’è nostalgia per il passato ma c’è la consapevolezza della ricchezza che rappresenta e il desiderio di tramandarla anche grazie agli strumenti che i nostri tempi ci offrono.

Cosa vuol dire coltivare in un luogo dalla caratteristiche così uniche? E che cosa implica dal punto di vista delle pratiche in vigna?

Fammi dire che questa, nel suo insieme, è una terra eccezionale per una questione fisica e chimica ed è per questo che i Greci la colonizzarono per prima. È nata dall’esplosione di decine di vulcani, quindi è fertilissima,

qui si possono arrivare ad avere anche quattro raccolti all’anno. Per millenni, quando la terra era ancora il bene più prezioso, questa parte di territorio ha fatto gola a tutti… Longobardi, Goti, Ungari sono tutti passati da qui perché era terra di abbondanza.

Nello specifico, Masseria Frattasi si trova nell’entroterra ed è incastonata fra le montagne più alte dell’Appennino Campano, quasi tutti i nostri vigneti (l’80% circa) si trovano sopra i 600 metri di quota, perciò la nostra è a tutti gli effetti una viticoltura di montagna.

Coltivare alle nostre altitudini è sicuramente difficile ma ci consente di fare pochissimi trattamenti. È un aspetto quello della chimica in vigna con cui tutti stanno facendo i conti ora, mentre per noi si è trattato di continuare a lavorare come lavorano i nostri nonni. Ci siamo trovati a essere moderni semplicemente facendo quello che già i nostri nonni avevano individuato come una buona pratica, che dà un’uva sana e che rispetta la terra. Per tornare al discorso di prima… come vedi, fare vino qui vuol dire dialogare continuamente con la storia, ritrovandosi ad essere – anche per questo – straordinariamente contemporanei.

Operiamo in un biologico estremo, direi naturale, perché non usiamo né pesticidi né diserbanti, aiutati sicuramente dalle altitudini che ci permettono di fare solo quattro trattamenti all’anno. Pochissimi. Ed è tutto manuale, senza il ricorso a macchine, proprio per via della peculiarità del territorio e dei suoi terrazzamenti.

Che carattere dà ai vostri vini il fatto di nascere qui?

Mi parlavi di un regime in vigna naturale, a questo proposito ti chiedo cosa ne pensi della polarizzazione fra vino convenzionale e vino naturale?

Dipende tutto da come si comporta l’azienda. Il problema della viticoltura convenzionale è che si è spinta troppo in là, inquina troppo, produce troppo. Diciamo che è troppo aggressiva.

Le buone pratiche del territorio, sostenibili, per noi non sono una questione recente ma sono un’eredità che abbiamo raccolto. Noi qui abbiamo la più alta concentrazione di vigneti secolari della Campania, come ha riconosciuto anche l’Università di Salerno… non potevamo fare diversamente, in un certo senso, che continuare sulla strada tracciata. Anche perché, a dispetto della percezione che possono trasmettere le mode, la viticoltura non è qualcosa che si può improvvisare, ha bisogno di tempo: tempo per capire, tempo per sperimentare, tempo per conoscere un territorio e come la vite si comporta in relazione ad esso. È un processo; nel nostro caso un processo lungo secoli, che è quello che ci consente oggi di inserirci armoniosamente e con misura nel luogo che coltiviamo e abitiamo.

In cantina, invece, come operate?

Ci inchiniamo a sua maestà l’uva, perché prima di tutto ci sentiamo dei coltivatori di vigne. La cantina viene dopo e ha un comunque un ruolo secondario per noi rispetto alla vigna. Spesso sono la cantina e la tecnologia a imporre delle scelte, per noi è sempre il contrario: è il grappolo che decide. Con tutto quello che ne consegue; per esempio, per tutti i nostri vini utilizziamo pochissimi solfiti, perché le nostre uve sono sanissime, grazie alle basse rese e all’altitudine e quindi non c’è bisogno quasi di intervenire.

Parliamo ancora un po’ di storia. Possiamo definirvi “i custodi” della Falanghina di Bonea?

Mio nonno non l’ha mai voluta abbandonare, quindi in famiglia l’abbiamo sempre coltivata e vinificata. Può essere che ci sia stato qualcuno che l’ha imbottigliata prima di noi ma sicuramente nessuno ha iniziato a vinificarla prima, perché lo facciamo letteralmente da generazioni e non abbiamo mai smesso.

Se vuoi cercare l’origine storica della Falanghina devi venire qui, in questa micro-area del Sannio; fino a cinquanta anni fa, Bonea e Montesarchio erano le uniche zone della Campania in cui la si poteva trovare. Successivamente queste piccole vigne – che si sono salvate dalla fillossera grazie ai terreni vulcanici – hanno cominciato a diffondersi nel resto della regione.

Sicuramente abbiamo “un rapporto speciale” con la Falanghina, pensa che Ie cultivar sono quattro, noi siamo gli unici a coltivarle e vinificarle tutte. Nel resto dalla Campania trovi solo le due più diffuse.

E con la Capri DOC come è andata, invece?

Era l’ultima vigna di rosso sopravvissuta sull’isola, abbiamo voluta recuperarla per riprendere a coltivarla. È tutto molto semplice in realtà ma, come spesso accade, la semplicità è frutto di una complessità iniziale.

C’era il desiderio di rendere omaggio a un’isola bellissima che offre decine di varietà di vite diverse e, in un senso più ampio, questo vino è un omaggio alla Campania tutta, al fatto che al suo interno convivono territori diversissimi, che danno vini con caratteri altrettanto differenti.

Sicuramente Masseria Frattasi ha avuto un ruolo importante nel rilancio del Sannio e della viticoltura campana, come dimostra la storia della Falanghina. Guardando all’oggi, a che punto siete? O meglio, come giudichi “lo stato di salute” del vino della vostra regione?

Per me c’è una considerazione di fondo da fare: gli aspetti normativi della vitivinicoltura nel nostro Paese sono folli. Molto spesso ho la sensazione che chi si occupa di vino in Italia dal punto di vista istituzionale e normativo non conosca davvero bene, a fondo, il nostro mondo. E questo è un problema, non solo per i vini campani ma per tutti.

Quali sono a tuo avviso le dinamiche che hanno spinto la viticoltura di alcune regioni italiane – come il Piemonte o la Toscana – ad avere un appeal maggiore rispetto a quella campana?

Sono convinto che sia solo un fatto di conoscenza. Credo che si debba semplicemente dare tempo al tempo perché le persone possano apprezzare e conoscere tutta la ricchezza che c’è qui e che non è seconda a nessun’altra tradizione vitivinicola del paese. In fondo, se Hemingway in Addio alle armi cita così spesso il Capri Bianco un motivo ci sarà!

Considera che prima della Seconda Guerra Mondiale, la Campania era la prima regione d’Italia per produzione vitivinicola, poi sono cambiate tante cose. Sicuramente, il fatto che la nostra sia sempre stata una viticoltura molto difficile ha sbarrato la strada a una trasformazione più industriale, che da un lato è stato un bene, dall’altro ha forse dissuaso a investire in queste terre.

Ora si tratta di continuare a lavorare bene e fare qualche sforzo in più per far fare alle persone esperienze diverse, far loro conoscere di più questo territorio. È anche un momento storico propizio perché la sensibilità e l’attenzione dei consumatori verso certi aspetti – come il rispetto del territorio, l’importanza dei vitigni autoctoni – stanno cambiando.

Il vostro rapporto con il mercato internazionale è storicamente molto buono. Cosa mi dici di questa passione per i vostri vini?

Gli stranieri amano sicuramente i nostri vini ma amano anche i nostri luoghi. Quando arrivano qui, si trovano immersi in un contesto che li sorprende, che li affascina. Mi piace pensare che continui a ripetersi la magia che aveva già stregato Goethe nel Settecento.

Quale è, invece, il vostro rapporto con la critica (nazionale e internazionale) del vino?

C’è un po’ di diffidenza nei confronti del vino campano: è un dato di fatto. Questo, da un lato, rende ancora più importanti i riconoscimenti ottenuti e dall’altro, è uno stimolo a continuare a lavorare bene. In generale, non amo particolarmente fare confronti, accanirmi troppo su questi aspetti e su quello che rappresentano. Diciamo che ho un rapporto molto laico con punteggi e riconoscimenti, partendo anche da un fatto: noi solitamente vendiamo tutto il nostro vino entro Natale. Per me, alla fine, questo è il risultato che conta.

Ti faccio un’ultima domanda di carattere personale. Venendo da una storia come quella ci hai raccontato, ti sei mai immaginato a fare altro nella vita?

Guarda io ho fatto anche cose diverse. Sono laureato in Giurisprudenza, per esempio. Però, non mi sono mai visto in nessun altro orizzonte. È un richiamo troppo forte quello della vigna ed è un mondo talmente bello che non ho mai veramente pensato di allontanarmi.

Redazione 13.10.2020

Piero Garbellotto: l’arte del bottaio oggi

L’arte del bottaio è uno dei mestieri più antichi del mondo, una pratica essenzialmente artigianale che si può imparare solo sul campo, osservando e lavorando il legno giorno dopo giorno. Abbiamo chiesto a Piero Garbellotto – che oggi guida l’azienda di famiglia, una delle più importanti del settore in Italia e non solo – come si fa questo lavoro e come sta cambiando in relazione alla contemporaneità.

Avete una storia secolare alle spalle, ci vuole raccontare quali sono stati i momenti fondamentali del percorso che vi ha portati fino a oggi?

La nostra storia inizia nel 1775 quando Giuseppe Garbellotto, un mio avo – ormai siamo all’ottava generazione di famiglia – apre una bottega artigiana a San Fior (Treviso). Li iniziano le prime realizzazioni di barili e botti ma lo spazio diventa presto troppo stretto così la famiglia decide di costruire una sede a Conegliano, poco distante dal centro storico.

Nel 1800 partono da Conegliano – con otto cavalli bianchi ungheresi – persino le botti per l’imperatore cinese; si tratta forse della prima spedizione al mondo di botti nella Cina dell’epoca. Nel 1900 cominciamo a lavorare anche per gli Stati Uniti grazie all’innovativo polo produttivo di Conegliano, trasferito dal centro alla circonvallazione. Uno stabilimento che ha subito le due guerre mondiali e per questo ha dovuto cessare per alcuni mesi la produzione. Sono 245 anni di lavoro e passione e continuiamo a guardare al futuro: alcuni mesi fa abbiamo inaugurato, a Sacile, la nostra nuova “casa”, che abbiamo voluto chiamare “Intelligenza Artigianale”.

Scorrendo il vostro sito, mi aveva colpita proprio il concetto di “intelligenza artigianale”. Dunque, le chiedo come un sapere artigiano come il vostro dialoga con le tecnologie contemporanee. E come è sta cambiando il vostro lavoro in relazione ad esse.

Da circa dieci anni collaboriamo con l’Università degli Studi di Udine per sviluppare innovazioni che aiutino sempre più i mastri bottai e di conseguenza gli enologi ed enotecnici. A Sacile lavorano tre linee con dei mini-robot che implementano la sicurezza, tagliano e refilano perfettamente il legno, sgravando della parte più dura del lavoro il bottaio, che così può concentrarsi maggiormente sulla selezione del legname, sul controllo visivo e sulla fase di collaudo.

Abbiamo, inoltre, all’attivo due brevetti, uno (Botti e Barriques NIR) che è in grado di selezionare l’aroma del rovere categorizzandolo e l’altro (Digital Toasting System) che consente di avere una piegatura e un’ottima tostatura delle barriques, senza sbalzi di temperatura. Sono brevetti che consentono agli enologi ed enotecnici di avere prodotti costruiti in base alle proprie esigenze e perfettamente replicabili nel tempo. Detto questo, nulla ad oggi è cambiato nelle fasi di lavorazione rispetto un tempo, la tecnologia è entrata in punta di piedi per aiutare l’uomo, che resta l’unico in grado di produrre le barriques, le botti e i tini di Garbellotto.

Selezione, stagionatura, tostatura dei legni come avvengono nel vostro processo produttivo? E quali sono le variabili che incidono maggiormente?

La selezione del legno avviene direttamente in foresta poi i tronchi raggiungono – dalla Francia, dalla Slavonia e da altri paesi europei – la nostra segheria di proprietà, dove vengono tagliati secondo gli storici tagli di quarto o a spacco. Una volta refilato il tavolame, la futura doga subisce il processo di stagionatura naturale che varia a seconda dei centimetri di spessore del legno.

Solo quando raggiunge una umidità, verificata e ritenuta consona dai nostri operatori, la tavola entra in produzione per passare sotto i raggi NIR (la tavola con contenuto aromatico “vegetale” viene scartata) per diventare effettivamente doga. La fase di produzione e la fase di tostatura del prodotto è essenziale per elevare all’ennesima potenza i contenuti aromatici del legno. Grazie al NIR, che elimina i legni con aromi sgradevoli, e al DTS che permette tostature a temperatura controllata dal tablet riusciamo a consegnare al cliente il prodotto desiderato.

Provando a semplificare al massimo, cosa fa di una botte una “buona botte”?

Per fare una “buona botte” ci vuole tanta, tanta passione, amore per il mestiere di mastro bottaio e tanta professionalità. La tecnologia incide in piccola quantità sul prodotto, è l’uomo l’unico indiscusso valore aggiunto della nostra azienda e di tutte le altre aziende artigiane italiane.

Restando su questo tema, quali sono le caratteristiche di un bravo bottaio?

Nella nostra azienda, composta da una settantina di persone abbiamo circa quaranta mastri bottai. Operatori unici che hanno imparato sul campo come costruire una botte. Non c’è scuola al mondo, infatti, che insegni la costruzione di una barrique o di una botte. Come dicevo prima, ci vuole tanta passione e poi conoscenza acquisita sul campo… magari dal padre o dal nonno. Cito questo esempio perché abbiamo avuto in azienda tre generazioni di collaboratori: Moreno (il figlio) ha ricevuto e continua a ricevere gli insegnamenti dal padre Maurizio, che lavora ancora con noi e che è entrato alla Garbellotto grazie al padre, che era uno nostro collaboratore.

Nella scelta della botte più adatta a un vino, quanto conta la visione dell’enologo? E quanto gli altri fattori?

La visione dell’enologo è fondamentale. Quando un enologo acquista una barrique o una botte ha già in mente il proprio percorso imprenditoriale, il proprio marchio, il proprio vino frutto dell’invecchiamento. Nella maggior parte dei casi, i produttori, dunque, arrivano da noi già con le idee ben chiare anche se vogliono sempre sperimentare, capire come le tecnologie stanno migliorando l’intero comparto. E qui entrano in gioco la selezione del legno e i brevetti NIR e DTS, che hanno spesso un ruolo chiave nella scelta finale.

Come sta evolvendo il mercato, ovvero quali sono le tendenze attuali: ci sono tipologie di botte più richieste ora? Avete visto un mutamento in questo senso in relazione anche a un mutamento delle aspettative dei consumatori rispetto al vino?

Ora i produttori tendono a scegliere i legni NIR, selezionati dal nostro raggio infrarossi e suddivisi per categorie aromatiche ma abbiamo anche notato l’aumento delle richieste di tostatura meno marcata, media o leggero-media. Anche all’estero stanno seguendo pian piano questo andamento italiano e lo considero un segno dell’importanza della nostra cultura agroalimentare fuori dai nostri confini.

Il bottaio è sicuramente un lavoro affascinante e negli ultimi anni abbiamo anche assistito a una nuova riscoperta (finalmente) dei lavori artigiani. I giovani come guardano a questo lavoro, ce ne nella vostra azienda?

Recentemente, anche per dar fiato ai nostri esperti più anziani, abbiamo attivato un piano per giungere a un ricambio generazionale, sempre tenendo in considerazione la difficolta di formare nuovo personale. “Fare il bottaio” non è semplice. Ci vuole passione, come dicevo, ma per diventare un vero e proprio mastro bottaio servono anni di esperienza sul campo.

Negli ultimi tre anni abbiamo assunto almeno cinque giovani per avere tra tre o quattro anni operatori specializzati, veri mastri bottai in grado di produrre in autonomia una barrique o una botte. I giovani che abbiamo scelto sono ancora con noi, mi sembra un bel segno di vitalità e del fatto che c’è ancora voglia di imparare l’artigianalità di questo mestiere antico.

Immagino che nel tempo abbiate realizzato tanti progetti importanti e complessi ma le chiedo se ne esiste uno (o più di uno) che ricorda con particolare piacere.

Ricordo con piacere quella che, diciamo, è una nota di colore nel nostro mestiere ma che è anche un orgoglio aziendale: la realizzazione nel 2010 della botte più grande al mondo.

Oltre 5000 chili di rovere per un volume complessivo di 40 mc e una capienza di 33.300 litri che ci sono valsi il primo Guinness World Record. Dico primo perché poi, nel 2013, ne abbiamo ottenuto un altro arrivando ad oltre 40.000 litri. Erano due botti giganti, entrambe per il Valpolicella, ma anche il mondo dell’aceto ci ha commissionato lavori di una certa imponenza. Per un’acetaia di Modena, infatti, abbiamo realizzato un tino alto 8 metri e dal diametro di 7, per una capacità di 2.741 hl. Non a caso è stato soprannominato Hercules.

Redazione 17.11.2020

Verticalità e certezze: il metodo classico trentino

La verticalità è un concetto interessante quando si parla di vino. Da un lato richiama i profili gustativi più sottili e affilati, dove guidano acidità sferzanti e ricche sapidità. Dall’altro fa riferimento agli ambienti più scoscesi, quegli scenari geografici sfidanti che spesso si traducono in contesti di montagna. All’incrocio di queste due accezioni troviamo gli spumanti del Trentino, dove la roccia dei monti dà vita a bollicine dal profilo teso e vibrante.

Tra le zone del metodo classico italiano, il Trentino è quella che più di tutte affonda le proprie radici nel passato. Siamo nei primi anni del Novecento quando Giulio Ferrari, fondatore dell’omonima cantina, rileva una serie di similitudini tra il territorio dello Champagne e quello della sua terra. Nasce la produzione spumantistica trentina. Da lì parte un percorso virtuoso che arriva fino ai nostri giorni, con una costellazione di cantine che impressionano per livello qualitativo e capacità di fare sempre meglio anno dopo anno.

Ben più della metà del territorio trentino si trova al di sopra dei mille metri di altitudine, con terreni vitati che arrivano a lambire i 900 metri sopra il livello del mare. La montagna però non è l’unica chiave di lettura di queste terre: il mosaico che compone la varietà climatica della regione affianca l’influenza mite del Lago di Garda al freddo delle Dolomiti. Le conseguenti escursioni termiche donano ai frutti acidità importanti e un corredo aromatico ricco e sfaccettato.

Oltre alla denominazione di origine c’è Trentodoc a tutelare la qualità del metodo classico Trentino. Si tratta del marchio collettivo nato per delineare un’immagine unitaria intorno alla produzione di bollicine della regione, con un’attenzione specifica ai terreni di media altitudine. Proprio il sito Trentodoc racconta che lo stile inconfondibile dei suoi spumanti è supportato da un concreto riscontro scientifico. Una solida evidenza, e al tempo stesso una storia unica e affascinante. Una ricerca dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, in collaborazione con la Fondazione Edmund Mach e il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, ha evidenziato che esistono una serie di composti volatili legati specificamente alle escursioni termiche di montagna. Quando viene rilevata la loro presenza, quel vino non può essere che trentino. L’identità delle bollicine di montagna varca così i confini dell’aspetto sensoriale per fondare le sue basi su una puntuale evidenza scientifica: il luogo da cui provengono è scritto nella loro composizione chimica.

Ai vertici assoluti della produzione spumantistica non solo trentina, ma dell’intero Paese, troviamo Giulio Ferrari Riserva del Fondatore, dedicato al capostipite della cantina. Nasce da sole uve Chardonnay coltivate nello storico cru Maso Pianizza, tra i 500 e i 600 metri di altitudine, e trascorre quasi dieci anni sui lieviti. L’ultima versione in commercio è la 2008. Un’annata caratterizzata da temperature al di sotto delle medie di stagione, da una primavera piovosa e da un’estate fresca che ha permesso di mantenere un buon livello di acidità. Il sole di agosto ha fatto il resto, conducendo a una piena e completa maturazione. Nel bicchiere irradia il colore dell’oro, con un perlage di rara finezza. Il ventaglio dei sentori tende all’infinito, abbracciando territori diversissimi: frutti tropicali come il mango, erbe aromatiche del Mediterraneo, miele. Il carattere sontuoso di questa Riserva apre la strada a nuance più cremose come quelle della pasticceria, e poi ancora a salire verso il cioccolato bianco. La costellazione dei terziari allinea nocciola, mandorla, tè e una miriade di altre sensazioni. L’impronta avvolgente è totale, eppure ciò che sorprende di più sono le sciabordate di freschezza che sferzano il sorso senza tregua, regalando un piacere e una godibilità indimenticabili. Queste acidità vibranti, in un vino che ha più di dieci anni, sembrano custodire un enigma. È un segreto che in parte abbiamo già esplorato, ma per capirlo fino in fondo dobbiamo salire in alto. E arrivare lassù, sulle montagne del Trentino, tra costoni di roccia e infinite verticalità.

di Graziano Nani 10.11.2020

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Elena Fucci e l’essenza dell’Aglianico del Vulture

Una lunga, brillantissima chiacchierata con Elena Fucci, donna del vino di grande temperamento e passione, che, con la sua cantina fondata nel 2000 a Barile, ha ridisegnato l’orizzonte dell’Aglianico del Vulture, fra ritorno alle origini e desiderio di sperimentare.

La storia della tua cantina sembra il soggetto perfetto per un romanzo. Ci vuoi raccontare come è andata?

Oggi sembra quasi facile parlarne perché sono molti, negli ultimi anni, i ragazzi che hanno scelto di tornare alla terra ma il mio percorso 20 anni fa era abbastanza insolito. Considera che io non vengo da una famiglia che si è sempre occupata di vino. Il bisnonno e il nonno avevano i vigneti ma vendevano le uve, mentre i miei genitori sono tutti e due insegnanti, mia madre di matematica e mio padre (in pensione da poco) di fisica meccanica.

Quando mi sono laureata nell’estate del 2000, stavamo pensando di vendere le vigne e io avevo tutt’altro in testa: studiare ingegneria genetica, lasciare il mio paese, fare esperienze fuori e probabilmente non tornare. Quello che per me ha cambiato tutto è stato realizzare che, insieme ai vigneti, avremmo dovuto vendere anche la casa in cui ero nata e cresciuta. Non mi sembrava possibile. Da lì si è messo in moto tutto.

Quindi è stato uno slancio affettivo prima di tutto?

Sì, per prima cosa sì. Perché, come ti dicevo, non ho una tradizione di famiglia in questo senso. A pensarci adesso, mi rendo conto anche di quanto sono stata impulsiva, quasi incosciente, quello che ho detto ai miei genitori è stato «Proviamo a fare noi quello che farebbero altri sui nostri terreni. Se poi vale male ci pensiamo». E ovviamente non è così facile, perché una volta che scegli una strada così e investi tutti i tuoi risparmi lì, non si tratta di provare, è quasi un obbligo riuscire a fare bene. Ora retrospettivamente, ti dico che è stata la scelta giusta ma lo dico, forte del fatto che è andata bene. Con la stessa onestà, ti dico che all’epoca non sapevo esattamente a cosa stavo andando incontro!

I tuoi genitori ti hanno supportata subito, senza esitazioni?

Sì. E sono convinta che, su questo, abbia influito molto la loro formazione di insegnanti. Sono abituati da sempre a stare con i ragazzi, ad accompagnarli a trovare la loro strada e, quindi, al di là di tutte le incognite, hanno fatto la stessa cosa anche con me. Insistendo molto sull’aspetto della preparazione, mi hanno appoggiata ma mi hanno anche spinta ad avvicinarmi al vino senza improvvisazioni, passando dallo studio. E così a settembre del 2000 mi sono iscritta alla facoltà di Viticoltura, Enologia e Scienze Agrarie di Pisa.

Il progetto della cantina come ha preso corpo?

La mia prima vendemmia è stata già quella del 2000 con 1200 bottiglie prodotte, il resto lo abbiamo venduto. L’obiettivo era quello di arrivare progressivamente a non vendere nulla ma nemmeno a comprare. E, infatti, già da tempo vinifichiamo solo quello che producono i nostri vigneti. Sono tutti di Aglianico del Vulture, attorno alla nostra casa di Barile, quella che non volevo vendere e a fianco della quale si trova la cantina. Oggi produciamo circa 25.000 – 30.000 bottiglie all’anno di una sola etichetta, Titolo. È stata una scelta che abbiamo preso subito. Sei ettari, tutti con la stessa esposizione, tutti alla stessa altitudine: ci è sembrato naturale puntare tutto su una sola referenza e farla molto bene. È stato tutto molto semplice, volevamo fare il meglio con quello che avevamo. Senza studi di marketing o business plan.

Parliamo del tuo Aglianico allora. Il suo carattere come lo descriveresti?

La cosa che ripeto spesso è che la mia è una visione moderna ma non modernista e questo si traduce nel lavoro che faccio, in vigna e in cantina, per esaltare acidità, mineralità e tannicità di quest’uva. Il vero carattere dell’Aglianico è questo: acido per via delle altitudine, minerale grazie al suolo vulcanico, con una componente tannica genetica tenuta, però, sotto controllo. Purtroppo in passato è stato un vitigno un po’ bistrattato: negli anni Sessanta e Settanta si pensava che non fosse adatto a essere vinificato in purezza e veniva usato come uva da taglio. Poi negli anni Ottanta e Novanta, è stata la volta del tentativo di farlo assomigliare allo stereotipo del Sud dei “vinoni” tutti estrazione. Ma in realtà l’Aglianico del Vulture non è così, perché è un vitigno quasi di montagna. Qui siamo nell’entroterra, a 600 metri circa di altitudine, con grandi escursioni d’estate e la neve d’inverno.

Quindi il tuo lavoro è quasi un ritorno all’origine, all’essenza dell’Aglianico.

Sì ma ti devo dire anche che per mia inclinazione personale, sono sempre stata lontana dal modello del Sud dei vini tutto frutto, super-piacioni, anche quando il gusto andava maggiormente in quella direzione. Ma non era il mio di gusto e non avrei mai potuto produrre un vino che non rispecchiasse questo fatto. Per esempio, lavoro da sempre con l’acino intero e con macerazioni brevi, perché sono scelte che preservano le caratteristiche che ti dicevo.

Nel mio percorso, penso di essere stata aiutata dal fatto di non avere una tradizione familiare alle spalle con cui misurarmi. Sono partita da zero: non avevo punti di riferimento ma non aveva nemmeno il peso di un modello a condizionarmi. Diciamo che il mio vino è nato con me, con la mia impronta e sta crescendo con me. Questo significa anche commettere errori, soprattutto all’inizio è quasi inevitabile, ma mi ha anche dato una grande libertà.

Escludi a priori di cimentarti con altri vitigni in futuro?

In realtà no, anzi. Credo molto nella vinificazione dei cru e mi piacerebbe andare in questa direzione, quindi sviluppare altrove altri progetti nel rispetto di una certa specificità territoriale. Quello che non farei mai è replicare il progetto Titolo altrove, perché Titolo ha senso qui a Barile in relazione alla sua vigna.

Operate in biologico già da tempo e tutte le operazioni agronomiche sono condotte manualmente. Quindi sicuramente non siete interventisti. Rispetto al dibattitto vino naturale vs vino convenzionale come ti poni?

Non mi piace l’approccio passatista, l’idea nostalgica di fare il vino come una volta, perché negli anni di cose ne sono cambiate, sono cambiati i territori ma anche le nostre conoscenze, quindi mi chiedo perché non usarle per lavorare meglio.

Ti faccio un esempio semplice: col biologico possiamo intervenire sulla pianta con prodotti da contatto e non sistemici, ma per poterlo fare con la dovuta efficacia, dal mio punto di vista, è necessaria una stazione meteo che fornisce una serie di dati scientifici che consentono di fare le scelte corrette nel momento più giusto. Quindi perché basarsi sul dato empirico, quando la scienza ci aiuta ad avere più dati e più precisi? Una volta non avevano questa possibilità, noi sì, quindi sfruttiamola.

Credo che, di fondo, sia una questione di buon senso e conoscenza dei territori. Per me l’agricoltura del futuro dovrà essere un integrato ragionato perché la scienza e la tecnologia possono essere grandissime alleate del biologico, se usate nella giusta misura e con lo spirito giusto.

Una domanda “femminista”. Le donne del vino, da nord a sud sono tante in Italia, eppure nella percezione comune rimane un mondo molto maschile. Qual è la tua esperienza in proposito?

Sì è vero che siamo tante ma la maggior parte si occupa di marketing e comunicazione. Le enologhe sono poche ancora. Ma non credo che sia una scelta imposta dagli uomini o dall’ambiente. Mi sembra che c’entrino di più i percorsi personali e familiari.

Nella mia esperienza non ho nemmeno avuto difficoltà con un ambiente a predominanza maschile, né all’università né sul lavoro. Certo, penso che conti molto la personalità, ho un carattere molto forte e non sono una persona che subisce le situazioni. Forse altre ti racconterebbero altre cose.

La Basilicata è una terra splendida. Cosa si dovrebbe fare secondo te per farla conoscere di più, per far sapere (banalmente) alle persone quanto può offrire?

Premetto che negli ultimi 15 anni ho visto grandi cambiamenti: molti giovani che hanno studiato fuori ma poi sono tornati qui a lavorare, persone che hanno investito sul territorio e sul turismo. E noi i risultati di questo cambio di mentalità li vediamo. Matera è l’esempio più evidente. Credo che la percezione da fuori sia falsata perché veniamo paragonati ad altre regioni, più grandi e più popolate. La Basilicata è sì grande ma ha 480.000 abitanti, siamo pochissimi ed è una terra che per sua natura non potrà mai essere protagonista di un tipo di turismo intensivo. Ed è il suo bello, la sua unicità.

]Chiudo come ho iniziato, parlando di famiglia. Quanto influisce sul tuo lavoro questa impronta familiare così forte?

I miei genitori mi hanno insegnato l’importanza di essere onesti e trasparenti e anche quello che ti dicevo prima, il valore dello studio, del sapere, che è una cosa che mi porto dietro: io non smetto mai di studiare. Tutto questo è presente ogni giorno nel modo in cui lavoro, insieme a un senso di riconoscenza ma anche di responsabilità. La mia famiglia ha creduto in me, ha investito nel mio progetto e prima ancora queste erano le vigne che mio nonno aveva rilevato e che suo padre coltivava come mezzadro. Quindi, sento sempre la responsabilità di fare bene anche per tutti loro, per rispetto e amore nei loro confronti.

Il nonno cosa ne pensa del tuo progetto?

Lui ha 94 anni adesso ed è molto orgoglioso della cantina – che è tutta in bioedilizia e a ciclo chiuso dal punto di vista energetico – e soprattutto dei vigneti. Però mi ha sempre aiutata a tenere i piedi per terra.

Ti racconto questo episodio di qualche anno fa che ancora continua a farmi ridere tantissimo: gli mostro i primi riconoscimenti della critica – dai Tre Bicchieri a Parker – e lui a un certo punto mi guarda e in dialetto mi dice: «Elena, alla fine sempre vino è!». In un attimo mi ha riportata alla dimensione concreta di quello che faccio, senza fronzoli. E per me è una cosa preziosissima.

Redazione 03.11.2020

Zuppe & calici

Emblema della cucina regionale per lo più casalinga, semplice ma confortevole, e protagoniste soprattutto delle tavole autunnali (e invernali), da qualche tempo le zuppe sono tornate in auge facendosi spazio nei menu e conquistando anche i palati più raffinati. Perché, quindi, non pensare di osare qualcosa di più anche nell’abbinamento andando oltre il classico pairing territoriale o comunque con vini di poche pretese? Se fatta secondo i crismi, più o meno ricca e rigorosamente stagionale, una buona zuppa può sposarsi benissimo anche a grandi etichette.

Prendiamo, ad esempio, un grande classico della tradizione francese – la zuppa di cipolle – che piace tantissimo anche al di qua delle Alpi dove trova diverse varianti regionali, dalla zuppa mitonata piemontese alla carabaccia toscana. Si tratta di una ricetta a base di ingredienti poveri: cipolle, pane raffermo, formaggio e brodo, che nella versione francese è di pollo (e in Piemonte di gallina). Eppure si dice che sia nata, letteralmente, come un piatto regale; sarebbe stata creata per soddisfare l’improvvisa fame notturna del re di Francia Luigi XV con quel che c’era in dispensa: cipolle, burro e champagne. Piatto sostanzioso e saporito ma dotato di una sua eleganza, si accompagna bene con un bianco strutturato, avvolgente ma al tempo stesso fresco e altrettanto elegante come il Vintage Tunina di Jermann, grande vino friulano – per esattezza, Venezia Giulia IGT – frutto di un uvaggio di vitigni autoctoni e internazionali (Sauvignon, Chardonnay, Ribolla gialla, Malvasia istriana, Picolit) e di parziale affinamento in legno.

Ancor più rustica, la zuppa di patate e porri è ugualmente deliziosa e corroborante, soprattutto in versione vellutata, con la dolcezza dei tuberi ravvivata dal sapore delicatamente pungente dell’ortaggio. In questo caso, ci vediamo molto bene un Trebbiano d’Abruzzo Doc come quello di Valentini: vitigno troppo a lungo trascurato, è stato elevato a vino pregiato e leggendario dal lavoro di grandi vignaioli come appunto i Valentini. Il risultato è un bianco complesso e generoso contraddistinto da una bella sapidità e una spalla acida che invogliano a berlo un sorso dopo l’altro. Un vino molto versatile, che sta bene praticamente con tutto e ha una longevità pressoché infinita.

Restando su ricette tipicamente autunnali, immaginiamo una deliziosa zuppa di funghi fumante, magari profumata di erbe selvatiche. Per accompagnarla potrebbe essere ideale un altro bianco “nordico” – in questo caso altoatesino – come il Löwengang di Alois Lageder. Chardonnay in purezza, resta sulle fecce fino un anno in barriques e botti grandi ed è caratterizzato da freschezza, sapidità e complessità, con un corpo avvolgente e un bouquet aromatico che va dalla frutta al burro con leggere note affumicate. Se però, ad esempio, si trattasse di una ricetta appena più rustica – magari leggermente “sporcata” di pomodoro, con aggiunta di carne o guanciale e servita nella pagnotta scavata – potrebbe starci alla grande anche un rosso; e perché non un grande rosso, come il Brunello di Montalcino di Stella di Campalto che, grazie a un grande e rispettoso lavoro in vigna e in cantina, è uno dei nomi di punta della pregiata denominazione. Affascinante, armonioso, incredibilmente ricco e complesso e dal lunghissimo finale minerale, è decisamente un vino da condividere con qualcuno che sta a cuore.

C’è poi tutto il capitolo delle zuppe di legumi, un vero universo con mille possibili sfaccettature: dalla delicatezza quasi dolce – ravvivata dal rosmarino e dal pepe – dei ceci a quella dei fagioli che però spesso si sposano col pomodoro (come nei fagioli all’uccelletto) e spesso con la spinta di un generoso soffritto di base. In questo caso, soprattutto se nel tegame i legumi si mescolano (abbracciando anche lenticchie o fave) e si uniscono a un cereale come l’orzo o il farro, nel bicchiere c’è bisogno di qualcosa in grado di “reggere”. Per esempio il buonissimo Konrad Oberhofer Gewürztraminer Pirchschrait di Hofstätter, omaggio al nonno del vignaiolo Martin Foradori: si tratta di un Gewürztraminer davvero unico e sorprendente (resta dieci anni sui lieviti in botti da 500 litri), ricco di materia eppure leggiadro, che affascina con aromi di frutta tropicale e spezie e sentori minerali tanto al naso quanto in bocca.

Se poi si passa a qualcosa di ancor più impegnativo nel piatto, affiancando ai legumi della carne grassa – come ad esempio nella zuppa di fagioli con le cotiche – o altri ingredienti ricchi, come nella tradizionale zuppa di legumi con castagne e funghi diffusa nelle campagne dell’Italia centrale, possiamo tirare in ballo anche un grande rosso. E se vogliamo esagerare perché non aprire un Barolo? Per esempio quello di Margherita Otto, la cantina piemontese dell’americano Alan Manley, uscito per la prima volta con il sigillo della DOCG con l’annata 2015: una chicca prodotta in sole 2608 bottiglie, è molto elegante e profumato e con un tannino già maturo. Di certo renderà indimenticabile la nostra zuppa.

– Luciana Squadrilli 20.10.2020

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

Giodo: una dichiarazione d’amore al Sangiovese

Per noi l’obiettivo è raggiungere sempre la qualità estrema, siamo una piccola realtà e non vogliamo crescere troppo ma continuare a fare bene – anzi, sempre meglio – quello che facciamo. – Bianca Ferrini

Anno di nascita 2002 e prima vendemmia nel 2009, Giodo è una cantina ancora piuttosto giovane ma con un importante fondatore: il grande enologo Carlo Ferrini, che in questo splendido angolo di Montalcino ha dato forma compiuta al suo amore di una vita, quello per il Sangiovese e per il Brunello.

In questa intervista, sua figlia Bianca, che di Giodo segue la parte commerciale, ci racconta questa avventura, fatta di passione, famiglia e cura artigiana.

Tuo padre è una figura importante dell’enologia italiana. Ha lavorato per il Consorzio del Chianti Classico e per tanti grandi nomi toscani. Come è arrivato all’idea di fondare la sua cantina?

Giodo è la concretizzazione di un sogno che mio padre aveva da tempo. Il progetto si è messo in moto nei primi anni Duemila quando abbiamo visto questo terreno a Montalcino e ce ne siamo letteralmente innamorati.

Il suo desiderio era quello di produrre un vino “tutto suo”. Naturalmente, in tutti i vini di cui si è occupato come consulente c’era, c’è la sua mano, però si è sempre trattato di lavori su committenza, quindi giustamente in questi casi c’è lo stile di una cantina da rispettare. Con Giodo, mio padre ha potuto seguire solo ed esclusivamente il proprio gusto e le proprie inclinazioni. È il suo vino in tutto e per tutto.

Dicevi che la scintilla è stata trovare il terreno giusto, quindi ti chiedo: che caratteristiche ha e anche come è cambiato, cresciuto in questi quasi vent’anni?

Sinceramente è un posto di una bellezza davvero difficile da descrivere, è un luogo magico per posizione e scenario ambientale e mio padre ha pensato subito che fosse il posto perfetto per il suo progetto e per il suo Brunello. In tutto sono quattro piccole parcelle; siamo partiti con due ettari e mezzo di terreno e da lì negli anni siamo andati avanti in un’opera progressiva di crescita e consolidamento, sempre in una logica artigianale, che poi è quella che ci contraddistingue in tutto quello che facciamo.

Prima abbiamo sistemato la casa e abbiamo creato la sala degustazione, da ultimo – cinque anni fa – abbiamo acquisito altri tre ettari circa, che si trovano in una posizione leggermente più alta rispetto agli altri. Qui abbiamo scelto di costruire la nostra cantina, che inaugureremo con la prossima vendemmia. In questo modo chiudiamo un po’ il cerchio, rendendo Giodo un piccolo ecosistema autosufficiente.

Parlando del Sangiovese, ci puoi raccontare degli otto cloni che tuo padre ha selezionato?

La premessa da fare è che mio padre è cresciuto con il Chianti Classico ma è un innamorato del Sangiovese.

Nel corso del suo lavoro in Chianti, ha selezionato naturalmente diversi cloni di questa uva e questi  otto sono quelli che hanno dimostrato una resa migliore qui a Montalcino e per questo ha deciso di utilizzarli. In un certo senso rappresentano un po’ la sintesi del suo lavoro in vigna di tutti questi anni, sono la rappresentazione fedele della sua grande attenzione alle pratiche agronomiche.

Il nome della vostra cantina è la crasi dei nomi dei tuoi nonni (Giovanna e Donatello) e tu sei in cantina già da un po’ di tempo, quindi c’è una forte componente familiare. Come si traduce nel vostro modo di fare vino?

Direi nell’artigianalità, che parte dalla vigna – con la cura maniacale che mio padre le riserva e che trasmette a chi lavora con lui – per arrivare alla vendemmia e alla cantina. Per noi l’obiettivo è raggiungere sempre la qualità estrema, siamo una piccola realtà e non vogliamo crescere troppo ma continuare a fare bene – anzi, sempre meglio – quello che facciamo. Attualmente produciamo 10.000 bottiglie di Brunello e 10.000 di Rosso IGT.

Rimanendo in questo ambito, tu hai sempre voluto occuparti di vino o è una scelta arrivata con il tempo? E di cosa ti occupi in cantina?

Ho fatto degli studi economici – Economia Aziendale per poi approdare ad Economia Agroalimentare – ma sono nata e cresciuta in una famiglia che ha sempre dato molta importanza al cibo e al vino. Se non ci fosse stata l’opportunità di Giodo, molto probabilmente avrei comunque lavorato nel settore enogastronomico. Direi che è stato un approdo molto naturale per me.

Di Giodo seguo la parte commerciale, anche se passo molto tempo in vigna, perché essendo una realtà piccola c’è sempre qualcosa da fare o una mano da dare; durante la quarantena ancora di più del solito, per ovvi motivi! Poi, penso che per chi si occupa di vino, a prescindere dal ruolo e dall’organizzazione dell’azienda, stare a contatto con la vigna sia fondamentale. Si capiscono tantissime cose, si colgono aspetti che altrimenti sfuggirebbero.

Tuo padre è un grande enologo. Com’è lavorare con lui?

È una fonte continua di insegnamenti, anche perché è molto disponibile, aperto alla condivisione. Poi in realtà basta stargli accanto e vederlo lavorare per imparare delle cose. Certo è parecchio puntiglioso!… ma è molto bello lavorare insieme.

Tuo padre – lo dicevi anche prima – è da sempre un sostenitore di pratiche agronomiche molto rigorose. Concretamente nella gestione della vostra vigna questo cosa implica?

Sicuramente due cose: il regime biologico e la cura maniacale che ti dicevo prima. Facciamo tantissime selezioni dei germogli prima e dei grappoli poi, per arrivare alla vendemmia con l’uva nelle migliori condizioni possibili. Naturalmente è tutto lavoro manuale: potatura, cimatura, selezione e vendemmia. Il nostro obiettivo è lavorare moltissimo e in maniera sostenibile in vigna per poter intervenire il meno possibile in cantina.

Come definiresti la vostra interpretazione del Brunello? E più in generale la vostra cifra stilistica?

Ti rispondo con quello che mio padre ripete in continuazione: eleganza, eleganza, eleganza. Semplicemente la ricerca dell’eleganza attraverso l’equilibrio.

Ci puoi raccontare della costola siciliana di Giodo: perché la Sicilia come seconda tappa del vostro percorso e in particolare l’Etna?

La scelta parte sempre dalle esperienze professionali di mio padre, che negli ultimi vent’anni ha lavorato molto in Sicilia e che durante i suoi viaggi è rimasto affascinato dall’Etna. Qui ha trovato un ettaro e mezzo in un contesto da sogno: otto piccole parcelle con bellissime viti ad alberello di Nerello Mascalese di circa 80 anni, quindi pre-fillossera, che si alternano a ulivi e alberi da frutto, con il vulcano a fare da sfondo. E poi, c’è questa cosa particolarissima: si cammina in mezzo a tutta questa bellezza con la terra fumante sotto i piedi. L’unicità del posto ci ha conquistati.

La prima vendemmia è del 2016, quindi è davvero un progetto appena nato. Con la prima annata abbiamo fatto circa 6.500 bottiglie e con il 2018 siamo arrivati a più di 8.000.

Secondo te di questi mesi anomali di lockdown cosa rimarrà per quanto riguarda gli aspetti di fruizione  ed esperienza del vino?

Dirette sui social, “degustazioni digitali”  e webinar vari sono stati sicuramente una necessità, dato il periodo e credo che ci abbiamo anche fatto scoprire strumenti e potenzialità che prima forse non erano stati colti. Penso, quindi, che saranno strumenti che rimarranno, convivendo “pacificamente” con l’esperienza diretta, che non può essere sostituita, perché la relazione fra persone e anche l’assaggio di un vino nel luogo in cui è nato sono fondamentali, irrinunciabili, sia per chi il vino lo fa sia per chi lo consuma.

Avete un buon rapporto con rapporto con l’estero?

Sì, molto! A parte naturalmente gli Stati Uniti, abbiamo sempre ottimi riscontri dal Nord Europa: Danimarca, Germania, Olanda soprattutto. È stato così anche durante la quarantena.

Un’ultima domanda. Dal tuo punto di vista, quale è la qualità imprescindibile che deve avere chi produce vino?

Sicuramente la passione. È un lavoro complesso, molto faticoso anche, credo che quello che muove tutto sia l’amore per quello che si fa e per la vigna. E credo anche che sia un elemento che arriva fino al prodotto finale: se un vino è fatto con grande passione e vera cura, si sente.

– Redazione 14.07.2020

Cena in terrazza, brindisi estivi

Approfittiamo della bella stagione e degli spazi all’aperto – una terrazza, un giardino, un piccolo balcone o anche una sala con le finestre spalancate – e celebriamo il poter finalmente ritrovare gli amici, la convivialità, un pizzico di spensieratezza estiva. Riguardo al menu, l’idea è quella di rubare meno tempo possibile alla compagnia preparando quasi tutto in anticipo: via libera dunque a piatti da servire freddi o tiepidi. E nel bicchiere? Un brindisi – o anche più d’uno – è d’obbligo e non si può non cominciare la serata stappando una bollicina, magari italiana.

Per sottolineare la gioia del simposio potremmo aprire un Perlé Nero Riserva Ferrari, nella versione magnum se la compagnia è numerosa (o particolarmente assetata). Da uve Pinot Nero in purezza – e non Chardonnay, come di solito accade per i TrentoDoc della cantina trentina – questo Blanc de Noir, floreale e speziato al naso, è estremamente elegante, fresco e minerale e potrebbe funzionare dall’inizio alla fine del pasto. Sarà perfetto per accompagnare la fresca grassezza e rotondità di una bella treccia di bufala.

Per proseguire in maniera leggera e non scontata portiamo in tavola un tabbouleh, l’insalata libanese fatta con il bulgur (grano spezzato), pomodori, succo di limone, cipolla, olio di oliva, molto prezzemolo e menta. Restiamo lontani dalla banalità anche nell’abbinamento scegliendo il bianco di Venissa, l’azienda vitivinicola (e ristorante) sull’isola di Mazzorbo, nella laguna veneziana. Una rarità: dall’antico vitigno autoctono Dorona, è un vino estremamente interessante in cui le note iodate e minerali si sposano alla ricchezza della trama.

Ma un piatto forte è necessario e di certo nessuno resiste davanti a un gustoso primo, anche in questo caso da preparare in anticipo. Chi pensa che la pasta alla Norma possa essere servita solo calda infatti sbaglia: pomodoro, melanzane fritte e ricotta salata non avranno problemi a temperatura ambiente e troveranno un abbinamento interessante in un vino bianco che sappia unire freschezza a struttura. Archetipico, in questo senso, è il Cervaro della Sala di Antinori che traccia una linea diretta tra Umbria e Borgogna, unendo Grechetto e Chardonnay, barrique e acciaio per un vino complesso, sapido, con note di frutta esotica e vaniglia affiancate da quelle di agrumi e pepe bianco. Alternativa più mediterranea è il Fiorduva di Marisa Cuomo, bianco Costa d’Amalfi Doc che nasce dagli scoscesi e suggestivi vigneti terrazzati del fiordo di Furore. Da uve autoctone Fenile, Ginestra e Ripoli, è un vino unico che prende dalle rocce, dal sole e dal mare della Costiera Amalfitana inedite note che si sposano a quelle floreali e fruttate; perfetto con piatti di pesce saporiti, saprà stupire e convincere anche con il classico primo piatto siciliano.

Se non si vuole rinunciare ad aprire una bottiglia di rosso anche in estate, scegliamo una carne da servire fredda – ad esempio un bel roastbeef all’inglese, un piatto “evergreen” con cui non si sbaglia mai – e un vino che ci porta, idealmente, in Sicilia. Non in spiaggia ma sul vulcano catanese, dove nasce (da vigne secolari di uve nerello mascalese e cappuccio a 600 metri d’altitudine) l’Etna Rosso Doc Profumo di Vulcano di Federico Graziani. Complesso, avvolgente ma vivace, con le note di spezie e tabacco sostenute da quelle agrumate e di erbe aromatiche isolane, sa unire mare e montagna e si lascia bere anche su una tavola estiva.

Per concludere la nostra cena in terrazza, perché non puntare su un Vin Santo? Il classico vino dolce toscano non si presta solo ad accompagnare i tozzetti davanti al camino ma può essere abbinato anche a dolci più ricchi come un bel millefoglie, o con gelati golosi come un variegato al caffè o a creme di nocciola e pistacchio. Perfetto a questo scopo il Vin Santo di Montepulciano Doc Occhio di Pernice di Avignonesi. Da uve sangiovese appassite sulle stuoie di bambù e fermentate con una madre (lievito indigeno) tramandata da generazioni per poi riposare dieci anni in caratelli di legno, è un vino dolce speziato e concentrato ma non stucchevole. Ideale per chiudere una bella serata estiva, quando la brezza inizia ad alzarsi ma non si vuole ancora lasciare la piacevolezza della tavola.

– Luciana Squadrilli 07.07.2020

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).