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The Winefully Magazine

La serendipità dell’Amarone e il mito di Giuseppe Quintarelli

La serendipità è quel fenomeno per cui, mentre si sta cercando qualcosa, imprevedibilmente si trova altro. E il bello è che questo “altro” risulta una vera e propria sorpresa, qualcosa che spesso ha un valore più grande di ciò che si inseguiva originariamente. In poche parole si tratta di una scoperta fortunata, non pianificata. Cristoforo Colombo che scopre l’America, mentre in realtà cercava le Indie, è forse il caso più famoso di serendipità. Poi ci sono la Tarte Tatin, nata quando le sorelle Tatin scordarono di mettere la base nella torta di mele; il ghiacciolo, inventato incidentalmente da Frank Epperson dimenticando un bicchiere di soda al freddo; e la penicillina, figlia dell’errata disinfezione di un provino da parte di Alexander Fleming.

Anche l’Amarone pare sia un tipico caso di serendipità. La leggenda narra di un tale Adelino Lucchese, cantiniere della Cantina sociale di Negrar, che nel 1936 ritrova una botte di Recioto dimenticata. Spillando si rende conto che il vino dolce, continuando a fermentare, è diventato secco. Prova a recuperare il danno, ma senza successo. Il direttore della cantina, avvisato del problema, decide comunque di assaggiare quel “Recioto scapà” e rimane piacevolmente sorpreso dal risultato ottenuto. La frase che pare abbia rivolto al cantiniere è proprio “questo non è amaro, ma Amarone!”.

Nasce così il celebre vino della Valpolicella, il cui primo documento di vendita risale al 1938. L’Amarone viene poi distribuito a tutti gli effetti a partire dal 1953, ottenendo subito un ottimo riscontro commerciale. Nel 1968 viene approvato il primo disciplinare: al vino viene riconosciuta la certificazione DOC. Il suo successo continua a crescere, soprattutto all’estero, e nel 2010 arriva anche la DOCG. L’Amarone tecnicamente è un passito secco, ovvero privi di residuo zuccherino o quasi. La peculiarità del processo produttivo sta proprio nell’appassimento dell’uva, che porta a concentrazione e grande potenziale espressivo. Il vino viene prodotto con le uve storiche Corvina, Corvinone e Rondinella, a cui è possibile aggiungere sia uve locali che altre varietà.

Se guardiamo al percorso compiuto da questo grande vino, una stella brilla più delle altre lungo la sua parabola ascendente. È quella di Giuseppe Quintarelli, l’uomo che ha saputo portare l’Amarone ai livelli qualitativi più alti, fino a sancirne il successo e la fama in tutto il mondo. La cantina viene fondata dal padre Silvio a Negrar agli inizi del Novecento. Sarà proprio Giuseppe, il più giovane dei figli, a prenderla in mano negli anni Cinquanta, proseguendo il lavoro iniziato dal padre. L’azienda cresce nel rispetto dei metodi di lavorazione tradizionali, arricchiti da alcune importanti scelte evolutive. Negli anni Ottanta, ad esempio, alle varietà tradizionali ne vengono aggiunte altre internazionali come Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, e altre ancora come Nebbiolo e Croatina. Quello che negli anni invece non cambia è la tensione a un’eccellenza senza compromessi, assoluta.

Giuseppe Quintarelli è un uomo semplice e generoso, così altruista da condividere tutti i segreti del proprio mestiere con Romano Dal Forno, rendendolo di fatto il suo successore. Un grandissimo produttore mancato esattamente dieci anni fa, nel 2012, quando la figlia Fiorenza prende in mano le redini dell’azienda insieme al marito e ai figli. Diverse le etichette, tutte di monumentale importanza. Tra queste, l’Amarone della Valpolicella Classico spicca come vera e propria bottiglia leggendaria. Parliamo della 2013. L’annata, dal punto di vista climatico, è stata ambivalente. Nella prima parte le piante hanno subito gli effetti di un clima difficile, con temperature basse e frequenti piogge. Nella seconda parte, da giugno in poi, il meteo ha invece virato in direzione opposta, portando alla raccolta di frutti dal grande profilo qualitativo. Si tratta di fatto di una tra le migliori annate per l’Amarone, che molti produttori sono riusciti a tradurre in vini di estrema finezza. Quello di Quintarelli, in particolare, si presenta con un rosso rubino di grande intensità, lasciando presagire fin da subito una materia viva e vibrante. Al naso apre con sentori di potpourri e delinea un tocco di note scure che il palato renderà più evidenti. Il sorso è regale, sontuoso, con la frutta in confettura che lascia spazio prima a sensazioni iodate, poi a richiami sui toni della fava di cacao e della liquirizia. Come in tutte le opere massime, non solo quelle enologiche, è nel finale che si ha la conferma del capolavoro.

di Graziano Nani 09.03.2022

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

La serendipità è quel fenomeno per cui, mentre si sta cercando qualcosa, imprevedibilmente si trova altro. E il bello è che questo “altro” risulta una vera e propria sorpresa, qualcosa che spesso ha un valore più grande di ciò che si inseguiva originariamente. In poche parole si tratta di una scoperta fortunata, non pianificata. Cristoforo Colombo che scopre l’America, mentre in realtà cercava le Indie, è forse il caso più famoso di serendipità. Poi ci sono la Tarte Tatin, nata quando le sorelle Tatin scordarono di mettere la base nella torta di mele; il ghiacciolo, inventato incidentalmente da Frank Epperson dimenticando un bicchiere di soda al freddo; e la penicillina, figlia dell’errata disinfezione di un provino da parte di Alexander Fleming.

Anche l’Amarone pare sia un tipico caso di serendipità. La leggenda narra di un tale Adelino Lucchese, cantiniere della Cantina sociale di Negrar, che nel 1936 ritrova una botte di Recioto dimenticata. Spillando si rende conto che il vino dolce, continuando a fermentare, è diventato secco. Prova a recuperare il danno, ma senza successo. Il direttore della cantina, avvisato del problema, decide comunque di assaggiare quel “Recioto scapà” e rimane piacevolmente sorpreso dal risultato ottenuto. La frase che pare abbia rivolto al cantiniere è proprio “questo non è amaro, ma Amarone!”.

Nasce così il celebre vino della Valpolicella, il cui primo documento di vendita risale al 1938. L’Amarone viene poi distribuito a tutti gli effetti a partire dal 1953, ottenendo subito un ottimo riscontro commerciale. Nel 1968 viene approvato il primo disciplinare: al vino viene riconosciuta la certificazione DOC. Il suo successo continua a crescere, soprattutto all’estero, e nel 2010 arriva anche la DOCG. L’Amarone tecnicamente è un passito secco, ovvero privi di residuo zuccherino o quasi. La peculiarità del processo produttivo sta proprio nell’appassimento dell’uva, che porta a concentrazione e grande potenziale espressivo. Il vino viene prodotto con le uve storiche Corvina, Corvinone e Rondinella, a cui è possibile aggiungere sia uve locali che altre varietà.

Se guardiamo al percorso compiuto da questo grande vino, una stella brilla più delle altre lungo la sua parabola ascendente. È quella di Giuseppe Quintarelli, l’uomo che ha saputo portare l’Amarone ai livelli qualitativi più alti, fino a sancirne il successo e la fama in tutto il mondo. La cantina viene fondata dal padre Silvio a Negrar agli inizi del Novecento. Sarà proprio Giuseppe, il più giovane dei figli, a prenderla in mano negli anni Cinquanta, proseguendo il lavoro iniziato dal padre. L’azienda cresce nel rispetto dei metodi di lavorazione tradizionali, arricchiti da alcune importanti scelte evolutive. Negli anni Ottanta, ad esempio, alle varietà tradizionali ne vengono aggiunte altre internazionali come Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, e altre ancora come Nebbiolo e Croatina. Quello che negli anni invece non cambia è la tensione a un’eccellenza senza compromessi, assoluta.

Giuseppe Quintarelli è un uomo semplice e generoso, così altruista da condividere tutti i segreti del proprio mestiere con Romano Dal Forno, rendendolo di fatto il suo successore. Un grandissimo produttore mancato esattamente dieci anni fa, nel 2012, quando la figlia Fiorenza prende in mano le redini dell’azienda insieme al marito e ai figli. Diverse le etichette, tutte di monumentale importanza. Tra queste, l’Amarone della Valpolicella Classico spicca come vera e propria bottiglia leggendaria. Parliamo della 2013. L’annata, dal punto di vista climatico, è stata ambivalente. Nella prima parte le piante hanno subito gli effetti di un clima difficile, con temperature basse e frequenti piogge. Nella seconda parte, da giugno in poi, il meteo ha invece virato in direzione opposta, portando alla raccolta di frutti dal grande profilo qualitativo. Si tratta di fatto di una tra le migliori annate per l’Amarone, che molti produttori sono riusciti a tradurre in vini di estrema finezza. Quello di Quintarelli, in particolare, si presenta con un rosso rubino di grande intensità, lasciando presagire fin da subito una materia viva e vibrante. Al naso apre con sentori di potpourri e delinea un tocco di note scure che il palato renderà più evidenti. Il sorso è regale, sontuoso, con la frutta in confettura che lascia spazio prima a sensazioni iodate, poi a richiami sui toni della fava di cacao e della liquirizia. Come in tutte le opere massime, non solo quelle enologiche, è nel finale che si ha la conferma del capolavoro.

di Graziano Nani 09.03.2022

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

La serendipità dell’Amarone e il mito di Giuseppe Quintarelli

La serendipità è quel fenomeno per cui, mentre si sta cercando qualcosa, imprevedibilmente si trova altro. E il bello è che questo “altro” risulta una vera e propria sorpresa, qualcosa che spesso ha un valore più grande di ciò che si inseguiva originariamente. In poche parole si tratta di una scoperta fortunata, non pianificata. Cristoforo Colombo che scopre l’America, mentre in realtà cercava le Indie, è forse il caso più famoso di serendipità. Poi ci sono la Tarte Tatin, nata quando le sorelle Tatin scordarono di mettere la base nella torta di mele; il ghiacciolo, inventato incidentalmente da Frank Epperson dimenticando un bicchiere di soda al freddo; e la penicillina, figlia dell’errata disinfezione di un provino da parte di Alexander Fleming.

Anche l’Amarone pare sia un tipico caso di serendipità. La leggenda narra di un tale Adelino Lucchese, cantiniere della Cantina sociale di Negrar, che nel 1936 ritrova una botte di Recioto dimenticata. Spillando si rende conto che il vino dolce, continuando a fermentare, è diventato secco. Prova a recuperare il danno, ma senza successo. Il direttore della cantina, avvisato del problema, decide comunque di assaggiare quel “Recioto scapà” e rimane piacevolmente sorpreso dal risultato ottenuto. La frase che pare abbia rivolto al cantiniere è proprio “questo non è amaro, ma Amarone!”.

Nasce così il celebre vino della Valpolicella, il cui primo documento di vendita risale al 1938. L’Amarone viene poi distribuito a tutti gli effetti a partire dal 1953, ottenendo subito un ottimo riscontro commerciale. Nel 1968 viene approvato il primo disciplinare: al vino viene riconosciuta la certificazione DOC. Il suo successo continua a crescere, soprattutto all’estero, e nel 2010 arriva anche la DOCG. L’Amarone tecnicamente è un passito secco, ovvero privi di residuo zuccherino o quasi. La peculiarità del processo produttivo sta proprio nell’appassimento dell’uva, che porta a concentrazione e grande potenziale espressivo. Il vino viene prodotto con le uve storiche Corvina, Corvinone e Rondinella, a cui è possibile aggiungere sia uve locali che altre varietà.

Se guardiamo al percorso compiuto da questo grande vino, una stella brilla più delle altre lungo la sua parabola ascendente. È quella di Giuseppe Quintarelli, l’uomo che ha saputo portare l’Amarone ai livelli qualitativi più alti, fino a sancirne il successo e la fama in tutto il mondo. La cantina viene fondata dal padre Silvio a Negrar agli inizi del Novecento. Sarà proprio Giuseppe, il più giovane dei figli, a prenderla in mano negli anni Cinquanta, proseguendo il lavoro iniziato dal padre. L’azienda cresce nel rispetto dei metodi di lavorazione tradizionali, arricchiti da alcune importanti scelte evolutive. Negli anni Ottanta, ad esempio, alle varietà tradizionali ne vengono aggiunte altre internazionali come Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, e altre ancora come Nebbiolo e Croatina. Quello che negli anni invece non cambia è la tensione a un’eccellenza senza compromessi, assoluta.

Giuseppe Quintarelli è un uomo semplice e generoso, così altruista da condividere tutti i segreti del proprio mestiere con Romano Dal Forno, rendendolo di fatto il suo successore. Un grandissimo produttore mancato esattamente dieci anni fa, nel 2012, quando la figlia Fiorenza prende in mano le redini dell’azienda insieme al marito e ai figli. Diverse le etichette, tutte di monumentale importanza. Tra queste, l’Amarone della Valpolicella Classico spicca come vera e propria bottiglia leggendaria. Parliamo della 2013. L’annata, dal punto di vista climatico, è stata ambivalente. Nella prima parte le piante hanno subito gli effetti di un clima difficile, con temperature basse e frequenti piogge. Nella seconda parte, da giugno in poi, il meteo ha invece virato in direzione opposta, portando alla raccolta di frutti dal grande profilo qualitativo. Si tratta di fatto di una tra le migliori annate per l’Amarone, che molti produttori sono riusciti a tradurre in vini di estrema finezza. Quello di Quintarelli, in particolare, si presenta con un rosso rubino di grande intensità, lasciando presagire fin da subito una materia viva e vibrante. Al naso apre con sentori di potpourri e delinea un tocco di note scure che il palato renderà più evidenti. Il sorso è regale, sontuoso, con la frutta in confettura che lascia spazio prima a sensazioni iodate, poi a richiami sui toni della fava di cacao e della liquirizia. Come in tutte le opere massime, non solo quelle enologiche, è nel finale che si ha la conferma del capolavoro.

di Graziano Nani 09.03.2022

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

I fine wines fra investimento e collezionismo – Parte Prima

Possiamo considerare i fine wines una sorta di bene rifugio? È una domanda che, prima o poi, tutti gli appassionati di vino si fanno, soprattutto osservando l’andamento di un mercato che, al netto di qualche piccolo fisiologico rallentamento, sembra ormai da anni non conoscere crisi. Le risposte, come sempre davanti alle domande complesse, sono più di una. Iniziamo col dire che i vini pregiati sono una forma di investimento ma che i connotati di quest’ultimo cambiano molto a seconda dell’attitudine di chi acquista: c’è chi ha un approccio prettamente “finanziario” e che compra, costruendo una sorta di portfolio di investimento – a volte affidandosi a veri e propri consulenti finanziari specializzati nel settore – sempre tenendo ben presente la componente di rischio che è propria di ogni operazione di questo tipo. È una dinamica simile a quella di altri settori di investimento, con, però, un elemento differenziante rispetto a tutti gli altri mercati: nel momento in cui si acquista un vino pregiato, si acquista un oggetto di un certo valore economico, dotato di una fortissima allure esperienziale, capace di mitigare gli imponderabili fattori connessi a un investimento, che in fondo è sempre anche una scommessa. Il vino “da investimento”, infatti, rimane prima di tutto un eccellente prodotto enologico, che nella peggiore delle ipotesi può essere consumato, regalando al proprietario (e ai suoi fortunati commensali) una probabile esperienza memorabile, in grado di compensare l’eventuale perdita economica. Il vino pregiato, dunque, da questo punto di vista, è un tipo di investimento che potremmo definire meno “freddo”, perché comunque legato a una passione e a un certo gusto da bon vivant.

Accanto a questo approccio, per certi versi anche meramente speculativo, esiste quello del collezionista, ovvero di chi acquista – con amore e competenza – con l’idea di costruire una cantina, dinamica e varia del punto di vista delle referenze e della loro provenienza, dove i grandi classici affiancano nomi nuovi dal buon potenziale futuro. Una collezione, dunque, che acquisisce valore nel tempo e nel suo insieme e pensata per un fine personale, senza magari escludere l’opportunità di una buona vendita al momento giusto. Se questi sono gli identikit di chi investe in vino, possiamo dire che anche il vino pregiato ne ha uno.

Esistono, infatti, alcuni parametri che determinano il suo valore economico: dalle annate che hanno ottenuto punteggi elevati alle edizioni speciali o “a tiratura limitata”, passando per i cosiddetti formati speciali, come magnum o doppio magnum dalle produzioni contenute e numerate.

Per quanto riguarda, invece, le etichette, le grandi icone – come i Premier Cru Classé di Bordeaux, i Grand Cru di Borgogna o i nostri Barolo e Supertuscan – rimangono tali e sono pressoché inscalfibili ma, come certifica l’ultima edizione della classifica del Liv-ex, il panorama è in costante evoluzione con una grande crescita proprio dei fine wines italiani e di una nuova generazione di vini californiani ma anche tedeschi, cileni e australiani che nei nei rapporti – punto di riferimento per il mercato secondario – hanno dimostrato ottime perfomance.

Ciò che determina queste evoluzioni non è semplicemente la normale crescita qualitativa delle cantine o il naturale evolvere del gusto ma anche e soprattutto l’andamento della critica internazionale: personaggi influenti come James Suckling e Robert Parker, con le loro valutazioni, da decenni non solo aprono la strada a nuove tendenze, ma orientano a tutti gli effetti l’andamento del mercato.

In Italia uno degli esempi più evidenti è rappresentato dalle vicende recenti di Montalcino, qui nell’ultimo decennio il lavoro serio e tenace di diverse aziende per alzare il livello qualitativo del loro Brunello ha dato i suoi frutti ed è stato premiato a livello internazionale, ma non bisogna dimenticare che senza l’innamoramento di Suckling per il borgo e il suo vino più celebre probabilmente alcune cantine, più o meno note, non avrebbero goduto dell’incredibile visibilità che hanno oggi.

Quando si parla di fine wines non si può prescindere dal canale di acquisto: il vino è “un alimento vivo” che va  trattato con una serie di cautele, perché troppi passaggi di mano e una logistica poco accurata possono danneggiarne la qualità e il valore. Per questo, il consiglio migliore è sempre quello di acquistare direttamente in cantina oppure da professionisti che lavorano per assegnazione e per questo comprendono il valore economico ed enologico del vino e sono anche adeguatamente attrezzati per ridurre al minimo i rischi. Per gli stessi motivi, l’altro elemento fondamentale è lo stoccaggio: come vi abbiamo raccontato qualche tempo fa (link), la corretta conservazione del vino è un passaggio determinante per mantenerlo in ottime condizioni e assecondare tutto il suo potenziale evolutivo, tanto per poterlo consumare quanto per poter monetizzare il suo acquisto. Ci sono accorgimenti per costruire una cantina casalinga che sia adeguata alla conservazione, ma bisogna anche dire che raramente il contesto domestico, per quanto ben attrezzato, può rispettare tutte le condizioni ideali di stoccaggio. Proprio partendo da questa consapevolezza è nato, per esempio, il nostro servizio su richiesta e senza costi aggiuntivi, per conservare le bottiglie dei nostri clienti in condizioni ottimali, fino a quando lo vorranno.

Accanto al canale di acquisto e allo stoccaggio c’è un terzo fattore imprescindibile per chi vuole considerare la propria collezione di fine wines un investimento finanziario: il canale di vendita. Vendere privatamente implica la possibilità proporre prezzi più vantaggiosi e allettanti per chi acquista ma il limite è rappresentato dal fatto che ci si muove in un’area opaca, dove non ci sono regole ben definite e tutto dipende, in sostanza, dalla serietà delle due parti in causa e dalla loro capacità di creare una fiducia reciproca tale da permettere le negoziazioni. La soluzione migliore, dunque, è quella di guardare a realtà specializzate che, avendo accesso al mercato primario, non solo sono sempre aggiornate sugli andamenti del mercato e della critica, ma adottano anche policy tali da garantire venditore e acquirente.

Sono le stesse realtà professionali che aiutano a capire il giusto valore economico della bottiglia. La valutazione di un vino è qualcosa di complesso e in qualche misura aleatorio perché il prezzo lo fa il mercato – per esempio il già citato Liv-ex – ma parliamo di un mercato abituato a lavorare sui cosiddetti lotti vergini (le casse di legno chiuse e sigillate) e non su singole bottiglie e sempre nel rispetto delle condizioni di stoccaggio e logistica di cui abbiamo parlato poco fa. Il singolo venditore privato, quindi, si trova inevitabilmente in una condizione di svantaggio se decide di agire autonomamente, senza l’intervento di società specializzate che possano guidare la vendita nella maniera più appropriata e vantaggiosa. È quindi sempre utile – se non necessario – confrontarsi con realtà con esperienza e capacità negoziali e tecniche, per impostare al meglio la vendita o semplicemente per scambiare qualche opinione sulla propria cantina privata, ma anche per comprendere le dinamiche di un mercato sicuramente più complesso, variegato e sfaccettato di quanto possa sembrare a una prima osservazione.

Concludiamo rimandandovi al prossimo articolo del Magazine Winefully per i nostri consigli circa vini, annate e formati che riteniamo si prestino meglio a un acquisto o al collezionismo, con o senza fini di una eventuale futura rivendita.

Redazione 07.10.2021

Drengot: il rinascimento dell’Asprinio

Alberto Verde è un quarantaduenne dallo spirito indomito, orgogliosamente campano, che per argomentare le ragioni del suo incondizionato amore per la Campania arriva a citare il filosofo francese Régis Debray, che nel suo ultimo libro (Contro Venezia, pubblicato qualche mese fa) definisce Napoli come «la vitalità incarnata. […] La città meno narcisista che ci sia, l’unica in Europa dove il mito si incontra per strada, dove il passato si vive al presente».

Da questo amore e dalla conoscenza profonda del territorio è nato un progetto ambizioso di riscoperta e valorizzazione dell’Asprinio, un vitigno autoctono dell’aversano con una vicenda unica, che si intreccia con quella degli Angiò ma anche quella dello champagne e del Greco di Tufo e che testimonia le profonde trasformazioni (non sempre positive) vissute dal territorio campano nel corso della storia. Con la sua cantina, Drengot – in omaggio al conte normanno Rainulf Drengot, che nel 1030 fondò Aversa – oggi Alberto produce tre ottimi vini, a base di Asprinio proveniente dalle vigne ultracentenarie di famiglia.

Lo abbiamo incontrato prima della pausa estiva e ci siamo fatti raccontare qualcosa di più su Drengot e sulla sua visione.

Sei partito da una vigna di famiglia e da lunga storia, operando una piccola rivoluzione nel territorio di Cesa e di tutto l’aversano. Ci racconti come è nato il tuo progetto e perché hai scelto di lavorare solo con Asprinio?

Per raccontarti come siamo arrivati a Drengot voglio fare una premessa, per me importante, che riguarda il territorio in cui ci troviamo.

La provincia di Caserta è una delle migliori di Italia per la vitivinicoltura perché è estremamente fertile – siamo nel cuore di quella che gli antichi chiamavano Campania Felix – ma proprio la sua fertilità ha fatto sì che, soprattutto dal dopoguerra in avanti, ci si concentrasse su coltivazioni intensive, per sfruttare al massimo la ricchezza del territorio. Anche perché i prodotti alimentari del casertano non hanno eguali in Italia dal punto di vista qualitativo e, quindi, sono sempre stati molto richiesti. Non lo dico per partigianeria, è la realtà e lo dimostra il fatto che ancora oggi la gran parte dell’industria agroalimentare del paese viene qui a comprare materie prime e prodotti per poi rivenderli con la propria etichetta. Il limite di questo sistema qual è, però? Che questa zona, speciale dal punto di vista agronomico, ricchissima in biodiversità e con una lunga tradizione agroalimentare, è diventata, nel tempo, una terra di contoterzisti a servizio di tutte le aziende del paese. È stata la sorte di molte zone del Sud Italia, a seguito del boom economico e con la parallela perdita della vocazione agricola di queste zone. Sembra, però, che le cose stiano piano piano cambiando, anche se ci vorrà tempo per vedere i risultati.

Sì, è vero, gli imprenditori agricoli di nuova generazione stanno cercando di fare un lavoro diverso. Per esempio, qui nell’aversano ci sono tantissime aziende agricole che operano in biologico e soprattutto si stanno facendo strada molte realtà che hanno scelto di entrare nella grande distribuzione con un marchio proprio e con un posizionamento e una strategia di comunicazione a supporto. Stiamo cercando di uscire dalla logica contoterzista per riappropriarci della nostra identità, anche per poter dare il giusto valore – economico e culturale – ai nostri prodotti, che sono davvero di qualità altissima, che si tratti di frutta, di verdura, di vino o di formaggi.

La cosa più difficile è capovolgere la prospettiva e allontanare tutti quei pregiudizi che si sono nel tempo accumulati e che, nella maggior parte dei casi, sono frutto di una pessima narrazione delle nostre terre e della nostra storia.

Tu con Drengot stai cercando di dare un tuo contributo per quanto riguarda il vino, dando una nuova vita a varietà autoctona come l’Asprinio. Mi sembra che il tuo progetto sia animato da un certo spirito battagliero.

Assolutamente sì. Quando ho iniziato a pensare di avviare un progetto sui terreni di famiglia, non avevo in mente di fare vino ma ero sicuro di voler qualcosa per restituire a questo territorio quello che merita, con un misto di orgoglio e di senso di riscatto, per tutto quello che ci è stato tolto e le opportunità che non ci sono state date.

La scelta dell’Asprinio è arrivata strada facendo, ci sono stati due episodi piccoli ma decisivi. Il primo è stato una lunga chiacchierata con un produttore di vino del Veneto, per il quale l’Asprinio è uno dei bianchi migliori d’Italia. Per me è stata una sorta di illuminazione, che mi ha portato a riflettere molto, anche perché la mia famiglia alleva Asprinio da sempre, almeno dal 1800, ma sicuramente potremmo andare ancora più indietro, volendo fare un po’ di ricerca. E io stesso sono cresciuto in mezzo alle vigne, insieme ai miei cugini ho passato tutte le mie estati di bambino e ragazzino lì. Quindi, dopo questo incontro ho fatto un giro nella vecchia cantina di mio nonno e per le vigne e così ho deciso, immaginandolo subito come un progetto di lungo respiro, a venti – ma anche trenta – anni. Volevo costruire qualcosa che potesse durare nel tempo e che desse davvero valore a questa terra. L’Asprinio ha caratteristiche che lo rendono unico nel panorama vinicolo italiano. Ci dici qualcosa di più?

Per prima cosa bisogna dire che è un vitigno che qui si alleva fin dall’antichità e che definire territoriale è poco, perché cresce solo qui e quando dico “qui” intendo i quindici comuni dell’aversano, perché se già provi a spostare l’Asprinio di pochi chilometri, diciamo a Caserta, non cresce più.

E fammi fare anche un piccolo excursus storico: nel Settecento, a causa di una pandemia a Napoli e dintorni, un nobile locale decise di trasferirsi e isolarsi – non abbiamo certo inventato noi il lockdown –  nel castello di Tufo, portando con sé, fra i vari beni, anche alcune viti di Asprinio per impiantarle nei terreni circostanti. Ora, una delle caratteristiche di questa varietà è che si sviluppa in altezza, raggiungendo e superando i 15 metri,  a Tufo però le viti non riuscivano a crescere e presero nel tempo un’altra fisionomia e altre caratteristiche: il Greco di Tufo è nato dall’evoluzione di quelle prime viti di Asprinio.

E proprio dalla straordinaria altezza di cui ti parlavo deriva la peculiare struttura delle alberate aversane: le viti di Asprinio crescono intrecciate – o “maritate” come si dice da noi – ai pioppi che vengono utilizzati come supporti, mentre i tralci si attorcigliano a cavi di ferro zincato, creando quasi dei muri vegetali. È un’altra di quelle meraviglie che si trovano solo qui, tanto che le alberate sono state riconosciute come patrimonio immateriale della Regione Campania.

La leggenda dice che l’Asprinio è stato il primo spumante dalla storia. Quanto c’è di vero?

È tutto vero! Semplicemente perché l’Asprinio ha un’acidità di dieci decimi. Non esiste nessun’altra uva che raggiunge questi livelli, quindi si può dire che dall’Asprinio nasce un vino naturalmente frizzante. È uno spumante naturale di fatto e quando diciamo che le bollicine sono nate qui, lo diciamo perché alla corte degli Angiò si beveva solo Asprinio, proprio perché frizzante. Tutto questo è documentato.

Il primo documento ufficiale in cui si cita l’Asprinio è datato 1495 ed è una scrittura privata fra un proprietario terriero e il suo colono ma, come ti dicevo, nell’aversano si alleva da sempre.

È incredibile come un vino così speciale sia stato così poco valorizzato, quasi dimenticato. Credo che sia una dinamica collegata anche al contoterzismo di cui parlavi prima.

Sì, certo. In realtà a livello locale non si è mai smesso di consumare Asprinio ma diciamo che è sempre stato il classico vino da vendere sfuso o da produrre e destinare a uso privato e questo perché dal secondo dopoguerra fino agli anni Novanta il grosso della produzione era destinato alla cantina della Vecchia Romagna, che pagava molto bene le uve per due utilizzi: l’uva era usata per ottenere una base spumante da vendere ai produttori francesi di champagne; con la vinaccia, invece, si otteneva il famoso brandy. Quindi, per decenni – fino alla chiusura di questa cantina – non è stato più redditizio produrre un nostro vino.

Per quanto riguarda la nostra azienda agricola, alla morte di mio nonno (nel 1990), mio padre ha preso in mano la sua gestione, dedicandosi soprattutto alla vigna che è antica, tutte le nostre piante hanno circa 200 anni. Drengot nella sua fisionomia attuale quando è nata, quindi?

Le prime due annate sono state la 2015 e 2016, ma nei fatti sono state dei test, non abbiamo mai pensato di commercializzarle. Nel 2017 ho ripensato tutta la struttura, con un nuovo gruppo di lavoro che funziona molto bene e, così, siamo arrivati a una formula convincente: il lancio sul mercato del vino è avvenuto nel 2018 e quello dello spumante nel 2019.

Avevo in mente un prodotto “ultra-territoriale”, lavorando solo ed esclusivamente con Asprinio, per tutti i motivi che già ti ho raccontato, e volevo che fosse un prodotto di alta qualità che rendesse finalmente giustizia al grande potenziale di quest’uva. Volevo dimostrare, ai miei conterranei prima di tutto, che quel vino, che qui chiamavano tradizionalmente “il vinello”, poteva essere un ottimo vino, di grande piacevolezza e con buon potenziale evolutivo. Un vino di fascia alta.

Ho scelto il nome Drengot per dichiarare da subito il legame con il territorio. Mentre le nostre tre referenze hanno nomi connessi alla storia locale: Terramasca significa terra vulcanica, quindi rimanda al carattere delle nostre terre, Scalillo è un omaggio alla scala che usiamo durante la vendemmia e che ha una particolare forma rastremata per consentire la raccolta manuale sulle nostre alberate e, infine, Asprinium per celebrare fino in fondo la nostra varietà, con un rimando al mondo latino, quindi alle nostre radici.

Terramasca è la vostra referenza di punta, lo definirei un metodo Charmat “nobile” perché matura un anno in acciaio, fa diciotto mesi di affinamento sui lieviti, con un riposo, poi, in bottiglia di almeno altri sei mesi. Considerando, però, il carattere naturalmente frizzante dell’Asprinio, mi viene spontaneo chiederti se pensi di produrre anche un metodo classico.

In realtà ci stiamo già lavorando e ti posso dire che, nel futuro prossimo, Terramasca sarà esclusivamente un metodo classico, non posso essere più preciso perché vogliamo prenderci tutto il tempo che ci serve per arrivare a una bollicina perfetta, che ci soddisfi a pieno. Quest’uva se lo merita!

Sicuramente, Terramasca rimarrà la nostra eccellenza, ma non abbandoneremo del tutto lo Charmat. Lo useremo, infatti, per una nuova referenza un po’ più giovane e non più di annata e per questo più accessibile nel prezzo. Per me è importante, in questo momento, far arrivare l’Asprinio a un pubblico ampio, senza naturalmente abbassare la qualità. Il tuo progetto sta dimostrando fin dove può arrivare l’Asprinio. Che impatto ha avuto il tuo approccio a livello locale? Come è stato recepito?

Ciò che ho portato io qui è stata soprattutto una mentalità positiva: il prodotto c’era ma era poco considerato, da noi per primi. E per questo motivo, nonostante tutte le peculiarità dell’Asprinio, il vino è sempre stato di bassa qualità; quello che ho scelto di fare io, invece, è stato nobilitarlo al massimo, mettendo in piedi un gruppo di lavoro di alto livello e mostrando a tutti tutto il potenziale che abbiamo. E nel farlo ho stupito positivamente i consumatori ma anche gli altri imprenditori agricoli. Diciamo che sono riuscito a smuovere le acque.

Per me, personalmente, Drengot va oltre le opportunità imprenditoriali, è un progetto che riguarda soprattutto il territorio nella sua interezza: sono partito dall’Asprinio per dare nuovo valore a tutto quello che abbiamo qui. Però ammetto che c’è tantissimo da fare e che sono solo agli inizi, con la complicazione che ci troviamo a dover fare il lavoro di un consorzio, che qui non c’è.

Capisco, anche perché per portare avanti certi discorsi servono le istituzioni e serve anche una visione di marketing territoriale, che sono può essere affidata solo a un singolo.

Devo dire che le Pro Loco qui stanno facendo un gran lavoro di supporto. L’inserimento dell’Asprinio fra i beni immateriali campani, si deve al loro impegno. È un riconoscimento importantissimo, non solo a livello simbolico ma anche perché vincola tutti a una tutela delle viti e a una cura del territorio che prima non c’erano. Recentemente è stato fatto anche il passo successivo per ottenere il riconoscimento dall’UNESCO.

Inizia a esserci un certo movimento e una certa attenzione che prima mancavano e che riguardano l’Asprinio ma anche tutti i nostri prodotti locali. Vedo, per esempio, un rinascimento complessivo del vino del casertano, qui c’è un lunghissima e preziosa tradizione: abbiamo tanti rossi e tanti bianchi da splendide uve autoctone, sono poco conosciuti ma stanno trovando nuovo vigore, come il Casavecchia, che è davvero ottimo. È un bene perché si può creare, con il tempo e con il lavoro, un circolo virtuoso per tutto il territorio.

Per quanto riguarda me, sono molto ottimista perché credo molto nella qualità del mio prodotto, so che la storia dell’Asprinio ha un fascino tutto suo e sono molto determinato a contribuire alla rinascita della mia terra. Si tratta unicamente di dare tempo al tempo e lavorare con tenacia.

Redazione 7.09.2021

Veglione vintage

E se per quest’anno ci lasciassimo andare a un po’ di nostalgia gastronomica, scegliendo per il cenone della Vigilia di Capodanno delle portate festive ma piacevolmente retrò?

Ecco qualche idea per un menu a base di pesce all’insegna di sapori d’antan ma sempre deliziosi, da accompagnare con vini “da grande occasione” e anch’essi – quando è il caso – d’annata. Partiamo in maniera spumeggiante con una bella bolla da aperitivo per un tuffo negli anni Ottanta con un cocktail di gamberi accompagnato dalla sensuale salsa rosa e con le intramontabili tartine al salmone, giocando a tavola sulle sfumature di colore che si rincorrono tra piatto e calice. In questo caso, infatti, la scelta ideale potrebbe essere una bollicina rosata: italiana e sbarazzina – come il fresco e minerale Francesco I Franciacorta Rosé di Uberti ravvivato da note di frutta rossa e pompelmo rosa affiancate da nuance speziate – oppure francese e raffinata, come un’etichetta dalla grande personalità: il Perrier Jouët Belle Epoque Rosé millesimato, delicato e voluttuoso insieme.

Nel secondo caso, la stessa bottiglia – magari in formato magnum – potrà rivelarsi ideale per abbinarsi anche a un primo piatto semplice ma sfarzoso e gustosissimo, adatto alle feste, come gli spaghetti all’astice con la presenza discreta del pomodoro.

Una bolla bianca invece – che non sfigurerebbe di certo nemmeno con il cocktail di gamberi d’apertura – potrebbe essere la scelta ideale per accompagnare un altro grande classico della cucina vintage anni Settanta e Ottanta, mai passato del tutto di moda: le pennette al salmone sfumate con la vodka, amate tanto da Ugo Tognazzi quanto dagli habitué delle serate in discoteca della riviera romagnola e da chiunque sappia indovinare la giusta alchimia tra pesce affumicato, (poca) panna, pomodoro e distillato russo. Il pomodoro infatti, tralasciato da molte ricette successive all’originale, serve a bilanciare la dolcezza del piatto e a fare da trait-d’union con la Vodka, un incontro suggellato anche nel cocktail Bloody Mary. La presenza del distillato – che serve soprattutto a sfumare il salmone – potrebbe creare qualche problema per l’abbinamento ma una bolla vivace ed estremamente elegante come il Meraviglioso di Bellavista, uvaggio fifty-fifty di Chardonnay e Pinot Noir, con i suoi dodici anni di affinamento in bottiglia saprà tenervi testa al meglio. Meraviglioso è frutto dell’assemblaggio di sei annate storiche dell’azienda franciacortina già usate per la Riserva che porta il nome del fondatore Vittorio Moretti (1984, 1988, 1991, 1995, 2001 e 2002).

Per il secondo piatto, l’ideale è restare sul semplice puntando soprattutto sull’eccellente qualità della materia prima: un pesce in crosta di sale, sapido e succoso, accompagnato da una impeccabile e voluttuosa maionese fatta in casa renderà tutti felici. Così come lo stappare un grande vino bianco come il Testamatta Bianco di Bibi Graetz: fresco e altrettanto sapido, nonostante l’abbondanza di profumi che rimandano alla frutta matura e candita (dal dattero alla scorza d’arancia, fino mela cotogna e all’albicocca) e al miele, si rivela perfettamente equilibrato grazie alle note iodate e, più che anticipare il panettone, sembra portare indietro ai mesi estivi sul mare. Se volete sorprendere i vostri ospiti con un vino – e un vitigno – poco conosciuto e invece della maionese volete servire accanto al pesce una squisita insalata russa (altro grande classico sempre molto amato), potreste decidere di aprire ancora un’altra bottiglia prima del passaggio al dessert e al vino dolce.

Anziché tornare indietro su una bolla rinfrescante, infatti, sottolineate l’opulenza del contorno con un calice di Vin de la Neu di Nicola Biasi: lo Johanniter – una varietà resistente che ben si adatta alle temperature fredde e alle alte quote, come quelle degli appezzamenti in Val di Non di Biasi – dà vita a un vino che profuma di agrumi, frutti tropicali, erba fresca e fiori bianchi, che al sorso sorprende per verticalità e sapidità ma senza rinunciare a una certa avvolgenza dovuta anche al passaggio in legno di quasi un anno e alla lunga permanenza in bottiglia.

Per chiudere il cenone in maniera classica, la scelta vintage potrà essere un eccellente e burroso pandoro artigianale dagli effluvi di vaniglia, magari accompagnato da una crema allo zabaione comme il faut. Da abbinare, un calice del mitico Vin Santo Occhio di Pernice di Avignonesi, dolce ma non stucchevole, con i sentori di frutta secca, miele e spezie ingentiliti da una bella freschezza e da una persistenza affascinante.

– Luciana Squadrilli 23.12.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

Quattro brindisi (in rosa) per la nostra estate

È uno dei trend di mercato degli ultimi anni: finalmente – diciamo noi – le bollicine rosate iniziano ad avere il successo che meritano; certo, siamo ancora lontanissimi dai grandi numeri dei bianchi – che forse rimarranno irraggiungibili – ma gradualmente i rosé stanno uscendo dalla nicchia, attirando un numero sempre maggiore di estimatori. Una delle ragioni di questo nuovo interesse risiede probabilmente nella versatilità: il panorama delle bolle rosate, infatti, è così variegato per carattere ed espressività (e anche fasce di prezzo) che è possibile trovare un rosé giusto per ogni circostanza. E così abbandonando una volta per tutte l’obsoleto cliché del “vino da donne” e abbracciando le tante sfaccettature di questa tipologia di vini, si scopre che uno spumante rosé può essere un ottimo vino a tutto pasto – di pesce ma anche di carne, con i giusti abbinamenti – e che d’estate quel mix seducente di struttura e morbidezza, in proporzioni variabili a seconda dei casi, può essere un rinfrescante antidoto al caldo afoso.

Calendario alla mano, quale momento più propizio di questo, dunque, per proporvi quattro eccellenti bollicine per accompagnare le vostre vacanze? Uberti – Francesco I Franciacorta Rosé Brut. La bollicina rosata di Uberti fa parte della linea dedicata a Francesco I, un omaggio al re francese che – secondo la tradizione – nel Cinquecento decise di sostenere la produzione di vini spumanti, fino a quel momento poco diffusi perché considerati “difettosi”.

È una cuvée di Chardonnay (60%) e Pinot Noir (40%) che, con il suo piacevole color rosa confetto dai riflessi aranciati, declina in rosa la filosofia territoriale della famiglia Uberti. Le uve sono raccolte manualmente, sottoposte a una rigorosa selezione, per poi attraversare percorsi di vinificazione differenti – il Pinot Noir, infatti, sosta per qualche giorno a contatto con le bucce – ed essere infine assemblati. Dopo il tiraggio, Francesco I Rosé trascorre un minimo di trenta mesi sui lieviti prima della sboccatura e altri sei mesi in bottiglia prima del rilascio al pubblico. Il risultato è una bollicina fruttata e di grande morbidezza, non priva di freschezza e mineralità e, per questo, di un’eleganza pulita e bilanciata, come sempre accade con i vini di Uberti.

Ci piace perché: è una bollicina versatile, capace di intercettare il gusto contemporaneo senza rinunciare al proprio carattere elegante e identitario. Un rosé dalla beva facile ma non banale, perfetto per uno spensierato aperitivo estivo o per accompagnare un’intera cena vista mare. Ferrari – Giulio Ferrari Riserva del Fondatore Rosé 2008. Presentata alla fine del 2020, l’annata 2008 del Giulio Ferrari Rosé è solo la terza rilasciata sul mercato di questa riserva anagraficamente giovane ma già considerata un’icona delle bollicine italiane rosate. Il rosé alla maniera di Ferrari esalta il Pinot Noir di montagna, che costituisce il 70% del blend e che, grazie all’affinamento di dieci anni sui lieviti, si fonde armoniosamente con lo Chardonnay, in una sintesi elegante e finissima delle migliori uve destinate alle riserve dell’azienda.

Color salmone con riflessi ramati e un perlage fine e persistente, l’annata 2008 trasmette una vibrante intensità da subito, grazie al suo bouquet olfattivo complesso, nel quale le note agrumate si fondono con quelle fruttate di fragola e tamarindo, accenni speziati e note minerali di iodio e calcare. L’assaggio è strutturato e potente e allo stesso tempo lungo ed equilibrato, guidato dal filo rosso della freschezza, che costituisce l’inconfondibile cifra stilistica di casa Ferrari.

Ci piace perché: per tutti coloro che amano la freschezza e la mineralità delle bollicine di montagna, ma anche la struttura del rosé, Giulio Ferrari Rosé è quasi la bottiglia perfetta, la quadratura del cerchio che armonizza con eleganza questi due mondi. Un Trentodoc di grande carattere, che sicuramente può essere il brillante compagno di un’intera cena a base di pesce; il nostro consiglio, però, è di osare e lasciarvi sorprendere da abbinamenti più insoliti. Non vi deluderà. Dom Pérignon – Rosé Vintage 2006. Un mito nel mito, se è possibile. Un grande vino che nasce da uve provenienti da alcuni dei più prestigiosi Grand Cru e Premier Cru della Champagne e che viene prodotto, naturalmente, solo nelle annate migliori. Protagonista assoluto, il Pinot Noir che, supportato dall’immancabile Chardonnay e parzialmente vinificato in rosso, dona a questa riserva la struttura tannica che la rende unica.

Più di dieci anni di affinamento sui lieviti nobilitano questo champagne, che la stessa maison ha definito “paradossale” per l’equilibrio che riesce a raggiungere tra poli opposti: maturità e giovinezza, essenzialità ed espressività.

Vincent Chaperon – Chef de Cave di Dom Pérignon dal 2019, dopo tanti anni passati al fianco del grande Richard Geoffroy – dice a proposito del Rosé e dell’annata 2006 in particolare: «Trasgredisce le regole e ci mostra sicuramente una doppia anima: quella tenace, che viene fuori grazie alla forza sorprendente del vino rosso fermo e quella leggiadra e armonica che ci riporta nel cuore della produzione della Champagne. Trovare questo equilibrio è sempre una sfida. Fare il Rosé ci proietta sempre in una situazione di pericolo. Che solo con l’assaggio, dopo un lungo affinamento in bottiglia, viene scongiurato».

Ci piace perché: come potrebbe non piacerci? Siamo al cospetto di un vero capolavoro, che offre un’esperienza sensoriale intensissima. Con crostacei e crudi di mare è pura sensualità ma il consiglio migliore arriva da Chaperon che suggerisce di assaggiare il Rosé Vintage 2006 con spirito sperimentale e assolutamente libero.

Da non dimenticare che questo champagne ha anche un grande potenziale di invecchiamento, per chi vorrà e saprà aspettare. Perrier-Jouët – Belle Epoque Rosé 2007. È un paradigma quando si parla di bollicine rosé per via dell’armonia e dell’espressività che sono la sua cifra distintiva e non a caso lo Chef de Cave di Perrier-Jouët, Hervé Deschamps, lo definisce «un vino delicato e al tempo stesso ricco e voluttuoso; intenso, generoso e vigoroso ma anche di grande finezza». Il Belle Epoque Rosé è un assemblaggio di uve Chardonnay, Pinot Noir e Pinot Meunier provenienti dai più blasonati cru della Champagne, affina sei anni sui lieviti e viene prodotto, come si confà a uno champagne così prestigioso, solo nelle annate eccezionali.

Dall’elegantissimo colore rosa antico e da un perlage finissimo e cremoso, è un rosé dalla personalità stravagante, nella quale gli aromi floreali e fruttati si intrecciano a note agrumate, di spezie e frutta secca. Al palato è fresco e vivace ma anche intenso e cremoso. Perfetta espressione dello stile raffinato che da sempre caratterizza la Maison.

Ci piace perché: anche in questo caso sarebbe impossibile il contrario. Il Belle Epoque Rosé è uno champagne prezioso che trasmette lo spirito gioioso e vitale di quella Belle Epoque a cui deve il nome e che, anche per questo, regala un’esperienza gustativa sensuale ed espressiva. È una di quelle bottiglie che non dovrebbe mai mancare in una cantina ideale.

E – sorprendentemente se si pensa alla sua complessità – è uno champagne molto versatile e in virtù di questo può essere protagonista di diversi abbinamenti, dai più classici ai più inaspettati, che non faranno altro che esaltare quel carattere stravagante di cui parlavamo.

Redazione 10.08.2021

Speciale bollicine Ferrari

Il perlage del Trento Doc firmato dalla famiglia Lunelli incontra ricette a base di pesce perfette per l’estate (e per tutto l’anno).

Una cena in terrazza, un aperitivo in spiaggia o a bordo piscina, un pranzo con il mare sullo sfondo. E ancora, una buona compagnia e un menu a base di pesce, crostacei e molluschi: ecco il necessario per mettere su una situazione ideale in questi mesi estivi, tanto in città quanto in vacanza. A completare il tutto non mancano che delle “bolle” ben fresche, che accompagnino le portate e la conversazione.

Diversificata ma accomunata dalla grande attenzione alla qualità (e all’ambiente) e da una cifra stilistica incentrata sull’eleganza, la produzione trentina di Cantine Ferrari – l’azienda ultracentenaria creata da Giulio Ferrari e acquisita nel 1952 da Bruno Lunelli, oggi guidata dai nipoti Marcello, Matteo, Camilla e Alessandro – offre una gamma di etichette che permette di stappare e brindare a tutto pasto, realizzate con le uve Chardonnay e Pinot Noir dei vigneti trentini, secondo il disciplinare del Trento DOC che segue il metodo classico. Il Riserva Lunelli – Blanc de Blanc Extra Brut rotondo e dal bouquet complesso, tra gli ultimi nati in casa Ferrari – è un ottimo avvio per sciogliere il ghiaccio e accompagnare qualche assaggio iniziale, magari in versione finger food: dal classico e sempre buonissimo pane con burro e acciughe agli originali “crostini” di croccante pane carasau conditi con un’insalata di muggine, sedano e patate (o anche con la sapida bottarga, sempre smussata dalle patate).

Il sapore iodato ma con tendenza dolce delle cozze – cucinate al vapore e insaporite appena da olio extravergine, poco vino bianco e prezzemolo, con al massimo qualche goccia di limone – viene esaltato dal profilo avvolgente ma molto equilibrato e armonico della Gran Cuvée millesimata, nonché dal suo perlage fine e persistente, con sentori floreali e fruttati bilanciati da spezie e frutta secca. Disponibile solo in grandi formati, è una bottiglia da aprire con una compagnia (giustamente) numerosa e ideale anche per accompagnare primi piatti con delicati sughi a base di crostacei.

Caratterizzato da un naso vibrante di note agrumate e speziate e da un sorso che è insieme morbido, fresco e minerale, il Giulio Ferrari Riserva del Fondatore Rosé , realizzata con il 70% di Pinot Noir ad affiancare lo Chardonnay, è ideale per accompagnare tanto una croccante frittura di pesce quanto un sontuoso “cuoccio” (pesce cappone o gallinella di mare) cucinato all’acqua pazza secondo l’antica tradizione dei pescatori campani. Cotto in un tegame da forno con olio, aglio tritato e pomodori, ricoperto d’acqua e con abbondante aggiunta di prezzemolo a fine cottura, è un piatto saporito ma delicato la cui sapidità marina viene esaltata alla perfezione dall’eleganza delle bollicine.

– Luciana Squadrilli 15.07.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

ALTRE NEWS

Roberto Anesi: fisonomia di un sommelier

Sommelier, oste (suo il ristorante El Pael di Canazei), relatore per l’Associazione Italiana Sommelier e orgogliosamente trentino, Roberto Anesi – miglior sommelier d’Italia nel 2017 – ci racconta il suo percorso e le sue passioni.

Ci racconti come sei arrivato a essere sommelier?

Abbiamo aperto El Pael nel 1994, all’epoca ero un ragazzo da sempre abituato a lavorare nell’accoglienza – i miei genitori avevano un albergo nel centro di Canazei – ma sentivo il bisogno avere una preparazione adeguata. Ho seguito tanti corsi e uno di questi è stato quello per sommelier (nel 1997). All’inizio non volevo diventare sommelier ma semplicemente avere una formazione a tutto tondo, il corso e l’esperienza quotidiana in sala hanno fatto scattare la scintilla. Nel 2008 ho iniziato a fare i concorsi e ho ricevuto anche l’abilitazione per insegnare, ecco, credo che questo momento sia stato un po’ il momento della mia svolta professionale.

Fotografo: Pierluigi Orler

Continui a fare formazione?

Sì, certo! Sono relatore l’Associazione Italiana Sommelier, sia in Italia sia all’estero.

Posso chiederti qual è il profilo dei tuoi studenti all’estero?

Negli altri paesi la percezione del sistema vino italiano è molto buona e il livello degli iscritti ai nostri corsi è mediamente molto alto: generalmente addetti ai lavori che vogliono capire meglio il vino italiano, conoscerlo da una prospettiva interna come può essere quella dell’AIS. Ricordo con molto piacere un corso tenuto per un club della Banca Centrale Europea, con una sessantina di partecipanti da tutte le parti del mondo, davvero bello.

Dal 2017, quando hai vinto il titolo di miglior sommelier d’Italia, sei ambassador di Trentodoc. Dal tuo punto di vista privilegiato, quale pensi sia la forza dell’Istituto?

Credo che Trentodoc abbia fatto una cosa semplice ma importantissima: ha lavorato sulla consapevolezza della centralità del territorio. Questo ha contribuito a consolidare una sorta di filosofia comune a tutti i produttori che, pur nella diversità dei percorsi, cercano di fare vini quanto più possibile identitari, che “sappiano” di Trentino e di montagna. Diciamo che c’è, ormai, uno stile della DOC che è sinonimo di eleganza, essenzialità ed equilibrio.

È stato fatto molto e bene anche sul fronte del marketing territoriale con iniziative pensate per accrescere la conoscenza della bollicina di montagna, partendo in questa opera di educazione – chiamiamola così – prima di tutto da casa nostra, cioè dal Trentino stesso per poi guardare fuori, al resto d’Italia e non solo. E oggi si può dire che Trentodoc è un punto di riferimento per tutto il metodo classico italiano di qualità.

Qual è, se esiste, secondo te la carta dei vini ideale?

Una considerazione per me preliminare è che una buona carta è quella che consente alle persone di scegliere senza sentirsi in difficoltà ma con il piacere prima della scoperta e poi della scelta vera e propria.

Detto questo, al centro di tutto c’è sempre il territorio, che deve essere valorizzato, senza naturalmente escludere i vini che provengono da altri luoghi. Ma diciamo che il territorio è un po’ il cuore della carta.

Mi piace pensare a una carta costruita in maniera sartoriale, che sia – cioè – cucita su misura per il ristorante e che, per questo, tenga conto di diversi elementi: il luogo, la cucina, le persone e tutto ciò che compone l’atmosfera d’insieme. Per questo sono sempre molto scettico nei confronti dei distributori che propongono anche di costruire e gestire la carta. In questo modo si perde la specificità e il calore di un locale.

Com’è cambiata, negli anni, la carta del tuo ristorante?

È cambiata con me, ha seguito le mie evoluzioni, frutto dei miei viaggi e delle mie esperienze di degustazione, che mi hanno fatto conoscere in maniera più approfondita certe varietà a tal punto da volerle anche nel mio locale. Sicuramente non è cambiata l’attenzione al territorio, per esempio dal 1998 ho scelto di servire come unica bollicina italiana quella trentina. Non manca certamente lo champagne, ma guardando all’Italia ho voluto esplicitare il rapporto con luogo in cui il mio locale si trova.

Spostandoci per un attimo all’estero, esiste un territorio per te d’elezione?

Forse perché sono uomo di montagna ma sono molto attratto dai vini del Nord. Amo Austria e Germania e per questo, negli ultimi anni, hanno occupato molto spazio nelle mie degustazioni. A maggio avevo in programma un soggiorno nel Baden-Württemberg per approfondire ulteriormente la nouvelle vague dei Pinot Noir tedeschi, per ovvi motivi ho dovuto rimandare ma spero di poter recuperare presto!

Torniamo al tuo ristorante, che rapporto hai instaurato con i clienti?

Mi fa molto piacere vedere che tante persone vengono da noi per la nostra carta o per provare quello che io posso consigliare. E che questa è un’esperienza che ricordano: diversi clienti mi dicono che hanno scoperto dei vini nel mio locale e che da allora non hanno più smesso di berli. Oppure ci sono i clienti-amici che mi scrivono per chiedermi un consiglio o per farmi sapere cosa hanno assaggiato in altri ristoranti o cosa hanno acquistato per sé. Ho lavorato molto per creare con le persone un rapporto che andasse un po’ oltre quello statico ristoratore-cliente.

Per questo ami definirti un oste?

Sì, perché credo che sia importante costruire un rapporto empatico con i clienti, guadagnarsi – boccone dopo boccone, bicchiere dopo bicchiere – la loro fiducia, cercare di sintonizzarsi su chi si ha davanti, per capire, sì i suoi gusti, ma anche che cosa si aspetta in quel preciso momento da noi. Questo significa sapere essere presenti nel modo giusto: a volte per una chiacchierata rilassata e coinvolta, a volte in maniera più discreta, semplicemente con un sorriso.

Mettendo per quanto è possibile tra parentesi l’aspetto professionale, quale è il tuo rapporto “personale” col vino?

Anche io come tutti ho vissuto fasi diverse, guidato dalla curiosità e dalla voglia di sperimentare. Sono partito alla fine degli anni Novanta con i vini di quegli anni, plasmati nel legno – rossi potenti, concentrati e bianchi sovraccarichi quasi per via di questo tipo di affinamento – per arrivare a oggi, dove quello che cerco è sempre una sorta di eleganza priva di sovrastrutture, perché nei vini apprezzo sempre di più l’essenzialità. E quindi ecco l’amore per il Pinot Noir, ma anche per un certo tipo di bollicina o per il Riesling.

Un paio di consigli, guardando ai due estremi: vino da tutti i giorni vs vino per le occasioni importanti. Cosa ci dici?

Faccio una premessa: mi piacciono molto i vini da tutti i giorni, perché portano con sé spensieratezza, semplicità e una piacevolezza di beva immediata, perché bere un buon bicchiere di vino non deve essere sempre e per forza un momento di riflessione o analisi di quello che hai nel bicchiere. Mi piace anche il loro essere discreti: sanno non farsi notare, sia perché non hanno una personalità troppo ingombrante, sia perché non sono sgradevoli (spesso notiamo un vino perché non ci piace). Sono vini che accompagnano con garbo e con leggerezza una cena o una chiacchierata fra amici.  Da questo punto di vista, sono un grande estimatore dei rosati, trovo che molto spesso a tavola si rivelino eccezionali, perché sono versatili, facili ma non banali. E spesso hanno anche poco alcol.

Se devo guardare a un momento importante, torno al mio DNA e quindi ti rispondo che un grande metodo classico è sempre il compagno perfetto.

Come hai visto cambiare la figura del sommelier, da quando hai iniziato a oggi?

È una figura che ha subito una grandissima trasformazione negli ultimi dieci, quindici anni, per tanti motivi: è cambiata la ristorazione, è cambiato l’approccio al vino, sono cambiati naturalmente i consumatori e soprattutto, rispetto a un tempo, la reperibilità del vino è enormemente aumentata. Tutti possono trovare tutto ora. Dico spesso che prima chi si occupava del vino era “il cameriere del vino”, adesso il sommelier è la somma di tante competenze diverse: sa di vino ma anche di territorio e gastronomia, conosce la storia e la cultura che i diversi vini si portano dietro. Allo stesso tempo, è stata archiviata la figura del sommelier un po’ rigida e polverosa dell’alta ristorazione, che nel contesto contemporaneo non avrebbe davvero più senso.

Tutto questo è stato accelerato e facilitato dal web e dai social. Sicuramente perché ci avvicinano alle persone e anche perché ci permettono di raccontare le nostre esperienze in modo diretto, quasi quotidiano.

Webinar e presentazioni a distanza: come ti stai trovando a lavorare in questo modo?

In questo periodo webinar e incontri digitali sono stati una risorsa utilissima perché ci hanno consentito di fare presentazioni e degustazioni nonostante tutto. Naturalmente, si perde così la parte più emozionale dello stare insieme con un bicchiere in mano e si perde moltissimo il contesto di fruizione, che per il vino è importante. Credo, però, che non si tornerà indietro, rimarranno queste formule, non tanto come alternativa agli eventi e gli incontri veri e propri ma per integrarli, per arricchire di uno strumento agile, facile da fruire e immediato le attività di comunicazione di produttori e consorzi.

Stappato. Un astemio alla corte di re Carlo

Un inedito dietro le quinte del mondo del vino e della degustazione

Autobiografia, critica enologica, acute notazioni sulla spettacolarizzazione dell’enogastronomia e sui suoi luoghi comuni ma anche bellissimi ritratti di alcuni grandi vignaioli italiani, con un particolare sguardo amoroso per le Langhe e il Barolo: c’è tutto questo e molto altro ancora in Stappato. Un astemio alla corte di re Carlo, il libro di Tiziano Gaia, che – attraverso il racconto degli anni esaltanti e frenetici della sua esperienza a Slow Food (2000 – 2008) – ci accompagna con molta schiettezza e una certa ironia dietro le quinte del mondo dei vini.

Una prospettiva personale la sua: quella di chi dopo tanti anni e incarichi diversi all’interno di Slow Food, primo fra tutti quello di responsabile delle pubblicazioni enologiche del movimento, decide di abbandonare il lavoro di “degustatore seriale” – come Gaia stesso lo definisce – per tornare a guardare il vino da una prospettiva diversa, meno legata al bicchiere e all’assaggio e più focalizzata sull’immersione nel territorio e nelle vigne e soprattutto sulle storie delle persone che il vino lo fanno, rendendolo ogni volta qualcosa di unico e spesso irriducibile a categorie o definizioni astratte.

Stappato offre anche un’occasione per osservare come il mondo del vino nel suo insieme sia cambiato dai primi anni Duemila a oggi e come questa trasformazione abbia coinciso – a volte, anticipandola – con la trasformazione socio-culturale del paese intero. A questo proposito Gaia ricorda: «Tra un’edizione e l’altra di Vini d’Italia, tra una batteria di Verdicchio e una di Valpolicella, persino tra una sniffata e il gorgheggio successivo, oltre la distesa impressionante delle bottiglie a cui ho tirato il collo in tutti questi anni, ho visto cambiare il mio paese, i miei amici, l’Italia e il mondo. Anche il vino non è rimasto lo stesso, e la sua camaleontica natura spesso ha anticipato eventi e mutamenti, sublimandoli in una sbornia collettiva».

Attualmente, Tiziano Gaia è il direttore del comitato scientifico del WiMu – Il Museo del Vino a Barolo, collabora con il magazine Decanter ed è autore e regista di documentari come Barolo Boys. Storia di una rivoluzione.

Tiziano Gaia, Stappato. Un astemio alla corte di re Carlo, 2019, Baldini+Castoldi

Come funziona il sistema di qualità francese

Negli anni Venti, a causa degli enormi danni provocati dalla filossera, in Francia si registrò un forte incremento della produzione di vini scadenti, parallelamente a una scarsa disponibilità di quelli di alta qualità. Il rischio più evidente e immediato era quello di compromettere il prestigio internazionale dell’enologia francese e si iniziò – per questo – a riflettere sulla necessità di individuare dei criteri unanimemente riconosciuti, in grado di regolamentare la qualità del sistema produttivo vitivinicolo.

Una prima risposta a questa necessità venne dall’individuazione delle Appellation d’Origine Contrôlée (AOC), a cui seguii – nel 1935 –  la nascita dell’Institut National de l’Origine et de la Qualité (INAO), con lo scopo di definire e tutelare i disciplinari delle varie AOC. Il modello per questi primi anni di attività fu l’esperienza del Barone Pierre Le Roy de Boiseaumarié – importante produttore di Châteauneuf-du-Pape – che già nel 1923 scelse di produrre i suoi vini solo e soltanto secondo regole rigide come la dichiarazione della zona geografica, l’indicazione delle uve permesse, il metodo di allevamento delle viti e la loro potatura e, infine, il grado alcolico. Quasi tutti i disciplinari dei vini francesi più noti sono stati messi a punto nei primi anni di vita dell’INAO e, nel tempo, perfezionati.

Per rientrare in una AOC, un vino deve rispettare sette criteri: il territorio (la posizione dei vigneti e anche la qualità del terreno), le uve consentite (sulla base della storia e della tradizione locale), le pratiche ammesse in vigna, la resa per ettaro, le tecniche enologiche (sempre secondo tradizione) e il grado alcolico minimo. Infine, dal 1979, una commissione effettua controlli organolettici su tutti i vini in lizza per l’Appellation.

L’AOC è riservata all’eccellenza dei vini francesi, sotto troviamo il Vin Délimité de Qualité Supérieure (VDQS), il Vin de Pays e per finire il Vin de France, ovvero quei vini privi dei requisiti necessari per ricevere una specifica denominazione. Questi quattro livelli disegnano la piramide del sistema qualitativo francese nel suo insieme, ma esistono molti altri parametri per circoscrivere ulteriormente la qualità di un vino in relazione alla sua zona di provenienza: dal Clos al Domaine, senza dimenticare ovviamente il Cru. Quest’ultimo indica un villaggio – e molto frequentemente un singolo vigneto all’interno di uno specifico villaggio – da cui nasce un vino con caratteristiche uniche e chiaramente riconoscibili.

In questo contesto la scala dei Cru rappresenta un vero e proprio sistema di valutazione economica che riconosce il 100% del valore al vino migliore e, tenendo quest’ultimo come riferimento, classifica poi tutti gli altri, al fine di dare un valore economico sia ai prodotti di ogni Cru, sia ai suoi terreni. Il Grand Cru è il gradino più alto, seguono il Premier Cru, Duexième Cru e così via.

Questo pragmatico sistema di classificazione si complica in Borgogna dove circa la metà dei vini prodotti (48%) rientra nella fascia più generica dell’Appellation Regional (Bourgogne Rouge e Bourgogne Blanc) e il 39% dei vini fa parte delle 44 AOC identificate con il nome dei Villages di provenienza. Il restante 13% è suddiviso fra Premier Cru (11%), denominazione riservata a 562 vigneti – i cui vini in etichetta riportano il nome del vigneto di provenienza, insieme a quello del villaggio – e Grand Cru, 33 vigneti (2%) che rappresentano la vetta della produzione borgognona. Le etichette di questi vini estremamente pregiati riportano solo il nome del vigneto.

Fin qui tutto bene; ma se torniamo a guardare le Appelation Regional, vediamo che, accanto alla denominazione Bourgogne (Rouge e Blanc), ne esistono in realtà numerose altre, che coprono zone di produzione diversissime fra loro, da ogni punto di vista: dai 90 comuni della Côte d’Or ai 54 del Dipartimento della Yonne (che include anche Chablis), e anche 154 località della Saône-et-Loire e 85 comuni del Dipartimento del Rodano, fra i quali spiccano non poche località del Beaujolais.

In questo panorama già sufficientemente variegato, ha suscitato le ire dei vigneron borgognoni, il nuovo regolamento dell’INAO. Reso noto a febbraio 2020, quest’ultimo includeva nella AOC Bourgogne 43 comuni del Beaujolais, escludendone contemporaneamente 64 della Borgogna, fra i quali Chablis e sei località intorno a Digione, che sarebbero così rientrate nell’appelation poco nota e molto vaga di Coteaux Bourguignons. Usiamo l’imperfetto perché le proteste dei vignaioli della Borgogna sono state così accese da spingere l’INAO a ritirare il regolamento, con la promessa di studiare una  proposta alternativa in breve tempo. Vedremo cosa accadrà.

Un’altra prestigiosa eccezione alla regola riguarda il Bordeaux, dove la classificazione dei Cru risale al 1855, quando Napoleone III, in vista dell’Esposizione Universale di Parigi, chiese alla Borsa di Bordeaux di stilare una lista completa dei migliori vini della regione, rossi e bianchi. Per stabilire questa graduatoria (Crus Classés), si prese come riferimento il prezzo di mercato di questi vini e la reputazione delle loro cantine di provenienza (ottantotto tra le più blasonate dell’epoca,) stabilendo a seguire cinque livelli per i rossi e tre per i bianchi.

Questa classificazione, dal 1855 a oggi, ha subito due sole modifiche: nel settembre del 1855 Château Cantemerle è stato riconosciuto come Cinquième Cru, mentre nel 1973, Château Mouton Rothschild è passato da Deuxième a Premier Cru.

Semplificando, possiamo dire che nel Bordeaux, a differenza che altrove, il Cru è un titolo che viene attribuito al produttore e non al vigneto.

Attualmente, sono sessanta gli Châteaux del Médoc e uno della Grave a fare parte della graduatoria, mentre i vini bianchi classificati provengono da Sauternes e Barsac.

Per la Grave il sistema venne introdotto solo nel 1953 e prevede unicamente la dicitura Cru Classé per i vini di qualità superiore. La zona di St. Emilion infine, è stata classificata nel 1954 e prevede una revisione ogni dieci anni.

Tua Rita: artigianalità e territorio

Ciò che conta è saper fare vini che hanno una territorialità. Di vini buoni ce n’è tanti, ma è la loro capacità di raccontare il territorio a dare quel qualcosa in più” Stefano Frascolla

Dai primi anni Ottanta – quando era solo un piccolo podere di famiglia – per arrivare a oggi, con lo specialissimo Redigaffi 7, Stefano Frascolla ci accompagna all’interno del mondo di Tua Rita, in un racconto che parla di un’azienda orgogliosamente artigianale e del percorso evolutivo che il vino della costa toscana ha compiuto negli ultimi quaranta anni.

Sicuramente la vostra è una storia abbastanza particolare. Negli anni Ottanta quello che, in origine, era nato semplicemente come il buen retiro di campagna dei suoi suoceri Rita e Virgilio Bisti, si è poi trasformato in Tua Rita. Ci vuole raccontare come è avvenuta questa trasformazione?

Il podere è stato acquistato da Rita e Virgilio nel 1984, cinque ettari per la gran parte a ulivi e un solo mezzo ettaro di vigna. Abbiamo iniziato a vinificare puramente per piacere ed era una pratica che coinvolgeva un po’ tutti: i miei suoceri, i parenti, gli amici e anche me e mia moglie Simena, che all’epoca eravamo dei ragazzi.

Dopo la grande gelata del 1985, che distrusse completamente l’uliveto, decidemmo di reimpiantare solo una parte di ulivi e di ampliare, invece, la parte vitata. Un ettaro venne destinato al Merlot – un omaggio all’Apparita del Castello di Ama, che era un vino che amavamo molto – e un ettaro al Cabernet Sauvignon.

Poi c’è stato l’incontro con Luca D’Attoma.  All’epoca, Luca non era ancora enologo ma tecnico di cantina e noi non eravamo ancora veri e propri produttori di vino ma avevamo tutti molta voglia di fare: noi siamo stati i suoi primi clienti. Iniziammo a imbottigliare nel 1992, ottenendo subito risultati molto buoni, come i Tre Bicchieri che arrivarono l’anno dopo con il Giusto di Notri.

Sono stati i Tre bicchieri il momento della svolta?

Direi il Vinitaly del 1995, per via di quella degustazione che venne ribattezzata “Galli contro Etruschi”. Si trattava di sette aziende della nostra costa a confronto con sette grandi nomi di Bordeaux, alla presenza di quelli che all’epoca erano i guru della critica enologica, da Jancis Robinson a Daniele Cernilli. Le prime due aziende furono toscane: Tua Rita con il Giusto di Notri e Le Macchiole con il loro Paleo. È stato un passaggio davvero importante per tutti i produttori della zona, perché lì si è iniziato a capire che anche la costa toscana aveva qualcosa da dire e che iniziava ad avere un suo stile preciso.

A quel punto, dopo i primi riconoscimenti importanti, ci siamo sentiti pronti per un cambiamento radicale e per entrare veramente sul mercato, abbiamo piantiamo nuovi vigneti e rifatto per la prima volta la cantina.

Poi, si è trattato di una crescita graduale e costante. Oggi Tua Rita è un’azienda di 51 ettari di vigneto e 15 in affitto, con una produzione attorno alle 350.000 bottiglie all’anno. E poi è arrivata anche l’esperienza in Maremma con la Tenuta Poggio Argentiera.

Sia lei che sua moglie siete stati sempre coinvolti nella vita del podere, dunque. Sapevate fin da giovani che vi sareste occupati di vino oppure è qualcosa che è arrivato da sé con il tempo?

In realtà all’inizio eravamo spesso lì anche per via del fatto che Virgilio e Rita ci chiedevano sempre aiuto per qualcosa, che fosse una mano per imbottigliare o per etichettare; le confesso che a volte era quasi una seccatura, eravamo molto giovani – ventenni – e avevamo altro per la testa! La passione, però, c’è sempre stata, anche se nei miei piani di ragazzo non c’era l’idea di occuparmi professionalmente di vino. Ho lasciato il mio lavoro nel 1996 per dedicarmi completamente a Tua Rita, mia moglie ha lasciato il suo di avvocato solo nel 2013.

I vostri inizi coincidono con il grande fermento all’interno del mondo del vino, che ha caratterizzato gli anni Novanta in Italia. Pensando a quegli anni, molto spesso siete stati considerati un’avanguardia per la zona di Suvereto e della Val Cornia. Si riconosce in questa definizione?

Rispetto alla zona siamo stati – direi – degli innovatori, perché siamo stati i primi a tentare una strada diversa, discostandoci dalla tradizione del Sangiovese, del Canaiolo, dei vitigni autoctoni insomma, per guardare a quelli internazionali. E siamo stati anche i primi a lavorare molto con mercati che all’epoca erano poco frequentati. Da subito, abbiamo scelto di distribuire molto nel mondo e, ancora oggi, la gran parte dei nostri vini va all’estero (in 75 paesi), mentre la quota di mercato italiana si aggira intorno all’8%. Devo dire che i nostri vini sono stati amati da subito all’estero, pensi che Winart, il più importante wine magazine del Giappone dedicò una copertina al Redigaffi nel 1999, quando in Italia era quasi sconosciuto.

Come se lo spiega questo feeling particolare con l’estero?

Bisogna dire che il mercato italiano è molto diverso, comprensibilmente è un mercato molto volubile, perché c’è una enorme ricchezza di varietà autoctone e non sul territorio, con una qualità anche molto alta, dunque è normale che i consumatori vogliano spaziare e che questo porti a una frammentazione del gusto, chiamiamola così.

Per quanto riguarda l’estero, sicuramente è stato decisivo aver coltivato con costanza il rapporto con questi mercati in un momento in cui c’era molta voglia di sperimentare cose nuove; questo peraltro ci ha consentito di essere in una buona posizione anche nel periodo successivo alla crisi 2008, in seguito alla quale le carte internazionali dei vini si sono, per forza di cose, contratte. E confido che sarà per noi un fattore importante anche per affrontare il prossimo periodo, che sarà molto complesso.

Prima lei accennava allo stile della costa toscana, come lo definirebbe?

Partiamo da una constatazione paradossale, la costa toscana è quella in cui il Sangiovese viene peggio: è calda, ventosa, le vendemmie sono anticipate. Fino agli anni Sessanta, la zona era conosciuta, principalmente, per lo Scalabrone, il Bolgheri rosato di Antinori, e i vini bianchi di costa che sinceramente non erano di grande qualità. Mentre, il Sassicaia rappresenta una storia a sé.

In realtà, quindi, la tradizione della costa toscana non esiste, così come non esiste ancora una chiara consapevolezza di tutte le sue potenzialità. Facendo il nostro esempio, noi in questi anni stiamo sperimentando molto con il Syrah, perché ci siamo resi conto che, a differenza di Cabernet, Cabernet Franc e Merlot che sono molto più costanti, il Syrah è profondamente influenzato non solo dal clima (come tutti i vitigni) ma anche in misura estrema dal terreno. Questo fa sì che si possano avere espressioni molto diverse anche su appezzamenti molto vicini.

Ora, dopo più di quarant’anni anni di lavoro, possiamo dire che la costa toscana – da Grosseto a Pisa –  inizia ad avere un suo stile, ovviamente non paragonabile a quello di Bordeaux, ma inizia a esserci. Volendo dare una definizione, parlerei di tagli bordolesi solari.

In questa evoluzione penso sia stato determinante l’arrivo qui, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta e per tutto il decennio successivo, di tanti imprenditori che, come noi, non venivano da famiglie del vino ma avevano una freschezza e una energia che sono state da stimolo a tutti, anche a chi in Toscana ha sempre fatto questo lavoro. Il risultato è stato un miglioramento complessivo di tutto il vino toscano, dalla fascia base fino a quella più alta.

All’interno di questa cifra identitaria, dove si colloca Tua Rita?

Direi che tutto si basa, per noi, su un rapporto rispettoso con ciò che rappresenta la nostra sola ricchezza, quell’insieme unico di clima, territorio e varietà nel quale siamo immersi e lavoriamo. E poi, sulle persone, perché senza le persone le aziende non sono nulla. Qui siamo circa in trenta a lavorare e tutti hanno una conoscenza profonda del territorio e delle vigne. Significativamente, a proposito di persone, oggi il nostro enologo consulente è tornato a essere Luca D’Attoma. Abbiamo lavorato con lui fino 1998 e successivamente, a lungo e molto bene, con Stefano Chioccioli e poi, in un certo senso, siamo tornati all’origine. Mi piace ricordare qui, anche Marco Lamastra, l’enologo aziendale e il suo braccio destro, Giulia Harri.

Lo stile dei nostri vini non è cambiato molto, in fondo. Alla fine, in questo lavoro non si inventa nulla, si tratta sempre di una somma di piccoli passaggi, che nascono dall’evoluzione tecnica e dalla crescita di tutti noi. Il fattore tempo, poi, gioca ruolo determinante: un’età diversa delle vigne ma anche una nostra età diversa, siamo persone differenti da quando abbiamo iniziato e l’evoluzione del nostro gusto rispecchia il percorso che abbiamo fatto in questi anni.

Continuando a parlare di persone, posso chiederle quale è stato l’insegnamento che il signor Virgilio – scomparso nel 2010 – vi ha lasciato?

Virgilio si è sempre occupato della parte agronomica, era la sua vera passione e il suo vero talento. Quindi, indubbiamente, il rispetto per il territorio e l’importanza di pratiche agronomiche molto curate e attente. Al di là di questo, è stato un vero maestro per tutti noi e per tutti quelli che sono passati da Tua Rita negli anni. Aveva e ci ha trasmesso un amore maniacale per il particolare e una grande capacità di vedere i dettagli.

Dopo tanti anni di lavoro,  secondo lei, qual è la qualità indispensabile che deve avere chi fa vino?

Saper fare vini che hanno una territorialità, perché di vini buoni ce n’è tanti, ma è la loro capacità di raccontare il territorio a dare quel qualcosa in più. Penso anche che le aziende debbano sapere guardare al mercato, non per inseguirlo ma per riuscire a comprenderlo. Questo per noi, negli ultimi anni, ha voluto dire investire molto sulla qualità dei nostri vini base. Diciamo che per i grandi vini sono quasi obbligatorie certe cose: una qualità altissima, la capacità emozionare, la territorialità e molto spesso anche la forza del brand, ma non è con questi vini che costruisci la tua comunità di consumatori. Sono i vini base a essere il biglietto da visita, soprattutto per il futuro, perché i giovani che si accostano al vino adesso lo fanno partendo da vini più semplici, più avvicinabili anche economicamente, quindi se vogliamo che queste persone si innamorino di noi dobbiamo fare vini base buonissimi e territoriali, capaci di parlare loro.

Poco fa ci raccontava dei vostri esperimenti con il Syrah, è una scelta legata anche ai cambiamenti climatici, al riscaldamento globale? Come state gestendo questo fattore ormai imprescindibile?

La cosa che più noto è l’intensità dei fenomeni e il loro carattere improvviso. A parte questo, la nostra è una zona molto calda e, storicamente, abbiamo già avuto estati calde, in un certo senso siamo preparati. Anche se si tratta di fenomeni sempre più intensi, come dicevo prima. Quello stiamo facendo è cambiare alcune pratiche colturali per reagire meglio a questa intensità e cercare nuove zone in cui impiantare nuovi vigneti, come il Syrah. Credo che siamo noi a doverci adeguare, dobbiamo essere capaci di assecondare il clima e la natura.

Redigaffi è un vino icona per molti aspetti. Ci può spiegare la genesi del progetto di Redigaffi 7?

Il vigneto del Redigaffi è diviso in quattro blocchi: quelli che noi chiamiamo primo e secondo quadro, vigne Montepeloso – impiantati fra il 1996 e il 2000 – e il vigneto vecchio. In annate particolari come il 2013 e il 2018 – annate di grande eleganza complessivamente – le 2500 viti della vigna vecchia danno un vino molto diverso dal resto, con meno struttura iniziale, molto più fine e di grande persistenza. È un vino che quasi non sembra Merlot. Non succede tutti gli anni e il Redigaffi 7 nasce solo quando questo accade. Lo abbiamo prodotto, appunto, nel 2013 – per la prima volta – e verrà prodotto di nuovo nel 2018 (l’uscita a fine 2021 probabilmente), casualmente in concomitanza di due ricorrenze: la ventesima e la venticinquesima annata. Lo abbiamo chiamato così, perché sette è il numero sulla mappa catastale della particella del vecchio vigneto.

È un micro-progetto che parla della nostra storia e delle nostre radici: 421 magnum per il 2013, 300 per il 2018. Sicuramente lo rifaremo anche  per 2019 e credo, guardando le barrique, che le bottiglie saranno un po’ di più.

Non abbiamo voluto dare a questo vino una connotazione commerciale e abbiamo scelto di non seguire il percorso usuale di lancio di un vino, con il giro di presentazioni per poi arrivare al consumatore finale. Lo abbiamo fatto conoscere prima ai nostri collezionisti privati, per poi arrivare alla stampa e non si passa comunque dai canali di distribuzione soliti. Redigaffi 7 parla di noi, per questo ha come interlocutore ideale il nostro consumatore più affezionato e appassionato.

E, invece, la fascetta anticontraffazione del Redigaffi?

In parte nasce dal desiderio di tutelare l’etichetta e chi l’acquista ma è anche un modo per tracciare chi compra le nostre bottiglie, per capire il percorso che fa il nostro vino. Inoltre, il QR code consente di scaricare sul telefono una piccola storia del Redigaffi, un’ulteriore forma di attenzione verso il consumatore.

È probabilmente troppo presto per delineare uno scenario post-emergenza Covid-19, cosa vede lei però dal suo punto di osservazione?

Quello che posso dire è quello che stiamo facendo noi, ovvero continuare a lavorare come sempre coscienziosamente e con impegno. Sicuramente il modo di consumare il vino cambierà, almeno per un certo periodo, e tutti dovremo prenderne atto ma tutto è ancora un’incognita perché bisognerà capire quale situazione troveremo effettivamente quando si tornerà a una relativa normalità. 

Certo, il vino ha dei tempi lunghi, non segue – almeno un certo tipo di vino – le mode e questo gioca a favore del nostre settore. Altrettanto sicuramente ci dovrà essere, però, un sostegno importante da parte delle istituzioni.

Ai confini fra terra e mare: il sale della laguna

Quando si parla di viticoltura eroica si pensa alla verticalità di certe vigne inerpicate su montagne scoscese. Un eroismo verticale, insomma. Esiste però un luogo dove la viticoltura eroica si sviluppa in orizzontale, tra linee sovrapposte che si uniscono confondendo terra e mare. È la Laguna di Venezia, costellazione fatta dalle piccole isole che la compongono e dall’acqua che le separa. Il tramite fra terra e onde è il sale, vero protagonista dei sapori di Laguna. L’altitudine delle vigne qui mostra spesso il segno meno, siamo sotto il livello del mare. Le radici delle viti capita che sfiorino l’acqua salata, bastano pochi centimetri ed è la fine. Ecco perché viticoltura eroica. Lo stesso sale che può decretare la morte della pianta rappresenta, per uno speciale meccanismo di sublimazione, la linfa vitale che ritroviamo nel bicchiere. Perché se esiste una cifra stilistica propria dei vini di Laguna è la splendida salinità che innerva il sorso e lo nutre in un allungo spesso poderoso.

Fra tutti i vitigni che compongono il mosaico di queste terre la Dorona spicca perché racconta una storia unica. Quella di una varietà speciale, capace di adattarsi secolo dopo secolo all’estrema salinità del contesto naturale. Nel 1966 una terribile alluvione distrugge le vigne e quasi cancella questo vitigno, insieme alla cultura vitivinicola delle piccole isole. A salvare la Dorona è Gastone Vio, mitico produttore della zona: le sue piante sono le uniche risparmiate dal disastro. Gastone, sull’isola di Sant’Erasmo, ancora oggi custodisce un vero tesoro. Piante vecchissime, con picchi di età che superano i 100 anni grazie alla coltivazione a piede franco, che non prevede l’utilizzo di portainnesto. Una condizione rara, resa possibile dal terreno limoso e sabbioso che impedisce alla fillossera di attaccare.

La Dorona viene lavorata da sempre in versione macerativa. I vini di Laguna dovevano essere resistenti, vista anche la difficoltà di ricavare delle cantine da un territorio così delicato. Ecco allora che il contatto con le bucce diventa la strada per rafforzare il vino in termini di conservazione, grazie all’azione dei tannini. La motivazione pratica va poi a braccetto con la naturale predisposizione di quest’uva alla macerazione. La trama tannica diventa complice naturale della sapidità, mentre la struttura che deriva dalla permanenza sulle bucce è la base per la capacità evolutiva che caratterizza il vino. 

È proprio Gastone Vio a fornire alcune barbatelle di Dorona alla Tenuta Venissa. Sull’Isola di Mazzorbo, attigua a Burano, oggi la famiglia Bisol coltiva un ettaro di vigna, circondata dal mare che pare volersela inghiottire da un momento all’altro. Uno spettacolo della natura, una vigna sospesa a pelo d’acqua, con un campanile del Trecento a sorvegliare un’armonia in equilibrio precario. Il risultato è un vino raro e prezioso, prodotto in poche migliaia di bottiglie. Presenta un’eleganza lieve, capace di intessere la salinità più fine che si possa immaginare con suggestioni di delicati frutti a polpa gialla. Venissa è protagonista di una macerazione selettiva. Il contatto, infatti, è solo con le migliori bucce. I tannini, come un filo sottile ma resistente, sostengono il sorso e la sua complessità. Nella versione 2015 Venissa abbraccia riverberi agrumati e richiami di fieno e camomilla, spezie dolci e accenni amaricanti sui toni della mandorla. E soprattutto, vibra di una sapida energia vitale. Ecco il sale della Laguna, che nutre e dà vita. Se è vero che il mare e la terra si fondono, il sale è l’elemento di raccordo che li congiunge attraverso la vite. In un passaggio dall’acqua alla terraferma, in cui l’intensità viene elevata a finezza assoluta.

Venissa non è solo vino, ma anche uno spazio in cui trovare rifugio tra le mura medievali nelle camere e suite a disposizione degli ospiti. Un luogo protetto, in cui passeggiare tra lo sciabordare delle onde e degustare i sapori di Laguna grazie al ristorante stellato Venissa e all’Osteria Contemporanea. I registi dell’anima culinaria di Venissa sono gli chef Francesco Brutto e Chiara Pavan, che insieme guidano una squadra di giovani entusiasti e talentuosi. È una cucina coraggiosa e d’avanguardia: invita a scoprire i sapori di Laguna attraverso stimoli continui che invitano ad andare oltre. Così come la vite restituisce il sale nel bicchiere, i pesci trasfigurano la sapidità del mare nel piatto. La scoperta del carattere di questi luoghi avviene attraverso percorsi mai scontati, in cui al godimento puro si alternano spunti di riflessione giocati su spigoli e note più enigmatiche.

Adiacente all’Osteria, una splendida sala degustazioni consente di immergersi alla scoperta del vino circondati da quadri e bellezza. Tutto è impeccabile, solo un’ombra bianca vela il pavimento ricordando la spaventosa acqua alta di pochi mesi fa. Ha lasciato il segno. L’ha fatto con l’inchiostro che scrive le storie più temibili di queste terre, ma anche le più incantevoli. Il sale della Laguna.

di Graziano Nani 03.06.2020.

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Saggezza antica e fiere virtuali: le nostre letture di maggio

In questi mesi di isolamento forzato si è registrato un forte incremento del consumo casalingo di alcolici e si è, di conseguenza, molto parlato dei rischi ad esso connessi. Torna utile, dunque, la saggezza dei tempi antichi, quando Dioniso, il dio dell’ebbrezza che nella mitologia greca fece dono agli uomini del vino, invitava a non esagerare e a seguire “la regola dei tre bicchieri” (all’epoca il vino era diluito con l’acqua): il primo per la salute, il secondo per l’amore e il terzo per il sonno. Superato questo numero, il rischio era quello di scivolare nella follia.

Un suggerimento da tenere sempre mente, che rimanda al bere consapevole in maniera sicuramente suggestiva e che troviamo in questa bella ricognizione nella cultura del vino della Grecia antica, compiuta da Giorgio Ieranò per IL Magazine: www.ilsole24ore.com.

Fabio Rizzari, invece, sull’Accademia degli Alterati scrive del piacere di bere il vino giovane: luminoso, irruento, diretto come solo la gioventù può essere: www.accademiadeglialterati.com.

Dibattito accesissimo, com’era prevedibile, per la nascita ufficiale del “Prosecco spumante rosè millesimato”. Il 21 maggio, infatti, il Comitato nazionale Vini del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali ha approvato la modifica al disciplinare della DOC Prosecco per l’introduzione della tipologia rosè, che potrà contenere fino a un 15% di Pinot Nero (il restante 85% è composto da Glera). Su La Repubblica Sapori un’articolata ricostruzione delle diverse posizioni, fra apocalittici e integrati: www.repubblica.it.

Sul New York Times, Eric Asimov ha dedicato  agli orange wine un articolo (come sempre) molto accurato, che – andando al di là delle  mode – racconta il fascino polarizzante di questi vini: www.nytimes.com.

Ci spostiamo a Bordeaux e per una volta ci allontaniamo dal mondo del vino in senso stretto per scoprire – insieme a Winesurf – la storia del Lillet, il tradizionale aperitivo bordolese nato nel 1872 nella distilleria di Raymond e Paul Lillet: www.winesurf.it

Inevitabile e doveroso tornare a parlare dell’emergenza Covid-19, in modo particolare dei primi tentativi di disegnare un post-emergenza per il settore vitivinicolo. A metà maggio, per esempio, il Governo francese ha annunciato un primo pacchetto di misure per contrastare la crisi. Le riporta in sintesi The Drink Business: www.thedrinksbusiness.com.

Dal canto suo, Antonino Laspina, direttore dell’Istituto Nazionale per il Commercio Estero a New York,  si dice – in una lunga intervista rilasciata al Gambero Rosso – ottimista sul futuro del vino italiano negli Stati Uniti. I nostri fondamentali sono solidi e il made in Italy è sempre molto amato: www.gamberorosso.it.

Infine, uno sguardo al mondo degli eventi di settore: indispensabile ripensarli, coniugando in modi, fino a qualche mese fa inaspettati, fisico e digitale. In questo senso, potrebbe essere interessante la soluzione proposta dalla fiera virtuale Hopwine (www.hopwine.com): dal 18 al 25 maggio gli addetti ai lavori hanno avuto la possibilità  di “visitare” – sul sito della manifestazione – gli stand virtuali di diverse cantine, chattando con i produttori e scegliendo quali vini assaggiare. Hopwine si fa, successivamente, carico di predisporre e inviare, a chi ne ha fatto richiesta, assaggi in mini-bottiglie da 2 cl dei vini dei produttori. Le vinottes, questo il nome dei campioni, sono certificate, semplici da spedire e da riciclare, perché realizzate in PET e chiuse con il tappo a vite. Fra le cantine presenti anche quelle del Consorzio del Chianti Classico. Staremo a vedere se la formula funziona.

– Redazione 26.05.2020

Verdure protagoniste, la sfida dell’abbinamento

Sani, buonissimi, non per forza relegati al ruolo di “contorno”. Le verdure e gli altri prodotti del mondo vegetale – che possono includere, ad esempio, tuberi e radici – sono ingredienti importanti di tanti piatti deliziosi e molto amati, da quelli più freschi e leggeri a quelli più sostanziosi e golosi. Oltre ad essere in molti casi ideali per chi sceglie un regime privo di proteine animali o comunque di carne e pesce, sono perfetti da portare in tavola in ogni occasione. Unica accortezza: seguirne la stagionalità per essere certi di avere prodotti salutari, freschi e nel pieno del loro profilo gustativo e nutrizionale.

Come procedere, però, con gli abbinamenti nel bicchiere? Molti ortaggi, per le loro caratteristiche e per alcune note particolari che emergono nel retrogusto, sono infatti particolarmente complessi da accompagnare al vino. Pensiamo ai carciofi, che sono insieme dolci (al cuore e nel gambo), tannici (dunque amarostici e astringenti) e vegetali. O ai finocchi, che con il loro gusto caratteristico tendono spesso a coprire altre sensazioni incluse quelle del vino scadente o inacidito, da cui il termine “infinocchiare”. Eppure le infinite sfumature frutto di terroir, vitigni e lavoro in vigna e cantina permetto senz’altro di trovare con cosa abbinare anche i piatti a base di verdure.

Cominciamo con la regina delle tavole estive, nata al Sud – dove conosce diverse varianti in base alla regione o alla specifica località – ma ormai amatissima in tutta Italia e oltre: la parmigiana di melanzane. Piatto poderoso, dai sapori forti e decisamente ricco (parliamo naturalmente della versione tradizionale, con le melanzane fritte e abbondante presenza di fiordilatte e formaggio grattugiato) avrà bisogno di trovare nel bicchiere un vino altrettanto strutturato e “muscolare”. Ad esempio il Taurasi Riserva Vigna Grande Cerzito di Quintodecimo, col suo naso speziato in cui le note di ciliege, prugne e cioccolata, si fondono insieme a quelle ferrose date dal suolo irpino e che in bocca risulta estremamente ricco, con tannini setosi e avvolgenti.

Sempre al mondo vegetale, se pure in senso lato (ne sono parassiti e formano un regno a sé stante) e con note e sapori decisamente diversi che portano alla mente bosco e sottobosco, rimandano i funghi. Tantissime le varietà esistenti ma i “principi” sono naturalmente i porcini: buonissimi fritti, arrostiti o crudi in insalata, si prestano anche a diventare ingredienti di piatti appena più complessi come un tortino di porcini e patate con una fonduta di Spress (o Spressa delle Giudicarie), gustoso formaggio Dop del Trentino Alto Adige. In questo caso la scelta più indicata cade su un grande bianco di territorio come lo Chardonnay Troy di Cantina Tramin: un vino che gioca su morbidezza e freschezza con toni di agrume, fiori delicati e frutta secca al naso, mentre in bocca si apre su note di frutta tropicale e un accenno di nocciola, il tutto ben sostenuto da una lunghissima mineralità salina.

Se ci spostiamo invece al mare, e di nuovo alle belle giornate di primavera ed estate, ecco che le zucchine – da molti considerate un ortaggio un po’ scialbo – diventano l’ingrediente principale di uno dei primi piatti più gustosi, per altro adatto anche a chi segue un’alimentazione ovo-latto-vegetariana: gli spaghetti alla Nerano. Nati proprio in un ristorante dell’incantevole baia della Costiera Amalfitana, vedono la dolcezza delle zucchine (fritte ma morbide e non bruciate) ben controbilanciata dalla sapidità dell’intenso Provolone del Monaco, dalla freschezza del basilico e dagli aromi di aglio e pepe nero, che mantecati insieme alla pasta formano una sorta di crema ricca di sapore ma non pesante. Cosa versare nel bicchiere? Facendo un salto da costa a costa, potremmo aprire il Gorgona Bianco di Frescobaldi, nato dalla collaborazione tra la prestigiosa cantina toscana e l’unica isola-penitenziario in Europa, le cui vigne sono lavorate dai detenuti. Uvaggio di vermentino e ansonica, è un vino insieme  fresco e intenso dai sentori tipici della macchia mediterranea (rosmarino salvia, ginepro). In bocca si percepisce una spiccata sapidità, tipica di un vino “isolano”, con accenni di frutta matura e in chiusura lievi note di agrume.

Chiudiamo in bellezza con la frittura, guardando in questo caso all’Oriente e alla tradizione giapponese della tempura, con la tipica pastella a base di farina di riso leggerissima e croccante: zucchine, carote, peperoni e melanzane si prestano particolarmente a questa preparazione (perfetta anche per gamberi e altri crostacei). Quanto all’abbinamento, si può restare sul classico con un’eccellente bolla italiana come il Dequinque di Uberti, Franciacorta DOCG frutto di una cuvée di dieci annate (2002-2011), prodotta esclusivamente in formato magnum: speziato, con un perlage finissimo, si schiude su note agrumate e ha una persistente mineralità iodata che accompagna alla perfezione la vivacità del fritto.
Se invece si preferiscono i carciofi fritti di tradizione italiana, anche in questo caso le bollicine vengono in aiuto offrendo un perfetto abbinamento a quest’ortaggio non facilissimo, come dicevamo. In questo caso, per bilanciarne le note ferrose, potremo scegliere una bolla più morbida come il Bellavista Meraviglioso. Altro Franciacorta DOCG, è una cuvée composta per l’80% di chardonnay e per il 20% di pinot bianco provenienti da sei annate che attraversano oltre trent’anni d’invecchiamento, per poi fondersi e riposare insieme per ulteriori diciotto anni sui lieviti. Al naso si avvertono toni di frutta appena matura, cenni di erbe aromatiche tra cui l’alloro; in bocca è avvolgente e setoso. La sua cremosità ed eleganza sono il frutto di questa lunghissima attesa che rende ogni sorso un viaggio nel tempo. 

– Luciana Squadrilli 19.05.2020

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

La biodiversità: una risorsa nella lotta ai cambiamenti climatici

Già da tempo l’agricoltura si misura con uno scenario climatico differente dal passato: inverni più miti e brevi, estati sempre più calde e siccitose e, nel mezzo, eventi violenti e inaspettati, come gelate primaverili, forti grandinate e alluvioni sempre più frequenti.  Fenomeni che, nel loro insieme, stanno già influenzando qualità e quantità delle nostre produzioni agricole.

In questo contesto, poiché la vite è particolarmente sensibile alle variazioni climatiche, la viticoltura e, con essa, la produzione di vino, rischiano di subire pesanti trasformazioni a causa dell’aumento delle temperature. A dir poco preoccupanti sono le stime di uno studio condotto da un gruppo internazionale di ricercatori, che include studiosi dell’Institut National de la Recherche Agronomiquen (INRA) e del Bordeaux Sciences Agro Institute e i cui risultati sono stati pubblicati a gennaio sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences.

Analizzando l’impatto dei cambiamenti climatici su 11 varietà di vitigni – fra le quali Cabernet Sauvignon, Chardonnay e Pinot Noir – che rappresentano il 35% della superficie coltivata mondiale e più del 64% di quella coltivata in paesi a vocazione vitivinicola come Australia, Cile e Francia, lo studio afferma che – con un aumento atteso della temperatura di 2 °C – entro il 2050 il 56% delle aree vitivinicole del mondo potrebbe scomparire. I paesi più colpiti sarebbero quelli mediterranei come Italia e Spagna, che rischierebbero di perdere, secondo lo studio, circa il 65% dei loro vitigni, “a favore” di paesi come la Nuova Zelanda o gli stati del nord degli USA che, viceversa, potrebbero destinare più terra alla viticoltura.

Lo studio, per fortuna, non si limita a fornire uno scenario futuro piuttosto fosco (almeno per alcuni paesi) ma propone anche una soluzione, che fa affidamento sulla natura stessa e sulla sua resilienza. Nel mappare il comportamento delle 11 varietà in esame, infatti, i ricercatori, hanno sviluppato un modello che analizza e valuta lo sviluppo di ognuna di esse in tre differenti stadi – il germogliamento, la fioritura e l’invaiatura – applicando poi questo modello alle diverse regioni vitivinicole e simulando l’ipotetico aumento della temperatura di 2 °C, con l’obiettivo di capire quali varietà rispondono meglio a questo incremento. Facendo un esempio molto semplice, il Grenache, che matura molto tardi, si comporta molto bene anche in uno scenario climatico molto più caldo di quello attuale, mentre Pinot Noir e Chardonnay, che germogliano presto e hanno l’esigenza di un clima più freddo, potranno in futuro essere coltivati in zone fino a questo momento escluse dalla mappa mondiale del vino. Un fenomeno questo già in corso in parte, se si pensa allo sviluppo recente degli spumanti inglesi e alla scelta lungimirante di Taittinger di acquistare 69 ettari nel Kent, per spostarvi parte della sua produzione di Champagne, investendo sul fatto che, a breve, il sud della Gran Bretagna avrà un clima come quello della Francia settentrionale, con un suolo da sempre molto simile a quello della regione francese.

Lo studio mira a conoscere approfonditamente le capacità adattive delle diverse varietà a un contesto climatico differente da quello attuale, per aiutare il settore vitivinicolo a prepararsi meglio al cambiamento e a ridurre i danni che sicuramente – questo ormai è evidente – esso porterà con sé. Per il futuro, i ricercatori si propongono di studiare anche altre varietà meno diffuse per arrivare a una mappatura più completa.

Mettendo per un istante da parte i dati e le misurazioni scientifiche, l’elemento fondamentale che questo studio mette in evidenza è l’importanza della biodiversità. Sono circa 1.100, infatti, le varietà di vite coltivate attualmente note, un vero patrimonio che rappresenta una risorsa fondamentale nel contrasto al cambiamento climatico, perché può consentire ai viticoltori di diversificare i propri vitigni, guardando soprattutto a quelli autoctoni e alla loro spontanea adattabilità al contesto d’origine, per creare un ecosistema più sano e resistente capace, per questo, di rispondere meglio alle trasformazioni in corso.

Il francese INRA, inoltre, è fautore di un altro importante progetto a supporto della viticoltura del futuro. Si tratta di LACCAVE, lanciato nel 2012 con la collaborazione del Centre National de la Recherche Scientifique e di diverse università francesi con l’obiettivo specifico di fornire strumenti e conoscenze ai viticoltori francesi per fronteggiare il cambiamento climatico. Con un orizzonte temporale piuttosto ampio – fino al 2050 – LACCAVE promuove studi, ricerche e analisi interdisciplinari, che coinvolgono non solo l’enologia e l’agronomia ma anche la climatologia, la genetica, l’ecofisiologia e la matematica.

Infine, per citare un esempio italiano, molto interessante è come si sta muovendo il gruppo Gaja, con la scelta di tenute che si trovano a un’altitudine maggiore (ne sono state acquistate di recente una sull’Etna e una su una zona collinare piemontese) e la selezione di vitigni a bacca bianca del Sud Italia, geneticamente selezionati per convivere con le alte temperature, c’è un test in atto, ad esempio, sulla resa del Fiano nella zona di Bolgheri. Senza dimenticare gli interventi biologici, volti a selezionare flora e fauna che meglio combattono il perdurare delle malattie, come l’innesto del cipresso insieme a una particolare categoria di uccelli per tutelare la salute dei vitigni. Come, infatti, ha sottolineato Gaia Gaja a Wine2Wine 2019, l’aspetto più preoccupante dei cambiamenti climatici riguarda, soprattutto, le malattie della vite e in particolare la loro resistenza ai trattamenti, che sembra essere supportata dalle alte temperature. Mentre il calore non compromette direttamente la qualità del vino (anzi gli può dare struttura) rendendo necessario, al massimo, qualche mirato intervento in cantina a supporto della bevibilità. Un sospiro di sollievo per tutti!

Signature Dishes That Matter

La storia della gastronomia in 240 piatti iconici

Considerato dal Times come il miglior food book del 2019, Signature Dishes That Matter ripercorre la  gastronomia internazionale attraverso le storie di 240 piatti e delle persone che li hanno ideati.

Il fascino di questa raccolta sta nella scelta di mescolare alta cucina e ricette popolari, sperimentazione culinaria di alto rango e casual dining per raccontare pietanze entrate nell’immaginario collettivo e diventate simboli di epoche, trend culinari e stili di vita.

Si va dal mitico Pastrami Sandwich di Katz’s (New York) – diventato ancora più mitico, se è possibile, grazie a Harry ti presento Sally – al Carpaccio dell’Harry’s Bar di Arrigo Cipriani, dalla Pesca Melba, inventata dal leggendario Auguste Escoffier fino alle Olive Liquide di Ferran Adrià, che hanno segnato la nascita “ufficiale” della Cucina Molecolare. E ancora, il Club Sandwich del Saratoga Club House, la storica Pizza Margherita di Raffaele Esposito e il Ceviche di Pedro Solari.

La curatela del libro è di Christine Muhlke – editor-at-large di Bon Appétit – e di tanti altri food writer, fra i quali spicca anche il nome dell’italiano Andrea Petrini, ideatore di Gelinaz, la jam-session gastronomica che nell’edizione del 2019 ha coinvolto 38 paesi, 138 ristoranti, 148 chef per 700 ore di cucina e 2200 ricette in streaming.

Le illustrazioni sono di Adriano Rampazzo.

Susan Jung, Howie Kahn, Christine Muhlke, Pat Nourse, Andrea Petrini, Diego Salazar, and Richard Vines, Signature Dishes That Matter. Con le illustrazioni di Adriano Rampazzo – 2019, Phaidon

– Redazione 05.05.2020