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The Winefully Magazine

I fine wines fra investimento e collezionismo – Parte Seconda

Qualche tempo fa, nel nostro articolo “I Fine Wines tra Investimento e Collezionismo – Parte Prima” abbiamo affrontato una serie di aspetti legati all’appeal dei vini pregiati nei confronti di coloro che non mettono la degustazione di un vino, di un’annata o di un formato specifico necessariamente in cima alle loro preferenze ma che, invece, preferiscono concentrarsi su aspetti diversi che hanno sempre come comune denominatore il vino ricercato, famoso, limitato e per certi versi anche atto a divenire prodotto speculativo.

Come abbiamo visto, l’argomento vini pregiati presenta una serie di criticità da considerare ed affrontare prima di iniziare la propria attività di acquisto. Una volta completato l’iter preparatorio e rese disponibili le necessarie risorse del caso, ci si deve confrontare con la domanda più difficile: da dove cominciare?

Le risposte sono ovviamente molteplici, forse anche infinite: più ampia è la scelta e le potenziali combinazioni, più si palesa la necessità di applicare un necessario pragmatismo all’argomento per non farsi prendere la mano dal tentacolare mondo del vino da investimento.

Sebbene esistano una serie di strumenti a supporto di chi si avvicina a tale dimensione con l’idea di divesificare i propri investimenti, mettere in atto manovre speculative o a fini di genuino collezionismo, questi non sono sempre accessibili a tutti. Esistono infatti piattaforme dedicate alla compravendita di qualunque tipo di vino, anche pregiato, su base cartone o cassa completa, in quantità da limtate a grandi, dove giornalmente si confrontano venditori ed acquirenti di tutto il mondo per lo più legati al mondo B2B, in un contesto di barriere di costo all’entrata. Certo, si può sicuramente fare a meno di quanto sopra e seguire un approccio più semplice ed alla portata di tutti, tramite l’utilizzo di social o di siti dedicati che permettono il confronto tradizionale tra privati e non, anche sulla base di singole bottiglie. In aggiunta, vi è da tenere in considerazione come le dinamiche di compravendita tipiche dei privati possano differire in funzione del fine stesso dell’investimento, delle risorse disponibili, della propensione al rischio dei singoli oltre che di personalissime sensazioni, preferenze e considerazioni, proprie o fatte tali dal confronto con terzi o dalla pubblicazione di guide e punteggi della critica internazionale, storicamente con un ruolo più che rilevante nell’influenzare le scelte di chi investe risorse.

Essendo la materia quindi complessa ed approcciabile da più posizioni in funzione delle reali necessità del compratore, proveremo a semplificare l’argomento il più possibile, focalizzando la nostra attenzione sulla domanda più difficile sopra menzionata e condividendo parte della nostra esperienza maturata sul mercato italiano ed internazionale.

Inevitabilmente ciò porterà a focalizzare l’attenzione su alcune cantine a discapito di altre, sulla cui proposta non vi è nulla da obiettare e nei confronti delle quali non sussiste alcuna preclusione al di là di un dovere di sintesi per contenere la portata di questo nostro contenuto.

Partendo quindi dal Bel Paese e dalle sue innumerevoli produzioni vinicole d’eccellenza, suggeriremmo senza dubbio di focalizzare l’attenzione sulla sigla BBBA+, che non è un rating finanziario, ma solo un comodo acronimo che sta per “Brunello, Barolo, Barbaresco, Amarone” e che lascia il “+” all’interpretazione, oggi poco soggetta a fantasia e più concretamente legata a vini chiamati nella loro prima fase “Supertuscan” e che oggi, grazie agli sforzi di tanti vignaioli effettuati negli ultimi decenni, sono assorti a riferimento per quanto riguarda il vino italiano nel mondo. Iniziando la nostra analisi proprio da quest’ultima categoria, come non menzionare il vero vino iconico nazionale, ciò da cui tanto (tutto?) ebbe inizio, ovvero il Sassicaia di Tenuta San Guido. Nato negli anni sessanta per volere di Mario Incisa della Rocchetta, non vi è annata senza che vi si scateni una corsa all’acquisto in tutti i formati disponibili. Al di là di una qualità ed un’esperienza degustativa ai massimi livelli, il Sassicaia è forse il vino italiano più conosciuto (e scambiato) al mondo, sempre ai massimi livelli della critica internazionale e caratterizzato da una costante crescita delle sue valutazioni, anche a distanza di poco tempo dall’acquisto (che si raccomanda in sede di rilascio annuale, tipicamente tra primo e secondo trimestre di ogni anno).

Un nostro suggerimento spassionato per quanto riguarda il Sassicaia: raccomandiamo di utilizzare esclusivamente canali di acquisto ufficiali essendo anche, e purtroppo, il vino italiano più soggetto a contraffazione.

Ma se San Guido ha fatto grande Bolgheri, grazie al prezioso assist di Giosuè Carducci ed, in primis, della natura stessa, particolarmente generosa in questa parte alta della Maremma, l’avvicendamento tra due famiglie storiche per il vino italiano, Antinori e Frescobaldi, porta a due campioni del bolgherese, Masseto ed Ornellaia, tanto vicini in termini di proprietà quanto diversi come filosofia, terroir, stile produttivo e posizionamento di mercato.

Due etichette iconiche, mai sazie di conquistare il cuore di collezionisti, appassionati ed investitori, rifugio sicuro del capitale investito vista la sempre elevate domanda che li caratterizza ad ogni uscita sul mercato.

Una boutade vuole che un vino il cui nome si conclude in “-aia” sia caratterizzato da un’elevata qualità e sia, in poche parole, una sicurezza, una sorta di bene rifugio: al di là dei tanti altri, eccellenti, vini con la medesima desinenza, è al Solaia di Antinori che si deve guardare dopo gli altrettanto blasonati bolgheresi.

Un vino con caratteristiche ben distinte, proveniente da un territorio diverso come il Chianti Classico dove la Tenuta Tignanello beneficia di un terroir eccezionale sfruttato al meglio dalla famiglia Antinori nel produrre, da vigneti insistenti sulla medesima collina, due eccellenze come, appunto, Solaia e Tignanello, vini di rango nobile sempre fortemente richiesti sul mercato ed apprezzati dalla critica internazionale, talvolta anche con il massimo dei voti. Si sa, la Toscana è una fucina di grandissimi vini, ormai provenienti da molti territori a dimostrazione della vocazione di questa regione e delle grandi capacità dei vignaioli. La lista di cui sopra è senza dubbio riduttiva, non avendo lasciato il meritato spazio a cantine iconiche che negli anni si sono ritagliate un ruolo importantissimo, pensiamo a Montevertine Montevertine, Fontodi, Bibi Graetz, Tenuta di Trinoro, Le Pupille, Castello di Ama, San Giusto a Rentennano, Castellare di Castellina, Le Macchiole, Petrolo, Isole e Olena, Tenuta di Biserno, Monteverro, Tua Rita, Ricasoli, Querciabella, solo per fare qualche nome di realtà che, con uno e più vini, sono riconosciute avere un appeal internazionale

Ma non si può parlare di Toscana senza considerare uno dei borghi medievali più noti nel mondo, quella Montalcino che è contraddistinta dall’essere la capitale del buon bere a base di Sangiovese Grosso, o Brunello.

L’argomento qui si fa senza dubbio vasto e quindi complesso: il Brunello di Montalcino è un vino che da tantissimi anni presenta uno standard qualitativo ai massimi, tanto che sempre più cantine simboleggiano ormai la cittadina, in un sano caleidoscopio fatto di tradizione e di innovazione, di vecchie e nuove generazioni che si passano in testimone fissando nuovi e sempre più ambiziosi traguardi.

Etichette come Biondi Santi, Casanova di Neri, Giodo, Poggio di Sotto, Fuligni, Siro Pacenti, Le Chiuse, Il Marroneto, Castiglion del Bosco, Salvioni, Livio Sassetti, Stella di Campalto, Gianni Brunelli, Pian dell’Orino, Le Potazzine, Castello di Romitorio, Le Ragnaie, Luce della Vite, Il Poggione e Case Basse di Soldera sono sono alcune delle etichette oggi protagoniste dell’offerta ilcinese che, di annata in annata e di riserva in riserva, mantengono alto il nome del capoluogo tra le folte schiere di pretendenti alle ambite bottiglie. Sebbene la Toscana svolge un ruolo chiave nel proporre un’estrema varietà di vini pregiati soggetti a continui acquisti ed investimenti, un’altra regione in grado di proporre una scelta veramente ampia in un fazzoletto di terra compreso tra i comuni di Barolo e Barbaresco, è il Piemonte.

Terra di grandi vini la Langa, con una grandissima tradizione e caratterizzata da una splendida evoluzione negli anni, tanto da proporre oggi un’offerta variegata che ben simboleggia il mix tra una ferrea tradizione ed una ben accetta rivisitazione del Nebbiolo, uva di riferimento nel tempo affiancata dalle altrettanto autoctone Barbera e, talvolta, Freisa.

Riuscire a rendere esaustiva una lista di consigli per l’investimento è impresa ardua in Langa, dove si rischia facilmente di far torto a tanti produttori eccellenti con vigneti appartenenti alla medesima MGA e fisicamente confinanti con quelli di cantine più blasonate, vista la frammentazione delle parcelle soprattutto in quelle zone particolarmente vocate (qualche esempio: Asili, Pajè e Rabajà a Barbaresco, Cannubi a Barolo, Rocche dell’Annunziata e Cerequio a La Morra, Villero e Bricco Boschis a Castiglione Falletto, Mosconi, e Bussia a Monforte d’Alba, Vignarionda e Falletto a Serralunga o Ravera a Novello).

La grande varietà e conseguente frammentazione delle parcelle implicano anche produzioni molto limitate in quei vigneti dove l’unica lingua parlata è la qualità estrema e dove le rese sono volutamente ridotte per estrarre il massimo da ogni singolo acino.

Un riferimento per tale modo di operare è sicuramente Giacomo Conterno, padre di uno dei vini riserva più famosi al mondo, ovvero il Monfortino, ed in grado di produrre opera uniche dai propri cru di Arione, Francia e Cerretta. Non è un eufemismo dire che vi è la fila per avere i vini di Conterno, anzi forse sarebbe da dire che la fila è doppia, se non tripla considerato l’interesse del mercato verso tutti i vini di Conterno a partire dalla sua Barbera d’Alba. Le Langhe hanno vissuto vari periodi in cui generazioni familiari si sono succedute una dopo l’altra, spesso lasciando una propria impronta indelebile nella storia del territorio e dell’offerta vinicola: è questo il caso della cantina Gaja, dove la quarta generazione guidata da Angelo ha decisamente cambiato l’enologia delle Langhe attraverso importanti innovazioni che hanno portato l’intera produzione di questa cantina ai massimi livelli mondiali, tanto da essere continuamente ricercata e scambiata.

Ogni produttore storico attivo tra Barolo e Barbaresco è custode della storia e dell’eccellenza di queste terre, vocate a vino di qualità noto in tutto il mondo: menzionarne uno piuttosto che un altro è impresa ardua, avendo a disposizione un mix di campioni assoluti. Nomi come Luciano Sandrone, Vietti, Bartolo Mascarello, Roberto Voerzio, Elio Grasso, Rinaldi, Paolo Scavino, Domenico Clerico, Giuseppe Mascarello, Bruno Giacosa, Aldo Conterno, Lorenzo Accomasso, Roagna, G.D. Vajra, Cavallotto, Pio Cesare, Burlotto o Borgogno sono tutte cantine che, nell’arco degli anni, hanno prodotto vini straordinari e che ancora oggi vedono una domanda per le loro eccellenze superare, e non di poco, l’offerta, spesso sempre più contenuta.

Pregi tra i produttori piemontesi ve ne sono tanti, difetti…beh, forse la troppa scelta!

Concludiamo la nostra carrellata tra i vini più rappresentativi dello stivale con una zona all’interno della quale svettano due campioni assoluti in grado di domare al meglio un vino così importante come l’Amarone della Valpolicella: Giuseppe Quintarelli e Romano Dal Forno: da sempre oggetto dell’interesse di collezionisti ed anche investitori, questi due produttori, che nel tempo sono stati affiancati da altre eccellenze che prendono sempre più piede sul mercato, rimangono due alfieri ben rappresentativi di un territorio vario, vasto, dove il mix di uve e le tecniche di affinamento permettono la realizzazione di vini eccezionali, e non parliamo solo di Amarone bensì anche di Valpolicella Superiore e Recioto.

Come introdotto nella premessa, il territorio italiano è sicuramente complesso e l’elevatissima qualità media del vino prodotto non rende per nulla facile un riassunto schematico di quelli che riteniamo, per certi versi, i campioni nazionali.

La nostra narrazione non ambisce infatti ad essere esaustiva, anzi ci aspettiamo di aver tralasciato nomi blasonati, che confidiamo non ce ne vogliano, e di aver sorvolato su tante zone emergenti di sicuro interesse e potenziale.

Speriamo comunque che il lettore possa beneficiare di questo nostro intervento, confermando la perpetua disponibilità da parte del Team di Winefully ad analizzare e comprendere appieno necessità ed aspettative dei nostri clienti.

Qualche tempo fa, nel nostro articolo “I Fine Wines tra Investimento e Collezionismo – Parte Prima” abbiamo affrontato una serie di aspetti legati all’appeal dei vini pregiati nei confronti di coloro che non mettono la degustazione di un vino, di un’annata o di un formato specifico necessariamente in cima alle loro preferenze ma che, invece, preferiscono concentrarsi su aspetti diversi che hanno sempre come comune denominatore il vino ricercato, famoso, limitato e per certi versi anche atto a divenire prodotto speculativo.

Come abbiamo visto, l’argomento vini pregiati presenta una serie di criticità da considerare ed affrontare prima di iniziare la propria attività di acquisto. Una volta completato l’iter preparatorio e rese disponibili le necessarie risorse del caso, ci si deve confrontare con la domanda più difficile: da dove cominciare?

Le risposte sono ovviamente molteplici, forse anche infinite: più ampia è la scelta e le potenziali combinazioni, più si palesa la necessità di applicare un necessario pragmatismo all’argomento per non farsi prendere la mano dal tentacolare mondo del vino da investimento.

Sebbene esistano una serie di strumenti a supporto di chi si avvicina a tale dimensione con l’idea di divesificare i propri investimenti, mettere in atto manovre speculative o a fini di genuino collezionismo, questi non sono sempre accessibili a tutti. Esistono infatti piattaforme dedicate alla compravendita di qualunque tipo di vino, anche pregiato, su base cartone o cassa completa, in quantità da limtate a grandi, dove giornalmente si confrontano venditori ed acquirenti di tutto il mondo per lo più legati al mondo B2B, in un contesto di barriere di costo all’entrata. Certo, si può sicuramente fare a meno di quanto sopra e seguire un approccio più semplice ed alla portata di tutti, tramite l’utilizzo di social o di siti dedicati che permettono il confronto tradizionale tra privati e non, anche sulla base di singole bottiglie. In aggiunta, vi è da tenere in considerazione come le dinamiche di compravendita tipiche dei privati possano differire in funzione del fine stesso dell’investimento, delle risorse disponibili, della propensione al rischio dei singoli oltre che di personalissime sensazioni, preferenze e considerazioni, proprie o fatte tali dal confronto con terzi o dalla pubblicazione di guide e punteggi della critica internazionale, storicamente con un ruolo più che rilevante nell’influenzare le scelte di chi investe risorse.

Essendo la materia quindi complessa ed approcciabile da più posizioni in funzione delle reali necessità del compratore, proveremo a semplificare l’argomento il più possibile, focalizzando la nostra attenzione sulla domanda più difficile sopra menzionata e condividendo parte della nostra esperienza maturata sul mercato italiano ed internazionale.

Inevitabilmente ciò porterà a focalizzare l’attenzione su alcune cantine a discapito di altre, sulla cui proposta non vi è nulla da obiettare e nei confronti delle quali non sussiste alcuna preclusione al di là di un dovere di sintesi per contenere la portata di questo nostro contenuto.

Partendo quindi dal Bel Paese e dalle sue innumerevoli produzioni vinicole d’eccellenza, suggeriremmo senza dubbio di focalizzare l’attenzione sulla sigla BBBA+, che non è un rating finanziario, ma solo un comodo acronimo che sta per “Brunello, Barolo, Barbaresco, Amarone” e che lascia il “+” all’interpretazione, oggi poco soggetta a fantasia e più concretamente legata a vini chiamati nella loro prima fase “Supertuscan” e che oggi, grazie agli sforzi di tanti vignaioli effettuati negli ultimi decenni, sono assorti a riferimento per quanto riguarda il vino italiano nel mondo. Iniziando la nostra analisi proprio da quest’ultima categoria, come non menzionare il vero vino iconico nazionale, ciò da cui tanto (tutto?) ebbe inizio, ovvero il Sassicaia di Tenuta San Guido. Nato negli anni sessanta per volere di Mario Incisa della Rocchetta, non vi è annata senza che vi si scateni una corsa all’acquisto in tutti i formati disponibili. Al di là di una qualità ed un’esperienza degustativa ai massimi livelli, il Sassicaia è forse il vino italiano più conosciuto (e scambiato) al mondo, sempre ai massimi livelli della critica internazionale e caratterizzato da una costante crescita delle sue valutazioni, anche a distanza di poco tempo dall’acquisto (che si raccomanda in sede di rilascio annuale, tipicamente tra primo e secondo trimestre di ogni anno).

Un nostro suggerimento spassionato per quanto riguarda il Sassicaia: raccomandiamo di utilizzare esclusivamente canali di acquisto ufficiali essendo anche, e purtroppo, il vino italiano più soggetto a contraffazione.

Ma se San Guido ha fatto grande Bolgheri, grazie al prezioso assist di Giosuè Carducci ed, in primis, della natura stessa, particolarmente generosa in questa parte alta della Maremma, l’avvicendamento tra due famiglie storiche per il vino italiano, Antinori e Frescobaldi, porta a due campioni del bolgherese, Masseto ed Ornellaia, tanto vicini in termini di proprietà quanto diversi come filosofia, terroir, stile produttivo e posizionamento di mercato.

Due etichette iconiche, mai sazie di conquistare il cuore di collezionisti, appassionati ed investitori, rifugio sicuro del capitale investito vista la sempre elevate domanda che li caratterizza ad ogni uscita sul mercato.

Una boutade vuole che un vino il cui nome si conclude in “-aia” sia caratterizzato da un’elevata qualità e sia, in poche parole, una sicurezza, una sorta di bene rifugio: al di là dei tanti altri, eccellenti, vini con la medesima desinenza, è al Solaia di Antinori che si deve guardare dopo gli altrettanto blasonati bolgheresi.

Un vino con caratteristiche ben distinte, proveniente da un territorio diverso come il Chianti Classico dove la Tenuta Tignanello beneficia di un terroir eccezionale sfruttato al meglio dalla famiglia Antinori nel produrre, da vigneti insistenti sulla medesima collina, due eccellenze come, appunto, Solaia e Tignanello, vini di rango nobile sempre fortemente richiesti sul mercato ed apprezzati dalla critica internazionale, talvolta anche con il massimo dei voti. Si sa, la Toscana è una fucina di grandissimi vini, ormai provenienti da molti territori a dimostrazione della vocazione di questa regione e delle grandi capacità dei vignaioli. La lista di cui sopra è senza dubbio riduttiva, non avendo lasciato il meritato spazio a cantine iconiche che negli anni si sono ritagliate un ruolo importantissimo, pensiamo a Montevertine Montevertine, Fontodi, Bibi Graetz, Tenuta di Trinoro, Le Pupille, Castello di Ama, San Giusto a Rentennano, Castellare di Castellina, Le Macchiole, Petrolo, Isole e Olena, Tenuta di Biserno, Monteverro, Tua Rita, Ricasoli, Querciabella, solo per fare qualche nome di realtà che, con uno e più vini, sono riconosciute avere un appeal internazionale

Ma non si può parlare di Toscana senza considerare uno dei borghi medievali più noti nel mondo, quella Montalcino che è contraddistinta dall’essere la capitale del buon bere a base di Sangiovese Grosso, o Brunello.

L’argomento qui si fa senza dubbio vasto e quindi complesso: il Brunello di Montalcino è un vino che da tantissimi anni presenta uno standard qualitativo ai massimi, tanto che sempre più cantine simboleggiano ormai la cittadina, in un sano caleidoscopio fatto di tradizione e di innovazione, di vecchie e nuove generazioni che si passano in testimone fissando nuovi e sempre più ambiziosi traguardi.

Etichette come Biondi Santi, Casanova di Neri, Giodo, Poggio di Sotto, Fuligni, Siro Pacenti, Le Chiuse, Il Marroneto, Castiglion del Bosco, Salvioni, Livio Sassetti, Stella di Campalto, Gianni Brunelli, Pian dell’Orino, Le Potazzine, Castello di Romitorio, Le Ragnaie, Luce della Vite, Il Poggione e Case Basse di Soldera sono sono alcune delle etichette oggi protagoniste dell’offerta ilcinese che, di annata in annata e di riserva in riserva, mantengono alto il nome del capoluogo tra le folte schiere di pretendenti alle ambite bottiglie. Sebbene la Toscana svolge un ruolo chiave nel proporre un’estrema varietà di vini pregiati soggetti a continui acquisti ed investimenti, un’altra regione in grado di proporre una scelta veramente ampia in un fazzoletto di terra compreso tra i comuni di Barolo e Barbaresco, è il Piemonte.

Terra di grandi vini la Langa, con una grandissima tradizione e caratterizzata da una splendida evoluzione negli anni, tanto da proporre oggi un’offerta variegata che ben simboleggia il mix tra una ferrea tradizione ed una ben accetta rivisitazione del Nebbiolo, uva di riferimento nel tempo affiancata dalle altrettanto autoctone Barbera e, talvolta, Freisa.

Riuscire a rendere esaustiva una lista di consigli per l’investimento è impresa ardua in Langa, dove si rischia facilmente di far torto a tanti produttori eccellenti con vigneti appartenenti alla medesima MGA e fisicamente confinanti con quelli di cantine più blasonate, vista la frammentazione delle parcelle soprattutto in quelle zone particolarmente vocate (qualche esempio: Asili, Pajè e Rabajà a Barbaresco, Cannubi a Barolo, Rocche dell’Annunziata e Cerequio a La Morra, Villero e Bricco Boschis a Castiglione Falletto, Mosconi, e Bussia a Monforte d’Alba, Vignarionda e Falletto a Serralunga o Ravera a Novello).

La grande varietà e conseguente frammentazione delle parcelle implicano anche produzioni molto limitate in quei vigneti dove l’unica lingua parlata è la qualità estrema e dove le rese sono volutamente ridotte per estrarre il massimo da ogni singolo acino.

Un riferimento per tale modo di operare è sicuramente Giacomo Conterno, padre di uno dei vini riserva più famosi al mondo, ovvero il Monfortino, ed in grado di produrre opera uniche dai propri cru di Arione, Francia e Cerretta. Non è un eufemismo dire che vi è la fila per avere i vini di Conterno, anzi forse sarebbe da dire che la fila è doppia, se non tripla considerato l’interesse del mercato verso tutti i vini di Conterno a partire dalla sua Barbera d’Alba. Le Langhe hanno vissuto vari periodi in cui generazioni familiari si sono succedute una dopo l’altra, spesso lasciando una propria impronta indelebile nella storia del territorio e dell’offerta vinicola: è questo il caso della cantina Gaja, dove la quarta generazione guidata da Angelo ha decisamente cambiato l’enologia delle Langhe attraverso importanti innovazioni che hanno portato l’intera produzione di questa cantina ai massimi livelli mondiali, tanto da essere continuamente ricercata e scambiata.

Ogni produttore storico attivo tra Barolo e Barbaresco è custode della storia e dell’eccellenza di queste terre, vocate a vino di qualità noto in tutto il mondo: menzionarne uno piuttosto che un altro è impresa ardua, avendo a disposizione un mix di campioni assoluti. Nomi come Luciano Sandrone, Vietti, Bartolo Mascarello, Roberto Voerzio, Elio Grasso, Rinaldi, Paolo Scavino, Domenico Clerico, Giuseppe Mascarello, Bruno Giacosa, Aldo Conterno, Lorenzo Accomasso, Roagna, G.D. Vajra, Cavallotto, Pio Cesare, Burlotto o Borgogno sono tutte cantine che, nell’arco degli anni, hanno prodotto vini straordinari e che ancora oggi vedono una domanda per le loro eccellenze superare, e non di poco, l’offerta, spesso sempre più contenuta.

Pregi tra i produttori piemontesi ve ne sono tanti, difetti…beh, forse la troppa scelta!

Concludiamo la nostra carrellata tra i vini più rappresentativi dello stivale con una zona all’interno della quale svettano due campioni assoluti in grado di domare al meglio un vino così importante come l’Amarone della Valpolicella: Giuseppe Quintarelli e Romano Dal Forno: da sempre oggetto dell’interesse di collezionisti ed anche investitori, questi due produttori, che nel tempo sono stati affiancati da altre eccellenze che prendono sempre più piede sul mercato, rimangono due alfieri ben rappresentativi di un territorio vario, vasto, dove il mix di uve e le tecniche di affinamento permettono la realizzazione di vini eccezionali, e non parliamo solo di Amarone bensì anche di Valpolicella Superiore e Recioto.

Come introdotto nella premessa, il territorio italiano è sicuramente complesso e l’elevatissima qualità media del vino prodotto non rende per nulla facile un riassunto schematico di quelli che riteniamo, per certi versi, i campioni nazionali.

La nostra narrazione non ambisce infatti ad essere esaustiva, anzi ci aspettiamo di aver tralasciato nomi blasonati, che confidiamo non ce ne vogliano, e di aver sorvolato su tante zone emergenti di sicuro interesse e potenziale.

Speriamo comunque che il lettore possa beneficiare di questo nostro intervento, confermando la perpetua disponibilità da parte del Team di Winefully ad analizzare e comprendere appieno necessità ed aspettative dei nostri clienti.

I fine wines fra investimento e collezionismo – Parte Seconda

Qualche tempo fa, nel nostro articolo “I Fine Wines tra Investimento e Collezionismo – Parte Prima” abbiamo affrontato una serie di aspetti legati all’appeal dei vini pregiati nei confronti di coloro che non mettono la degustazione di un vino, di un’annata o di un formato specifico necessariamente in cima alle loro preferenze ma che, invece, preferiscono concentrarsi su aspetti diversi che hanno sempre come comune denominatore il vino ricercato, famoso, limitato e per certi versi anche atto a divenire prodotto speculativo.

Come abbiamo visto, l’argomento vini pregiati presenta una serie di criticità da considerare ed affrontare prima di iniziare la propria attività di acquisto. Una volta completato l’iter preparatorio e rese disponibili le necessarie risorse del caso, ci si deve confrontare con la domanda più difficile: da dove cominciare?

Le risposte sono ovviamente molteplici, forse anche infinite: più ampia è la scelta e le potenziali combinazioni, più si palesa la necessità di applicare un necessario pragmatismo all’argomento per non farsi prendere la mano dal tentacolare mondo del vino da investimento.

Sebbene esistano una serie di strumenti a supporto di chi si avvicina a tale dimensione con l’idea di divesificare i propri investimenti, mettere in atto manovre speculative o a fini di genuino collezionismo, questi non sono sempre accessibili a tutti. Esistono infatti piattaforme dedicate alla compravendita di qualunque tipo di vino, anche pregiato, su base cartone o cassa completa, in quantità da limtate a grandi, dove giornalmente si confrontano venditori ed acquirenti di tutto il mondo per lo più legati al mondo B2B, in un contesto di barriere di costo all’entrata. Certo, si può sicuramente fare a meno di quanto sopra e seguire un approccio più semplice ed alla portata di tutti, tramite l’utilizzo di social o di siti dedicati che permettono il confronto tradizionale tra privati e non, anche sulla base di singole bottiglie. In aggiunta, vi è da tenere in considerazione come le dinamiche di compravendita tipiche dei privati possano differire in funzione del fine stesso dell’investimento, delle risorse disponibili, della propensione al rischio dei singoli oltre che di personalissime sensazioni, preferenze e considerazioni, proprie o fatte tali dal confronto con terzi o dalla pubblicazione di guide e punteggi della critica internazionale, storicamente con un ruolo più che rilevante nell’influenzare le scelte di chi investe risorse.

Essendo la materia quindi complessa ed approcciabile da più posizioni in funzione delle reali necessità del compratore, proveremo a semplificare l’argomento il più possibile, focalizzando la nostra attenzione sulla domanda più difficile sopra menzionata e condividendo parte della nostra esperienza maturata sul mercato italiano ed internazionale.

Inevitabilmente ciò porterà a focalizzare l’attenzione su alcune cantine a discapito di altre, sulla cui proposta non vi è nulla da obiettare e nei confronti delle quali non sussiste alcuna preclusione al di là di un dovere di sintesi per contenere la portata di questo nostro contenuto.

Partendo quindi dal Bel Paese e dalle sue innumerevoli produzioni vinicole d’eccellenza, suggeriremmo senza dubbio di focalizzare l’attenzione sulla sigla BBBA+, che non è un rating finanziario, ma solo un comodo acronimo che sta per “Brunello, Barolo, Barbaresco, Amarone” e che lascia il “+” all’interpretazione, oggi poco soggetta a fantasia e più concretamente legata a vini chiamati nella loro prima fase “Supertuscan” e che oggi, grazie agli sforzi di tanti vignaioli effettuati negli ultimi decenni, sono assorti a riferimento per quanto riguarda il vino italiano nel mondo. Iniziando la nostra analisi proprio da quest’ultima categoria, come non menzionare il vero vino iconico nazionale, ciò da cui tanto (tutto?) ebbe inizio, ovvero il Sassicaia di Tenuta San Guido. Nato negli anni sessanta per volere di Mario Incisa della Rocchetta, non vi è annata senza che vi si scateni una corsa all’acquisto in tutti i formati disponibili. Al di là di una qualità ed un’esperienza degustativa ai massimi livelli, il Sassicaia è forse il vino italiano più conosciuto (e scambiato) al mondo, sempre ai massimi livelli della critica internazionale e caratterizzato da una costante crescita delle sue valutazioni, anche a distanza di poco tempo dall’acquisto (che si raccomanda in sede di rilascio annuale, tipicamente tra primo e secondo trimestre di ogni anno).

Un nostro suggerimento spassionato per quanto riguarda il Sassicaia: raccomandiamo di utilizzare esclusivamente canali di acquisto ufficiali essendo anche, e purtroppo, il vino italiano più soggetto a contraffazione.

Ma se San Guido ha fatto grande Bolgheri, grazie al prezioso assist di Giosuè Carducci ed, in primis, della natura stessa, particolarmente generosa in questa parte alta della Maremma, l’avvicendamento tra due famiglie storiche per il vino italiano, Antinori e Frescobaldi, porta a due campioni del bolgherese, Masseto ed Ornellaia, tanto vicini in termini di proprietà quanto diversi come filosofia, terroir, stile produttivo e posizionamento di mercato.

Due etichette iconiche, mai sazie di conquistare il cuore di collezionisti, appassionati ed investitori, rifugio sicuro del capitale investito vista la sempre elevate domanda che li caratterizza ad ogni uscita sul mercato.

Una boutade vuole che un vino il cui nome si conclude in “-aia” sia caratterizzato da un’elevata qualità e sia, in poche parole, una sicurezza, una sorta di bene rifugio: al di là dei tanti altri, eccellenti, vini con la medesima desinenza, è al Solaia di Antinori che si deve guardare dopo gli altrettanto blasonati bolgheresi.

Un vino con caratteristiche ben distinte, proveniente da un territorio diverso come il Chianti Classico dove la Tenuta Tignanello beneficia di un terroir eccezionale sfruttato al meglio dalla famiglia Antinori nel produrre, da vigneti insistenti sulla medesima collina, due eccellenze come, appunto, Solaia e Tignanello, vini di rango nobile sempre fortemente richiesti sul mercato ed apprezzati dalla critica internazionale, talvolta anche con il massimo dei voti. Si sa, la Toscana è una fucina di grandissimi vini, ormai provenienti da molti territori a dimostrazione della vocazione di questa regione e delle grandi capacità dei vignaioli. La lista di cui sopra è senza dubbio riduttiva, non avendo lasciato il meritato spazio a cantine iconiche che negli anni si sono ritagliate un ruolo importantissimo, pensiamo a Montevertine Montevertine, Fontodi, Bibi Graetz, Tenuta di Trinoro, Le Pupille, Castello di Ama, San Giusto a Rentennano, Castellare di Castellina, Le Macchiole, Petrolo, Isole e Olena, Tenuta di Biserno, Monteverro, Tua Rita, Ricasoli, Querciabella, solo per fare qualche nome di realtà che, con uno e più vini, sono riconosciute avere un appeal internazionale

Ma non si può parlare di Toscana senza considerare uno dei borghi medievali più noti nel mondo, quella Montalcino che è contraddistinta dall’essere la capitale del buon bere a base di Sangiovese Grosso, o Brunello.

L’argomento qui si fa senza dubbio vasto e quindi complesso: il Brunello di Montalcino è un vino che da tantissimi anni presenta uno standard qualitativo ai massimi, tanto che sempre più cantine simboleggiano ormai la cittadina, in un sano caleidoscopio fatto di tradizione e di innovazione, di vecchie e nuove generazioni che si passano in testimone fissando nuovi e sempre più ambiziosi traguardi.

Etichette come Biondi Santi, Casanova di Neri, Giodo, Poggio di Sotto, Fuligni, Siro Pacenti, Le Chiuse, Il Marroneto, Castiglion del Bosco, Salvioni, Livio Sassetti, Stella di Campalto, Gianni Brunelli, Pian dell’Orino, Le Potazzine, Castello di Romitorio, Le Ragnaie, Luce della Vite, Il Poggione e Case Basse di Soldera sono sono alcune delle etichette oggi protagoniste dell’offerta ilcinese che, di annata in annata e di riserva in riserva, mantengono alto il nome del capoluogo tra le folte schiere di pretendenti alle ambite bottiglie. Sebbene la Toscana svolge un ruolo chiave nel proporre un’estrema varietà di vini pregiati soggetti a continui acquisti ed investimenti, un’altra regione in grado di proporre una scelta veramente ampia in un fazzoletto di terra compreso tra i comuni di Barolo e Barbaresco, è il Piemonte.

Terra di grandi vini la Langa, con una grandissima tradizione e caratterizzata da una splendida evoluzione negli anni, tanto da proporre oggi un’offerta variegata che ben simboleggia il mix tra una ferrea tradizione ed una ben accetta rivisitazione del Nebbiolo, uva di riferimento nel tempo affiancata dalle altrettanto autoctone Barbera e, talvolta, Freisa.

Riuscire a rendere esaustiva una lista di consigli per l’investimento è impresa ardua in Langa, dove si rischia facilmente di far torto a tanti produttori eccellenti con vigneti appartenenti alla medesima MGA e fisicamente confinanti con quelli di cantine più blasonate, vista la frammentazione delle parcelle soprattutto in quelle zone particolarmente vocate (qualche esempio: Asili, Pajè e Rabajà a Barbaresco, Cannubi a Barolo, Rocche dell’Annunziata e Cerequio a La Morra, Villero e Bricco Boschis a Castiglione Falletto, Mosconi, e Bussia a Monforte d’Alba, Vignarionda e Falletto a Serralunga o Ravera a Novello).

La grande varietà e conseguente frammentazione delle parcelle implicano anche produzioni molto limitate in quei vigneti dove l’unica lingua parlata è la qualità estrema e dove le rese sono volutamente ridotte per estrarre il massimo da ogni singolo acino.

Un riferimento per tale modo di operare è sicuramente Giacomo Conterno, padre di uno dei vini riserva più famosi al mondo, ovvero il Monfortino, ed in grado di produrre opera uniche dai propri cru di Arione, Francia e Cerretta. Non è un eufemismo dire che vi è la fila per avere i vini di Conterno, anzi forse sarebbe da dire che la fila è doppia, se non tripla considerato l’interesse del mercato verso tutti i vini di Conterno a partire dalla sua Barbera d’Alba. Le Langhe hanno vissuto vari periodi in cui generazioni familiari si sono succedute una dopo l’altra, spesso lasciando una propria impronta indelebile nella storia del territorio e dell’offerta vinicola: è questo il caso della cantina Gaja, dove la quarta generazione guidata da Angelo ha decisamente cambiato l’enologia delle Langhe attraverso importanti innovazioni che hanno portato l’intera produzione di questa cantina ai massimi livelli mondiali, tanto da essere continuamente ricercata e scambiata.

Ogni produttore storico attivo tra Barolo e Barbaresco è custode della storia e dell’eccellenza di queste terre, vocate a vino di qualità noto in tutto il mondo: menzionarne uno piuttosto che un altro è impresa ardua, avendo a disposizione un mix di campioni assoluti. Nomi come Luciano Sandrone, Vietti, Bartolo Mascarello, Roberto Voerzio, Elio Grasso, Rinaldi, Paolo Scavino, Domenico Clerico, Giuseppe Mascarello, Bruno Giacosa, Aldo Conterno, Lorenzo Accomasso, Roagna, G.D. Vajra, Cavallotto, Pio Cesare, Burlotto o Borgogno sono tutte cantine che, nell’arco degli anni, hanno prodotto vini straordinari e che ancora oggi vedono una domanda per le loro eccellenze superare, e non di poco, l’offerta, spesso sempre più contenuta.

Pregi tra i produttori piemontesi ve ne sono tanti, difetti…beh, forse la troppa scelta!

Concludiamo la nostra carrellata tra i vini più rappresentativi dello stivale con una zona all’interno della quale svettano due campioni assoluti in grado di domare al meglio un vino così importante come l’Amarone della Valpolicella: Giuseppe Quintarelli e Romano Dal Forno: da sempre oggetto dell’interesse di collezionisti ed anche investitori, questi due produttori, che nel tempo sono stati affiancati da altre eccellenze che prendono sempre più piede sul mercato, rimangono due alfieri ben rappresentativi di un territorio vario, vasto, dove il mix di uve e le tecniche di affinamento permettono la realizzazione di vini eccezionali, e non parliamo solo di Amarone bensì anche di Valpolicella Superiore e Recioto.

Come introdotto nella premessa, il territorio italiano è sicuramente complesso e l’elevatissima qualità media del vino prodotto non rende per nulla facile un riassunto schematico di quelli che riteniamo, per certi versi, i campioni nazionali.

La nostra narrazione non ambisce infatti ad essere esaustiva, anzi ci aspettiamo di aver tralasciato nomi blasonati, che confidiamo non ce ne vogliano, e di aver sorvolato su tante zone emergenti di sicuro interesse e potenziale.

Speriamo comunque che il lettore possa beneficiare di questo nostro intervento, confermando la perpetua disponibilità da parte del Team di Winefully ad analizzare e comprendere appieno necessità ed aspettative dei nostri clienti.

Nicola Biasi: l’importanza di rimettere al centro il territorio

Miglior giovane enologo d’Italia 2021 per Vinoway, premiato come Cult Oenologist per il Merano Wine Festival 2021 (il più giovane di sempre a ricevere questo riconoscimento), nel 2015 il premio Next in Wine di Simonit & Sirch – in collaborazione con Fondazione Italiana Sommelier Bibenda – e un carnet di esperienze professionali davvero ricco, sia come enologo all’interno di numerose aziende, sia come consulente: è il profilo molto (troppo) sintetico di Nicola Biasi, talentuoso enologo e vignaiolo che in questa intervista ci racconta come è nato il suo Vin de la Neu e qual è la strada, secondo lui, per raggiungere una reale sostenibilità.

Sia come enologo interno alle aziende, sia come consulente hai lavorato e lavori ancora in zone sicuramente vocate, una su tutte Montalcino. Quando però, si è trattato di fare il tuo vino, hai scelto un territorio non blasonato e, all’apparenza, anche difficile (ndr. Coredo, Trentino). Come mai?

Perché penso che le zone vocate non siano solo quelle “famose” e che non conosciamo ancora tutte le potenzialità dei nostri territori. L’esempio più evidente è proprio quello di Montalcino: è una delle denominazioni storiche italiane ma, in realtà, ha iniziato a fare vino seriamente e a concentrarsi sul Sangiovese solo una quarantina di anni fa. La zona è palesemente vocata e lo è sempre stata evidentemente, quello che è cambiato, nel tempo, è stato il nostro sguardo. Questa deve essere una lezione: bisogna continuare a studiare perché ci sono potenzialmente territori capaci di diventare i nuovi Montalcino.

Ovviamente, non sto dicendo che possiamo iniziare ad allevare vite dappertutto. Ma bisogna mettere il territorio al centro dei nostri pensieri. Cosa intendi? Non è sempre così, secondo te?

Sì e no. Per me il territorio è più importante del vitigno, che deve essere una sorta medium per far emergere il carattere del luogo. È un approccio, lo so, che fa passare in secondo piano il vitigno dal punto di vista dell’espressività organolettica ma che gli dà un’importanza di altro tipo, perché lo fa diventare lo strumento capace di far esprimere nella maniera più compiuta un territorio.

La scelta dello Johanniter per il tuo Vin de la Neu nasce da queste riflessioni, immagino.

Sì. Mi sono anche assunto il rischio di sbagliare ma ero convinto che lo Johanniter fosse il vitigno migliore per Coredo. Siamo in Alta Val di Non, dunque un terreno povero, che tende a farti produrre molto poco e questo eliminava già alcune scelte perché per certi vini il “poco” non è bene, né qualitativamente né quantitativamente. A quelle altitudini, poi, doveva essere per forza un bianco. E poi, volevo che fosse capace di durare nel tempo.

Mettendo insieme tutti questi fattori, sono arrivato allo Johanniter, perché ha i geni del Pinot Grigio e del Riesling: da un lato c’è la precocità del primo, di cui ho bisogno in una zona così fredda, dall’altro c’è il Riesling, importante per il potenziale evolutivo del vino.

Il terreno era un terreno di famiglia?

Era la casa dei miei nonni, una volta che sono ritornati in Italia dall’Australia e, per noi, è sempre stata il luogo delle vacanze. Noi vivevamo in Friuli all’epoca e i terreni sono sempre stati dati in affitto e ovviamente destinati alla coltivazione di mele. Dopo cinque anni di lavoro come enologo delle tenute Allegrini in Toscana, avevo voglia di fare un vino mio. Volevo mettermi alla prova e capire se e quanto ero bravo, facendo tutto da solo, senza la struttura di una grande azienda alle spalle. È stato abbastanza naturale guardare a un terreno di famiglia. Ho piantato nel 2012 e la prima annata è stata quella successiva.

Tornando allo Johanniter, quanto ha contato nella scelta il fatto che sia un vitigno PIWI?

Molto perché in questo modo ho praticamente azzerato i trattamenti. È la stata la chiusura del cerchio: fare un vino tutto mio, nel giardino di casa e per giunta realmente sostenibile. Sinceramente mi stimolava molto anche il fatto di provare a fare qualcosa che lì ancora non aveva fatto nessuno. Addirittura, ho scelto lo Johanniter quando ancora non aveva l’autorizzazione, che è arrivata solo nel 2014.

Possiamo già azzardare un bilancio di questo primi nove anni? Come si sta comportando il vitigno?

Innanzitutto, posso smentire molti detrattori dei vitigni resistenti, che sostengono che dopo alcuni anni i PIWI non resistono più alle malattie. Per ora le mie viti funzionano perfettamente dal punto di vista agronomico e sono resistenti. Poi non so cosa succederà da qui a trent’anni ma oggi è così.

Chiaramente, le vigne con qualche anno in più sulle spalle danno dei risultati diversi, i vini stanno migliorando costantemente, acquisendo col tempo una maggiore profondità organolettica. Ma fin da subito ho avuto una buonissima risposta, perché le vigne, aiutate dal terreno che le fa produrre poco, hanno sempre dato uve di alta qualità.

Vin de la Neu è una sola etichetta attualmente. Ti piacerebbe sperimentare con altre varietà?

Sono davvero molto soddisfatto di come si comporta lo Johanniter su quel terreno e, prima di tutto, vorrei incrementare la produzione: da 1000 a 2000 bottiglie. Nel 2017 ho piantato ancora perché il primo vigneto era davvero piccolo e nel 2025 amplierò ulteriormente, così arriverò a circa un ettaro di vigna e potrò far crescere la produzione.  Non escludo di piantare altro per capire come si comporta un’altra varietà, ma allo stesso tempo sono certo che farò solo un’etichetta. Forse più in là, Vin de la Neu potrebbe diventare un blend: un’evoluzione di questo tipo potrebbe interessarmi.

Ma è un progetto con una identità così forte e semplice che non voglio snaturarla con altre referenze. Quando la mattina della prima vendemmia – il 12 ottobre 2013 – ci siamo svegliati e tutto ero coperto di neve, ho pensato di aver trovato la mia storia. Il vino si chiama Vin de la Neu per questo motivo.

Con Vin de la Neu volevi fare un bianco capace di invecchiare, grazie anche al ricorso alla fermentazione malolattica. In Italia per i bianchi, tutto sommato, è ancora poco diffusa, perché secondo te?

C’è diffidenza verso la malolattica perché si teme sempre che appesantisca troppo i bianchi, li privi di freschezza. Ma è un pregiudizio, se è ben fatta conferisce stabilità al vino e quindi, al contrario, gli aromi si preservano meglio. Si perde forse qualcosa all’inizio ma in prospettiva si ha un vino bianco che può durare molto nel tempo. In Italia, i bianchi che invecchiano sono ancora troppo pochi e, siccome il potenziale evolutivo è fondamentale per dare valore a un vino, penso che dobbiamo iniziare a farne di più.

Anche per poterci confrontare davvero alla pari con i francesi, andando oltre la gara facile degli ettolitri prodotti o del numero complessivo di bottiglie vendute.

L’eterna rivalità Italia-Francia…

Guarda, io non credo che i francesi siano più bravi di noi a fare vino, credo siano più bravi a vinificare in un modo più adatto per fare vini di valore. Hanno la tranquillità e la forza di lavorare per fare vini che durano. Si sanno far aspettare. Su questo fronte, per me, siamo noi a dover cambiare, se lo vogliamo naturalmente.

Dato che la sostenibilità è una delle chiavi del tuo progetto, ti chiedo cosa rende un’azienda agricola sostenibile?

In fondo è molto semplice: alla fine del suo ciclo deve inquinare poco. Il paradosso, in questo momento, è che un’azienda può essere a tutti gli effetti certificata biologica ma inquinare comunque troppo.

Guardare solo quanti e quali prodotti vengono usati non dice abbastanza delle buone pratiche di un’azienda. Ti faccio un esempio semplice: posso usare solo zolfo e rame ma se poi devo fare più di 20 trattamenti e per ogni trattamento spreco 200 o 300 litri d’acqua l’impatto ambientale è enorme. Senza considerare la CO2 prodotta a ogni intervento. La sostenibilità deve riguardare un’azienda nella sua interezza: ogni passaggio produttivo, ogni singolo gesto quotidiano. E qui torniamo al tuo interesse per le varietà resistenti.

Ho assoluta certezza che le varietà resistenti oggi siano l’unica risposta concreta in viticoltura. Dico “oggi” perché non escludo che fra qualche tempo si scopriranno cose nuove ma allo stato attuale è così.

È per questo che, alla fine di luglio, è nata una rete di impresa che raggruppa le aziende che seguo come consulente e che hanno scelto questa strada. Nello statuto si parla di sostenibilità concreta, di vitigni resistenti, ma non solo, perché noi il focus deve essere, appunto, sulla sostenibilità e non sui mezzi che si usano per raggiungere questo obiettivo. Ogni iniziativa che tende a questo scopo per noi è ben accetta.

A questo punto mi sembra inevitabile chiederti cosa pensi della definizione di “vini naturali”.

A me non piace il termine perché divide in una maniera un po’ manichea i buoni dai cattivi: se sei naturale, sei dalla parte giusta, sennò sei un bandito. E invece le cose sono un po’ più complesse di così.

Inoltre, sono dell’idea che meno si vuole intervenire più si deve conoscere. E, invece, molto spesso – ovviamente non sempre – chi sta sotto il cappello del naturale queste conoscenze non le ha e ricorre all’idea un po’ romantica del vino una volta, del vino del contadino.

Si pensa che il vino sia soggettivo, ma non è così. O meglio, c’è il gusto personale ma prima di questo, per fare un buon prodotto – e questo vale per il vino e per ogni altra cosa – ci sono dei parametri oggettivi che arrivano dalla competenza e dal saper fare. Se un vino ha una volatile che supera le soglie di legge o comunque che devia gli aromi del vino, naturale e meno che sia, non può essere definito buono.

Diciamo che, come nel biologico, forse il naturale è un grande cappello sotto il quale si trova un po’ di tutto.

Ci deve essere un’etica in tutte le scelte che un’azienda compie, ma queste scelte devono essere indirizzate a ottenere un buon vino. Se scelgo il biologico o il biodinamico, lo devo fare non perché è una bandiera ideologica ma perché è il modo di operare che mi consente di fare il miglior vino possibile, nel contesto territoriale e ambientale in cui mi muovo.  È una prospettiva questa sulla quale mi confronto tantissimo anche con le aziende che seguo e che usano i vitigni resistenti.

Per me non ha senso mettere davanti a tutto la scelta dei PIWI, bisogna, invece, partire dalla qualità del vino, che è l’unica cosa, insieme a un approccio etico, che dà senso al nostro lavoro. Immagino che sia per questo che quando parli di Vin de la Neu parli molto poco di PIWI.

Sì, perché io credo molto nel potenziale dei PIWI ma credo anche che l’unico modo per arrivare a una loro diffusione sia quella di fare vini davvero buoni. Dobbiamo convincere i consumatori partendo dalla qualità del vino, è solo così che si può innescare un cambiamento, sennò rimarranno una bella nicchia, animata da valori sostenibili ma troppo piccola per fare la differenza.

All’inizio ho parlato del tuo curriculum molto ricco. Ci vuoi raccontare qualcosa di te?

Sono friulano e mio padre era enologo, dunque sono cresciuto in vigna e in cantina. Dopo la scuola di enologia, ho deciso di iniziare subito a lavorare perché avevo fretta di iniziare a fare. Dopo due vendemmie con Jermann, ho iniziato a lavorare con Patrizia Felluga, per Zuani, dove si facevano solo bianchi ed ero l’unico dipendente. E lì ho potuto mettere mano in tutte la parti del processo, ne avevo bisogno per capire, rendermi davvero conto.

Dopo cinque anni da Zuani, sono andato in Australia, poi una volta tornato ho lavorato per qualche mese al Castello di Fonterutoli e poi sono andato in Sud Africa. Qui mi ha chiamato Marilisa Allegrini per propormi di seguire Poggio San Polo. Non potevo rifiutare e, successivamente, ho iniziato a occuparmi anche di Poggio al Tesoro.

A Marilisa devo moltissimo ma dopo qualche anno avevo, di nuovo, bisogno di cambiare: prima ho piantato la vigna a Coredo e poi nel 2016 ho deciso di fare il consulente, mi piaceva l’idea di lavorare contemporaneamente su territori diversi. Nel 2021, in piena pandemia, ho creato la Nicola Biasi Consulting una società di consulenze per le aziende che fanno vino. L’obbiettivo è di poterle seguire a 360 gradi, collaborando con professionisti dalla formazione specifica.

Un’ultima domanda: fai anche parte del progetto Wine Research Team. Di cosa vi occupate?

È una rete d’impresa voluta da Riccardo Cotarella nel 2012 e composta da quaranta aziende che fanno ricerca e sperimentazione in viticoltura ed enologia. È una sorta di snodo fra l’università e le aziende. Diciamo che cerchiamo di trovare applicazioni pratiche, sperimentando sul territorio, tecnicamente, quanto studiato dalle università o dagli enti di ricerca scientifica.  E le soluzioni che troviamo sono messe a disposizione delle aziende associate. È un lavoro per me molto bello, molto stimolante e che ci sta dando grandissime soddisfazioni.

Quattro brindisi (in rosa) per la nostra estate

È uno dei trend di mercato degli ultimi anni: finalmente – diciamo noi – le bollicine rosate iniziano ad avere il successo che meritano; certo, siamo ancora lontanissimi dai grandi numeri dei bianchi – che forse rimarranno irraggiungibili – ma gradualmente i rosé stanno uscendo dalla nicchia, attirando un numero sempre maggiore di estimatori. Una delle ragioni di questo nuovo interesse risiede probabilmente nella versatilità: il panorama delle bolle rosate, infatti, è così variegato per carattere ed espressività (e anche fasce di prezzo) che è possibile trovare un rosé giusto per ogni circostanza. E così abbandonando una volta per tutte l’obsoleto cliché del “vino da donne” e abbracciando le tante sfaccettature di questa tipologia di vini, si scopre che uno spumante rosé può essere un ottimo vino a tutto pasto – di pesce ma anche di carne, con i giusti abbinamenti – e che d’estate quel mix seducente di struttura e morbidezza, in proporzioni variabili a seconda dei casi, può essere un rinfrescante antidoto al caldo afoso.

Calendario alla mano, quale momento più propizio di questo, dunque, per proporvi quattro eccellenti bollicine per accompagnare le vostre vacanze? Uberti – Francesco I Franciacorta Rosé Brut. La bollicina rosata di Uberti fa parte della linea dedicata a Francesco I, un omaggio al re francese che – secondo la tradizione – nel Cinquecento decise di sostenere la produzione di vini spumanti, fino a quel momento poco diffusi perché considerati “difettosi”.

È una cuvée di Chardonnay (60%) e Pinot Noir (40%) che, con il suo piacevole color rosa confetto dai riflessi aranciati, declina in rosa la filosofia territoriale della famiglia Uberti. Le uve sono raccolte manualmente, sottoposte a una rigorosa selezione, per poi attraversare percorsi di vinificazione differenti – il Pinot Noir, infatti, sosta per qualche giorno a contatto con le bucce – ed essere infine assemblati. Dopo il tiraggio, Francesco I Rosé trascorre un minimo di trenta mesi sui lieviti prima della sboccatura e altri sei mesi in bottiglia prima del rilascio al pubblico. Il risultato è una bollicina fruttata e di grande morbidezza, non priva di freschezza e mineralità e, per questo, di un’eleganza pulita e bilanciata, come sempre accade con i vini di Uberti.

Ci piace perché: è una bollicina versatile, capace di intercettare il gusto contemporaneo senza rinunciare al proprio carattere elegante e identitario. Un rosé dalla beva facile ma non banale, perfetto per uno spensierato aperitivo estivo o per accompagnare un’intera cena vista mare. Ferrari – Giulio Ferrari Riserva del Fondatore Rosé 2008. Presentata alla fine del 2020, l’annata 2008 del Giulio Ferrari Rosé è solo la terza rilasciata sul mercato di questa riserva anagraficamente giovane ma già considerata un’icona delle bollicine italiane rosate. Il rosé alla maniera di Ferrari esalta il Pinot Noir di montagna, che costituisce il 70% del blend e che, grazie all’affinamento di dieci anni sui lieviti, si fonde armoniosamente con lo Chardonnay, in una sintesi elegante e finissima delle migliori uve destinate alle riserve dell’azienda.

Color salmone con riflessi ramati e un perlage fine e persistente, l’annata 2008 trasmette una vibrante intensità da subito, grazie al suo bouquet olfattivo complesso, nel quale le note agrumate si fondono con quelle fruttate di fragola e tamarindo, accenni speziati e note minerali di iodio e calcare. L’assaggio è strutturato e potente e allo stesso tempo lungo ed equilibrato, guidato dal filo rosso della freschezza, che costituisce l’inconfondibile cifra stilistica di casa Ferrari.

Ci piace perché: per tutti coloro che amano la freschezza e la mineralità delle bollicine di montagna, ma anche la struttura del rosé, Giulio Ferrari Rosé è quasi la bottiglia perfetta, la quadratura del cerchio che armonizza con eleganza questi due mondi. Un Trentodoc di grande carattere, che sicuramente può essere il brillante compagno di un’intera cena a base di pesce; il nostro consiglio, però, è di osare e lasciarvi sorprendere da abbinamenti più insoliti. Non vi deluderà. Dom Pérignon – Rosé Vintage 2006. Un mito nel mito, se è possibile. Un grande vino che nasce da uve provenienti da alcuni dei più prestigiosi Grand Cru e Premier Cru della Champagne e che viene prodotto, naturalmente, solo nelle annate migliori. Protagonista assoluto, il Pinot Noir che, supportato dall’immancabile Chardonnay e parzialmente vinificato in rosso, dona a questa riserva la struttura tannica che la rende unica.

Più di dieci anni di affinamento sui lieviti nobilitano questo champagne, che la stessa maison ha definito “paradossale” per l’equilibrio che riesce a raggiungere tra poli opposti: maturità e giovinezza, essenzialità ed espressività.

Vincent Chaperon – Chef de Cave di Dom Pérignon dal 2019, dopo tanti anni passati al fianco del grande Richard Geoffroy – dice a proposito del Rosé e dell’annata 2006 in particolare: «Trasgredisce le regole e ci mostra sicuramente una doppia anima: quella tenace, che viene fuori grazie alla forza sorprendente del vino rosso fermo e quella leggiadra e armonica che ci riporta nel cuore della produzione della Champagne. Trovare questo equilibrio è sempre una sfida. Fare il Rosé ci proietta sempre in una situazione di pericolo. Che solo con l’assaggio, dopo un lungo affinamento in bottiglia, viene scongiurato».

Ci piace perché: come potrebbe non piacerci? Siamo al cospetto di un vero capolavoro, che offre un’esperienza sensoriale intensissima. Con crostacei e crudi di mare è pura sensualità ma il consiglio migliore arriva da Chaperon che suggerisce di assaggiare il Rosé Vintage 2006 con spirito sperimentale e assolutamente libero.

Da non dimenticare che questo champagne ha anche un grande potenziale di invecchiamento, per chi vorrà e saprà aspettare. Perrier-Jouët – Belle Epoque Rosé 2007. È un paradigma quando si parla di bollicine rosé per via dell’armonia e dell’espressività che sono la sua cifra distintiva e non a caso lo Chef de Cave di Perrier-Jouët, Hervé Deschamps, lo definisce «un vino delicato e al tempo stesso ricco e voluttuoso; intenso, generoso e vigoroso ma anche di grande finezza». Il Belle Epoque Rosé è un assemblaggio di uve Chardonnay, Pinot Noir e Pinot Meunier provenienti dai più blasonati cru della Champagne, affina sei anni sui lieviti e viene prodotto, come si confà a uno champagne così prestigioso, solo nelle annate eccezionali.

Dall’elegantissimo colore rosa antico e da un perlage finissimo e cremoso, è un rosé dalla personalità stravagante, nella quale gli aromi floreali e fruttati si intrecciano a note agrumate, di spezie e frutta secca. Al palato è fresco e vivace ma anche intenso e cremoso. Perfetta espressione dello stile raffinato che da sempre caratterizza la Maison.

Ci piace perché: anche in questo caso sarebbe impossibile il contrario. Il Belle Epoque Rosé è uno champagne prezioso che trasmette lo spirito gioioso e vitale di quella Belle Epoque a cui deve il nome e che, anche per questo, regala un’esperienza gustativa sensuale ed espressiva. È una di quelle bottiglie che non dovrebbe mai mancare in una cantina ideale.

E – sorprendentemente se si pensa alla sua complessità – è uno champagne molto versatile e in virtù di questo può essere protagonista di diversi abbinamenti, dai più classici ai più inaspettati, che non faranno altro che esaltare quel carattere stravagante di cui parlavamo.

Redazione 10.08.2021

Viticoltura eroica, un dialogo serrato tra uomo e natura

Quando si parla di viticoltura eroica il primo pensiero va a un concetto romantico di coltivazione della vite in condizioni estreme e quasi proibitive. L’interpretazione di per sé è corretta, tuttavia è interessante sottolineare che la definizione ha confini più precisi. Esistono infatti quattro requisiti specifici e la pratica agricola deve rispondere almeno a uno di questi perché si possa parlare di viticoltura eroica.

Il primo, quello per cui la definizione è principalmente conosciuta, riguarda le pendenze dei terreni, che devono superare il 30%. Questo naturalmente rende tutto più difficile. Per l’uomo, prima di tutto, che si trova a dover svolgere le diverse attività agricole affrontando salite e discese estenuanti. C’è poi un tema di meccanizzazione, o meglio di non meccanizzazione, visto che questo tipo di pendenze rendono praticamente impossibile lavorare con le macchine che generalmente vengono utilizzate nei contesti agricoli “canonici”. A questo si aggiunge un ulteriore fattore “eroico”, perché in genere le estensioni di questi vigneti sono limitate. Quindi non solo le difficoltà e la fatica si moltiplicano, ma la produzione dal punto di vista quantitativo è sempre esigua. Va da sé che il lavoro, fortemente orientato a un’elevata qualità, ha senso soltanto quando parliamo di terreni ad altissima vocazione. Il secondo requisito per poter parlare di viticoltura eroica è il fatto che la coltivazione avvenga su terrazze, o gradoni. Emblematico il caso della Valtellina, tra i più citati quando si parla dell’argomento, dove i terrazzamenti cesellano il fianco della montagna con un livello di cura e precisione unici al mondo. Capolavori come questi rappresentano una vera e propria sublimazione del fragile equilibrio tra uomo e natura. Se da un lato infatti l’industria agroalimentare, supportata dalle macchine, rappresenta in un certo senso il totale dominio degli esseri umani, nei contesti come quello valtellinese va in scena un dialogo serrato e costante. Si prende, si dà, niente è facile, e gli sforzi sono enormi anche per strappare alla roccia il più piccolo fazzoletto di terra.

Terzo requisito che abilita la parola “eroica”: l’altitudine. Più si sale in quota e più è complicato fare vino. Tuttavia esistono situazioni particolari dove una commistione di fattori tra cui la varietà del vitigno, l’abilità dell’uomo e il contesto territoriale rendono possibile la coltivazione della vite ad altitudini notevoli. In Val D’Aosta e Alto Adige non è raro trovare vigneti a 800, 900 e anche sopra i 1.000 metri, fino ad arrivare ai 1.350 dell’abbazia benedettina Marienberg, che si colloca tra le pochissime in Europa in grado di arrivare così in alto.

L’ultimo punto evidenzia come viticoltura eroica non significhi per forza contesto montuoso. Il quarto requisito, infatti, parla di “coltivazione su piccole isole”. Come quelle della Laguna di Venezia, ad esempio, dove l’acqua alta arriva a sommergere le vigne e la barca diventa il mezzo di trasporto protagonista in fase di vendemmia. Terreni sospesi tra acqua e terra, dove le radici delle piante lambiscono l’acqua salata del mare e la loro stessa vita è costantemente in discussione.

Per rimanere in tema con il contesto marittimo, ci sono casi in cui la presenza del mare convive con pendenze vertiginose. Ad esempio, le vigne dove viene prodotto il famoso Sciacchetrà, noto passito prodotto in Liguria nella zona delle Cinque Terre. Altro caso eclatante è quello del fiordo di Furore, vera e propria scheggia di Nord Europa conficcata in un contesto decisamente Mediterraneo. Stiamo parlando infatti della Costiera Amalfitana, dove a Furore la roccia è solcata da una profonda spaccatura ricoperta di uliveti, limoneti e vigneti. La realtà simbolo di questo incredibile angolo d’Italia è quella di Marisa Cuomo, che insieme ad Andrea Ferraioli conduce l’azienda da oltre quarant’anni. 10 ettari di superficie, di cui 3,5 di proprietà, molti dei quali coltivati sulle pareti rocciose a strapiombo sul mare. Ginestra, Pepella, Tronto, Sciascinoso… sono solo alcune delle varietà autoctone coltivate dall’azienda. La cantina, scavata nella roccia, gode della temperatura corretta senza necessita di alcun controllo.

Fiorduva Bianco è il vino più rappresentativo dell’azienda. Splendido blend delle tre uve prefillossera Fenile, Ginestra e Ripoli, trascorre sei mesi in piccole botti di rovere. Il 2019 si presenta con uno splendido giallo dorato e un ingresso avvolgente che rimanda alle note carnose dell’albicocca e del mango. In bocca mostra una progressione che apre a leggere speziature e a cenni di erbe aromatiche. Il finale è lunghissimo, scandito da sottili percezioni iodate. Sono proprio queste, più di tutto, a ricordare il contesto unico ed estremo in cui nasce questo vino, frutto di una viticoltura di altissimo profilo che valorizza luoghi dove nulla è scontato. In due parole, una viticoltura eroica.

di Graziano Nani 23.11.2021

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Venissa e il senso profondo della sostenibilità

Matteo Bisol, insieme al padre Gianluca, gestisce l’universo Venissa in tutte le sue espressioni. Parlare con lui significa indagare una parola oggi spesso abusata, a volte sfruttata, sempre di tendenza, ma quasi mai esplorata nella sua accezione più profonda. Sostenibilità. Con Matteo scopriamo che in fondo il concetto è lineare e risponde a una semplice domanda: la terra che abitiamo ha le risorse per sostenere il nostro progetto? Stiamo arricchendo il territorio, o gravando su di esso?

Ciao Matteo, per parlare del mondo Venissa e dei suoi equilibri, potremmo partire dalla vendemmia che ha seguito la grande acqua alta di due anni fa. Un episodio specifico che, però, presenta una serie di elementi peculiari del mondo lagunare tout court.

Tu sei stato da Venissa proprio nel novembre del 2019, il mese della grande acqua alta. Quello è stato un evento che ci ha fatto preoccupare molto, perché l’acqua ha raggiunto livelli record, simili a quelli che cinquant’anni fa avevano dato un durissimo colpo alla viticoltura in laguna. Poi fino ad aprile, quando è ripartita la vigna, non abbiamo avuto modo di capire come stessero le cose, perché durante la fase invernale non puoi sapere se le viti siano sopravvissute o meno. Quindi sono stati mesi di grande apprensione, e in primavera è stato poi un sollievo veder ripartire le piante. Una dimostrazione di come la vite in generale, e la Dorona nello specifico, sappia adeguarsi a ogni tipo di condizione. È la magia di questo vitigno, che si è saputo adattare al clima, al terreno, a tanti fenomeni tipicamente lagunari. Credo che questo rappresenti anche il senso più profondo di Venezia e del suo mondo. Un continuo adattarsi dell’uomo alla natura, che porta a qualcosa di meraviglioso.

Come è stata la vendemmia del 2020, che ha seguito l’acqua alta di cui hai raccontato?

Per noi è stata letteralmente la miglior vendemmia di sempre. Il tema da sciogliere è quello degli effetti del sale nella coltivazione dell’uva. Se andiamo a vedere le analisi, non ritroviamo un livello di sodio differente da quello di vini prodotti in altri luoghi. Questo perché la vite non ha un buon rapporto con il sale, e quindi tende a non assumerlo, lo lascia nel terreno. Quindi non esiste una trasposizione diretta del sodio nel vino. Quello che invece esiste è una trasposizione indiretta dello stesso, nel senso che la quantità di sale presente nel terreno diminuisce la vigoria e la quantità di uva prodotta. L’effetto è simile a quello di tanti terreni calcarei, o gessosi. Terreni difficili, non fertili, non generosi, che in qualche modo mettono in difficoltà la pianta. Questa condizione di difficoltà permette di fare una produzione limitata, e di arrivare a vini con più carattere, e più complessità. Nel 2020, dopo l’acqua alta, è successo proprio questo. E chissà quante altre cose scopriremo. Noi abbiamo iniziato meno di vent’anni fa, un tempo brevissimo nel mondo del vino. Il vigneto ha quindici anni, e solo negli ultimi tempi ha iniziato a esprimersi nella sua fase adulta. È ancora un vigneto giovane. Noi stessi stiamo cercando di capire come esprimere tutto il suo potenziale, e lo possiamo fare solo di anno in anno, aspettando i tempi della natura.

Parlando di Dorona, come è nata la vostra storia con questo vitigno?

Nel 2002 mio padre ha trovato le prime piante. Con un barchino, e una bicicletta a bordo, giravamo tra le isole meno conosciute, in cerca degli ultimi contadini attivi nella coltivazione di varietà quasi scomparse. Abbiamo trovato un’ottantina di piante e abbiamo piantato il vigneto di Venissa, sull’isola di Mazzorbo. Abbiamo scelto un’area che è sempre stata dedicata all’agricoltura, e alla viticoltura in particolare. Stiamo parlando di terreni difficili, e siamo rimasti sorpresi dalla capacità della Dorona di portare a vini di grande armonia e finezza.

Equilibrio e finezza. È questa, dunque, la cifra stilistica dei vini di Venissa?

Sì, direi di sì, sono proprio queste le caratteristiche principe dei nostri vini. Lo stesso equilibrio che la varietà vive in relazione con il suo ambiente, lo ritroviamo nel bicchiere. Io credo in generale che i grandi vini non siano semplicemente frutto di un terroir, ma dell’equilibrio tra il terroir, il vitigno e l’uomo che ha imparato a far dialogare queste componenti.

E cosa ci dici di Venissa 2016 nello specifico?

Guarda, forse direi che è l’annata migliore del decennio. Sicuramente superiore alla 2015, in termini di freschezza innanzitutto. È anche più elegante. Siamo davvero molto soddisfatti. E siamo rimasti colpiti da come il vigneto, anno dopo anno, abbia saputo adattarsi al contesto ambientale. Più gli anni passano, più le viti entrano in simbiosi con la natura che le circonda, e meno hanno bisogno del nostro intervento. Pensa che in certi punti della vigna si trovano un sacco di piante tipicamente lagunari, come la salicornia. In altre zone leggermente più alte, stiamo parlando di qualche decina di centimetri, ne vedi spuntare di altri tipi. Come i papaveri, ad esempio. E poi tanti insetti e altri animali come anatre, aironi, colibrì. E tutto naturalmente dialoga con il resto del contesto. Questo nasce da una scelta ragionata. A Venissa abbiamo deciso di contenere la superficie dedicata alla vigna per lasciare spazio ad alberi, prati, orti. Per noi era un punto imprescindibile.

Parliamo invece del mondo dei rossi. Rosso Venissa ha una storia differente, e anche dal punto di vista geografico nasce su un’altra isola, corretto?

Sì, è vero, stiamo parlando dell’isola di Santa Cristina. Un’isola unica, che si trova in una zona della laguna difficilissima da raggiungere. In questo caso davvero si può parlare di viticoltura eroica, perché abbiamo grossissime difficoltà nel lavorare quella vigna. Intanto perché non tutte le barche possono raggiungere l’isola. Non ci sono canali, quindi chi conduce la barca deve sapere esattamente dove andare, per non rimanere “in secca”. In più, l’isola si può raggiungere solo in condizioni di alta marea, quindi tutte le lavorazioni sono scandite dalle maree, di fatto.

Cosa c’è sull’isola? È abitata?

Di base non ci abita nessuno. L’idea di René, proprietario dell’isola e discendente della famiglia Swarovski, era quella di creare una sorta di ashram per esperienze di meditazione. Ci sono orti, animali, e una grossa parte di peschiera, con tantissimi pesci come orate e branzini. È davvero un ecosistema a sé. Sono trenta ettari, se non sbaglio, di cui quindici sono acqua. Mentre il vigneto è di tre ettari. Abbiamo principalmente Merlot, che in Veneto è un vitigno molto diffuso da diversi secoli, e poi c’è un 20% di Cabernet Sauvignon. Lì, fortunatamente, non abbiamo il problema dell’acqua alta, perché l’isola è leggermente rialzata e circondata da argini in pietra.

Tra l’altro l’isola di Santa Cristina ha una storia antichissima

Sì, è l’unica isola rimasta di quello che era l’arcipelago di Ammiana, scomparso da secoli. Rappresentava, insieme a Torcello, uno dei primi insediamenti della Venezia romana, dove di fatto è nata Venezia. Sono luoghi di grande storia.

Quali risultati state ottenendo con Rosso Venissa? Quali sono le sue caratteristiche salienti?

Siamo contenti dei risultati che stiamo avendo. Ad oggi la salinità e la mineralità tipiche della Laguna ci salvano dal clima caldo. Io non credo che in generale l’Italia sia la terra adatta per produrre grandi Merlot. Masseto, ad esempio, fa eccezione proprio perché nasce da terreni con una salinità molto elevata. Anche loro, come noi, spesso hanno piante che soffrono e muoiono a causa della tossicità del sale. L’agronomo con cui lavoriamo segue anche loro, e ci ha più volte confermato che esistono tante similarità tra i due vigneti, pur trovandosi in zone completamente diverse. Perché il clima della Laguna di Venezia è più simile a quello della Toscana, piuttosto che al clima Veneto. È un clima che, per temperature medie e precipitazioni, ci porta più a sud.

Come evolverà Rosso Venissa, e con quali tempi?

Guarda, è proprio questo il punto del nostro lavoro, il tempo. Si tratta di processi lunghi, servono anni per capire il potenziale espressivo dei due vitigni. Arrivare al vino che abbiamo in testa richiede pazienza. Se vuoi da qui deriva un po’ anche il bello del nostro lavoro: il vino che hai in testa oggi, è un’evoluzione di quello che stai mettendo sul mercato. Con il Rosso stiamo proponendo la 2012, che è splendida, e nel frattempo ci sono state evoluzioni, noi stessi siamo cambiati. Io credo che si possa lavorare ancora per trovare la massima espressione del Merlot, e questo mi dà grande speranza. Perché oggi siamo già arrivati a un punto molto interessante, e l’idea che ci sia ancora tanta strada da fare fa ben sperare per il futuro.

di Graziano Nani 15.06.2021

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Non si è mai troppo dolci

Chi lo ha detto che passiti e muffati possano accompagnare solo i dessert? Ecco qualche idea diversa per abbinamenti salati.

Il bianco con il pesce, il rosso con la carne e il vino dolce a fine pasto: queste erano, fino a pochi anni fa, le regole canoniche degli abbinamenti tra cibo e vino, sempre più spesso superate dalle indicazioni dei sommelier meno ingessati e dalle evidenti dimostrazioni di gusto. Quella di relegare i vini dolci e liquorosi al momento del dessert, però, resta la più difficile da scardinare, con l’eccezione del mondo dei formaggi che – in particolare per quanto riguarda erborinati e formaggi cremosi a pasta fiorita – trovano da sempre eccellenti compagni in questi calici.

Anche se è innegabile che in linea generale l’abbinamento dolce/dolce funzioni, guardando magari alle cucine lontane dalle nostre – dove l’agrodolce è un concetto piuttosto diffuso – si può trovare qualche idea diversa per bere ottime bottiglie di questa tipologia anche con cibi salati. Di certo non a tutto pasto ma piuttosto con un’entrata a sorpresa nel menu, e avendo cura di servirli alla temperatura giusta: con il freddo, infatti, le percezioni cambiano notevolmente e questo aiuta ad ammorbidire la sensazione di dolcezza e di alcolicità di questi vini. Così ad esempio, servendolo intorno ai 12°C, anche l’esplosiva dolcezza (comunque mai stucchevole) dell’Epokale Gewurztraminer Spätlese di Cantina Tramin – forgiata nei suoi profumi speziati e di frutta esotica da sette anni di riposo in una grotta situata a 2000 metri d’altezza e 450 sotto la montagna – potrà accompagnare in modo sicuramente non banale un’anguilla laccata alla giapponese, con il grasso della carne e l’equilibrata dolcezza della laccatura bilanciata dall’inattesa freschezza ed eleganza del vino.

Restando su abbinamenti più territoriali, un Recioto della Valpolicella Classico (in questo caso non eccessivamente freddo, sui 14°C) come quello “A Roberto” di Quintarelli, con le sue note vellutate e avvolgenti di frutti rossi sotto spirito, potrebbe ben accompagnare un tradizionale cinghiale al cacao o in salmì – a esaltare i profumi di cannella e altre spezie – ma pure una guancia di maialino cotta a bassa temperatura in salsa di cioccolato fondente. Guardiamo invece al confine tra Francia e Germania, e in particolare all’Alsazia, per proporre un abbinamento decisamente fuori dai canoni con un vino unico che nasce in un’altra terra di frontiera: l’8’9’10 di Gravner – Ribolla gialla da uve botritizzate, fermentata in anfora e affinata almeno 48 mesi in piccole botti di rovere – tra i 10° e i 12°C può accompagnare non solo formaggi stagionati e particolarmente intensi come l’eccellente Jamar friulano ma anche una Baeckeoffe, tipica casseruola al forno della regione francese in cui la carne viene marinata nel vino e poi cotta nel forno con cipolle e patate in una pentola sigillata con l’impasto del pane.

Azzardando ancora di più, potrebbe essere una bella sfida – ideale anche per la stagione estiva, sempre tenendo d’occhio la temperatura di servizio che in questo caso dovrebbe essere di circa 14°C– quella di proporre il Vin Santo Occhio di Pernice di Avignonesi, con il suo complesso profilo aromatico che ricorda datteri, fichi secchi, amarene e agrumi canditi, con una soffice pizza condita con prosciutto (o ancora meglio, culatello) e fichi, invece dei soliti cantucci. Mentre in inverno, anche con qualche grado in più, una scaloppa di foie gras di certo non lascerà deluso nessuno. Fegato grasso in terrina e formaggi erborinati – come un Roquefort o un Bleu d’Auvergne, per restare in Francia, ma anche un Blue Stilton inglese o un italianissimo Gorgonzola – sono abbinamenti ben collaudati anche per l’immenso Château d’Yquem, con le sue sfumature affascinanti di frutta essiccata e candita, miele e spezie. Noi però vogliamo divertirci a proporvi un abbinamento decisamente più insolito, mediterraneo ed estivo affiancando a un calice ben freddo (intorno ai 7°C) un delizioso cocktail di scampi o di gamberi con un salsa rosa realizzata a dovere.

– Luciana Squadrilli 04.06.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

ALTRE NEWS

Aprile, fra gestione dell’emergenza e desiderio di normalità

A marzo, nei giorni più duri dell’emergenza Covid-19, Angelo Peretti si chiedeva su The Internet Gourmet ( www.internetgourmet.it) se avesse senso scrivere di vino in circostanze così drammatiche. Molto probabilmente non esiste un’unica risposta a questa domanda ed è giusto che sia così. Noi, come sempre, abbiamo raccolto alcune delle notizie più interessanti lette nelle ultime settimane, fra gestione dell’emergenza e desiderio di normalità. www.internetgourmet.it

Iniziamo, allora, da una piccola indagine condotta dal magazine Planet of The Grapes, che ha chiesto a diversi wine-writer – dalla mitica Jancis Robinson all’editor di Pipette Rachel Seigner – di raccontare cosa rappresenta per loro il vino in un momento così strano come quello che stiamo attraversando. C’è chi lo vive come un piccolo rituale gioioso da contrapporre alle difficoltà del quotidiano e chi, invece, sta bevendo meno del solito perché considera il vino inscindibilmente legato alla socialità e, dunque, alla presenza delle altre persone; c’è chi trova conforto nello champagne e chi in vini più semplici, nati del lavoro di vignaioli che si vogliono idealmente sostenere a distanza. Un collage di attitudini e sensibilità differenti, in cui tutti possiamo ritrovare qualcosa di nostro: www.medium.com

Il vino, è cosa nota, può essere pura poesia ma anche oggetto di consistenti investimenti economici. E su questo fronte arrivano buone notizie per l’Italia dei fine wine: nella prima settimana di aprile, su Liv-ex la share di vini italiani scambiati sul mercato secondario è stata pari al 24,7% a valore. Un risultato importante – come racconta Wine News – che consolida la posizione delle nostre etichette di pregio in un panorama storicamente dominato dai grandi Bordeaux: www.winenews.it.

E sempre a proposito di grandi Bordeaux, Neal Martin ha raccontato su Vinous le sue impressioni a margine della complessa degustazione dei Vintage 2010: www.vinous.com.

Rimaniamo in Francia con l’annuncio dell’avvio della negoziazione esclusiva per l’acquisizione da parte di Campari di una partecipazione dell’80% – e successivamente dell’intero capitale azionario – di Sarl Champagne Lallier. Ne parla, fra gli altri, anche La Repubblica: www.ilsole24ore.com.

Distillazione volontaria, vendemmia verde e una serie di misure di sostegno economico per tutto il settore vitivinicolo: sono alcune delle proposte formulate da Assoenologi nei giorni scorsi per fronteggiare la crisi. Ne dà conto Identità Golose: www.identitagolose.it

E sempre a proposito di Covid-19, Wine Spectator ha dedicato un’intera sezione del suo sito all’emergenza, per documentarne l’impatto sul settore food&wine: www.winespectator.com

Chiudiamo con un profilo del leggendario wine-writer e degustatore Michael Broadbent, firmato da Eric Asimov sul New York Times. Scomparso lo scorso 18 marzo a  92 anni, Broadbent è stato un grande conoscitore dei fine wine e, soprattutto, colui che negli anni Sessanta ha plasmato il settore delle aste dei vini, intuendo che questi potevano essere trattati esattamente come le opere d’arte: www.nytimes.com

Arrosti&co, non solo rossi di struttura

Cotture lente, sapori decisi, texture succulente. Con le carni arrosto solitamente ci si aspetta di bere “in rosso”, scegliendo vini strutturati e con qualche anno alle spalle e magari approfittando dell’occasione per aprire qualche bottiglia veramente importante (o viceversa, accompagnando con una preparazione all’altezza l’etichetta prescelta).

Non è, però, sempre e per forza così. A seconda della tipologia di carne e del metodo di cottura, anche dei bianchi ben strutturati o dei rossi più leggeri possono accompagnare alla perfezione i piatti a base di carne.

Partiamo dalle carni bianche ad esempio, e dal protagonista per eccellenza dei pranzi casalinghi non troppo impegnativi, con la famiglia riunita attorno al tavolo: il pollo al forno con le patate. Una preparazione che sembra facile e scontata ma non lo è per nulla, visto che ci vogliono occhio ed esperienza per avere la cottura perfetta, che lascia l’interno umido ma ben cotto, la pelle croccante che rilascia il suo grasso, le patate appena brunite. In questo caso, si può scegliere un vino bianco come la Falanghina Irpinia Doc Via del Campo di Quintodecimo: fruttato e avvolgente, più ricco rispetto allo standard di questa tipologia di vini anche grazie a un breve passaggio in piccole botti di rovere, ha una componente minerale spiccata e profumi di erbe aromatiche. Se invece volete osare un abbinamento insolito ma davvero interessante, potrebbe valere la pena stappare la Ribolla 2011 di Gravner: macerato a lungo sulle bucce, fermentato in anfora e maturato in botte grande, è un vino ambrato estremamente ampio e ricco, con intriganti spunti aromatici e balsamici. Struttura e tannini dati dalla macerazione, insieme alle insolite note quasi ferrose e officinali, lo rendono unico a ogni sorso.

Altro grande classico, buonissimo in tutte le stagioni e in tutte le occasioni, è il roastbeef.
Ben rosato al centro, servito per lo più freddo e poco condito – ma magari accompagnato da patate, insalata o altri contorni – potrà sposarsi tanto con un bianco dalle note appena più morbide (ma non stucchevoli) ma con una buona acidità, quanto con un rosso dalla grande beva. Per esempio, nel primo caso, con il Gewürztraminer Konrad Oberhofer Vigna Pirchschrait di Hofstatter, frutto di una maturazione di 10 anni sui lieviti fini che unisce intensità e freschezza, con spiccati profumi di miele, frutta secca e vaniglia, a una struttura importante sorretta da una buona acidità. Oppure, il Gattinara base di Nervi-Conterno, asciutto e leggermente tannico con un bel finale lievemente ammandorlato e note di frutti rossi, sottobosco ed erbe officinali: un Nebbiolo di razza e un’etichetta storica che, nella sua semplicità, garantisce sempre grandi bevute.

Salendo di struttura e intensità dei piatti, passiamo anche a vini più “impegnativi”. Tra le ricette a base di carne non può mancare il brasato di manzo che, nella classica versione piemontese, viene tradizionalmente preparato con il vino rosso e in particolare con il Barolo. Inutile dire, dunque, che questo grande vino è anche l’abbinamento per eccellenza per un piatto così poderoso. Se volete bere alla grande ma restando con i piedi per terra, il suggerimento potrebbe andare sul Barolo Riserva Vigna Rionda di Oddero: una grande etichetta, da uno dei vigneti più rinomati delle Langhe. Per un’occasione speciale si potrà altrimenti chiamare in causa il “signor Voerzio” – altro nome mitologico dell’enologia langarola – con il suo Barolo Riserva 10 anni: perfettamente pronto da stappare, è un grande vino da meditazione ma è altresì perfetto per accompagnare un piatto come il brasato.

Passiamo alle carni ovine, con i dovuti distinguo. Ad esempio, il sapore intenso e la grassezza marcata dell’agnello (pur se dal buon profilo nutrizionale, se parliamo di animali allevati in condizioni ottimali) richiedono maggior struttura nel bicchiere, facendo propendere per qualcosa di altrettanto “rustico” e corposo – per esempio, guardando all’abbinamento territoriale, un Montepulciano d’Abruzzo; se però non si vuole rinunciare all’eleganza, la scelta si può orientare su un taglio bordolese capace di unire struttura e finezza, riuscendo a “reggere” piatti robusti come quelli a base di agnello, al forno o in umido. E cosa potrebbe esserci di meglio, a tal proposito, di una bottiglia di Sassicaia della Tenuta San Guido?

Il capretto invece, più magro e tenero, si sposa meglio a qualcosa di appena più esile ma non meno soddisfacente. Per esempio, il Chianti Classico San Lorenzo di Castello di Ama, Gran Selezione DOCG ottenuto dalle uve dei vigneti dell’omonima vallata, con un’età media di almeno 25 anni. Frutto dell’assemblaggio delle diverse varietà (sangiovese, merlot e malvasia nera) dopo la malolattica e di una successiva maturazione in barrique di rovere, è un vino morbido e fresco, potente ma molto armonico, perfetto per accompagnare questa tipologia di carni.

Le cose cambiano, però, se si sceglie la cottura alla brace.
La regola generale sconsiglia infatti di accompagnare le preparazioni di questo tipo con vini barricati, i cui sentori finirebbero per amplificare in maniera eccessiva le sensazioni di legno e di tostato. In questo caso, dunque, meglio preferire vini di struttura ma che facciano solo acciaio o botte grande: la scelta può andare da molte etichette di Barolo di scuola “tradizionalista” – che rifiuta categoricamente l’uso di barrique, appunto – fino a quella inaspettata, ma molto valida per gli amanti del genere, dell’Amarone della Valpolicella Classico DOC Riserva di De Buris. Dalla bevibilità atipica per questa tipologia di vino, ha un carattere unico in cui le note dolci dell’appassimento lasciano spazio a inedite sfumature sapide e minerali e all’equilibrio notevole tra la potenza dei tannini, la polposità del frutto e la freschezza complessiva.

Chiudiamo con una preparazione che non appartiene alla tradizione italiana ma che negli ultimi anni, con il diffondersi della passione per il grilling, riscuote molto successo anche da noi: il brisket, la punta di petto di manzo cotta lentamente protagonista del classico BBQ texano. Ben speziato, morbidissimo e succulento – tanto da non richiedere quasi masticazione – e lievemente affumicato, cerca struttura e potenza nel bicchiere senza rinunciare all’eleganza. Andate sul classico con un bel Brunello di Montalcino come quello di Castiglion del Bosco, con i suoi tannini vellutati e le note di sottobosco.

Se invece volete spiazzare i vostri ospiti e regalare a loro e a voi una bevuta indimenticabile, vi proponiamo un abbinamento quasi eretico, un po’ da “la bella e la bestia” ma che non potrà che conquistare tutti: quello con il leggendario Château Haut-Brion, grande vino di Bordeaux Premier Grand Cru Classé, uvaggio di cabernet sauvignon, merlot e cabernet franc che conquista per la sua eleganza e le sue note di tabacco, liquirizia e spezie.

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

Meditazioni nobili: i vini muffati

Gustare il vino centrando l’abbinamento migliore con il cibo moltiplica l’appagamento e rende l’esperienza della degustazione più ricca e completa, non c’è dubbio. Tuttavia, ci sono casi in cui la bevuta si esprime al massimo senza nessun accostamento. È il caso dei cosiddetti “vini da meditazione”. La definizione abbraccia un insieme di vini dalla grande complessità, che può derivare da motivazioni differenti. Un grado alcolico importante, ad esempio, dovuto magari alla lavorazione di uve surmature, oppure l’aggiunta di alcol, come nel caso dei vini fortificati. È questa complessità a suggerire una bevuta “solitaria”, proprio perché il ventaglio di sentori è così ampio da richiedere tutta la concentrazione per la bevuta, e così intenso da “sorreggere” l’esperienza gustativa per tutta la durata.

In genere quando si parla di vini da meditazione il primo pensiero va ai passiti. Così intensi, strutturati e importanti dal punto di vista del tenore alcolico da rappresentare l’esempio perfetto. Il cerchio però è molto più ampio. A me piace considerare “da meditazione” anche i vini da lungo invecchiamento, come ad esempio un classico Brunello con qualche lustro sulle spalle, oppure alcuni vini macerativi particolarmente importanti. Sono bianchi, questi ultimi, lavorati utilizzando le bucce come si fa con i rossi. La tecnica determina una certa masticabilità del vino, una polpa più sostanziosa, e una trama tannica capace di traghettare l’evoluzione parecchio in là, incrementando così la complessità finale di quelli che vengono chiamati “orange wine”. 

Una tipologia di vini da meditazione di cui sono particolarmente innamorato sono gli specialissimi muffati. Si tratta di vini che nascono da acini attaccati da una malattia chiamata Botrytis Cinerea. Il fungo che causa questo problema, in condizioni climatiche molto particolari, si sviluppa sulla buccia, formando un feltro che provoca un appassimento per evaporazione e di conseguenza la concentrazione di diverse sostanze. In più, la muffa produce glicerina e conferisce particolarissimi profumi. È la muffa grigia che si esprime nella rara variante della muffa nobile, e quello che in genere rappresenta un grosso problema si trasforma in un plusvalore unico per il vino. Le condizioni in cui questo si verifica sono davvero speciali. Un clima caldo e secco, a cui si alternano situazioni di umidità che favoriscono una proliferazione limitata del fungo. È il caso innanzitutto della zona delle Graves, a sud di Bordeaux, dove nasce il più famoso tra i muffati, il Sauternes. Altri esempi di botritizzati noti sono i Trockenbeerenauslese tedeschi e austriaci e il Tokaji ungherese.

Esistono poi esempi di vini botritizzati provenienti da altre zone. In Italia, ad esempio, il lago di Bolsena presenta le condizioni climatiche ideali per la muffa nobile. E poi ce n’è uno davvero unico. Nasce nel Collio Goriziano, sul confine con la Slovenia, da uno dei più grandi produttori di sempre: Josko Gravner. Il suo muffato si chiama 8’9’10 e nasce da acini di Ribolla botritizzati, provenienti da tre vendemmie differenti: 2008, 2009 e 2010. Viene fermentato in anfore interrate, con il mosto a contatto con bucce e raspi, e affinato in piccole botti per 48 mesi.

L’impatto sensoriale è così intenso da lasciare disorientati. Ha il colore dell’ambra e la sua capacità di riflettere la luce è qualcosa di immenso, quasi a volere illuminare la stanza dove viene degustato. Il naso è impetuoso e restituisce in successione sensazioni più ricche come quelle dell’albicocca disidratata, del miele, dei fichi, e altre più flebili come il fieno e il torrone. Poi c’è lo zafferano, il più tipico tra i sentori che nascono dai muffati. Arriva piano, si mescola agli altri e poi spicca con tutta la sua forza, prima di rituffarsi nel ventaglio di profumi di 8’9’10. In bocca il vino mette in scena una splendida tensione fra morbidezze e durezze. Da un lato la ricchezza glicerica e l’intensità della frutta disidratata, dall’altro la freschezza sorprendente e una sapidità fine, elegante, profonda. L’allungo è poderoso, la durata della persistenza in bocca si mescola a quella di permanenza nel cuore e nella memoria, rendendolo un vino infinito e senza tempo.

Le sue spalle larghe lo rendono adatto ai formaggi importanti così come ai cioccolati più nobili. Ma il mio consiglio è quello di ritagliarsi uno spazio e un tempo esclusivi dedicati solo a lui. Per abbinarlo al passare dei minuti, alla luce che cambia e allo scorrere dei propri pensieri. Perché sì, questo è un grande vino da meditazione.

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

 

Uberti, la forza dell’autenticità

“I nostri Franciacorta sono tutti diversi: ognuno ha una propria storia da raccontare, quella delle vigne da cui proviene” – Silvia Uberti

La solida impronta familiare, il rispetto per l’unicità di ogni vigneto, l’impegno – non sbandierato ma di sostanza – sul fronte di un’agricoltura biologica, senza dimenticare l’affascinante progetto che sta alla base di due etichette iconiche come Quinque e Dequinque: abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Silvia Uberti per tracciare il profilo di una delle cantine più interessanti della Franciacorta. Una vera eccellenza costruita con dedizione, rigore e passione dalla famiglia Uberti.

La prima cosa che si legge entrando nel vostro sito è “Dal 1793 viticoltori in Erbusco”, quanto conta nel definire la vostra identità di vignaioli la dimensione familiare, fatta di generazioni che da secoli si avvicendano nella cura dell’azienda agricola?

In questa domanda c’è una parola che fornisce già la risposta: “cura”. Le generazioni di Uberti, che si sono avvicendate nel tempo fino ai giorni nostri, si sono “prese cura”, come solo può fare una famiglia, del nostro patrimonio vitivinicolo. Oggi siamo noi a portarlo avanti con grande orgoglio.

Se dovesse provare a descrivere la vostra cantina con tre parole, quali userebbe?

Sensibilità, autenticità e costanza.

In cosa risiede la cifra identitaria dei vostri Franciacorta?

I nostri Franciacorta si identificano nella semplice espressione di ogni singola vigna, la vinificazione parcellare permette di far esprimere le caratteristiche e le peculiarità di ogni vigneto. Per questo motivo, in un certo senso, i nostri Franciacorta sono tutti diversi: ognuno ha una propria storia da raccontare, quella delle singole vigne o delle piccole parcelle da cui proviene.

All’interno di questa visione come si colloca la scelta di utilizzare esclusivamente lo Chardonnay per la maggior parte dei vostri di punta?

È una scelta di lunga data. Il nostro modo di fare Franciacorta è rimasto sempre lo stesso, fin dalle prime vendemmie. È un modo fatto di poche strategie e di molto rispetto per le peculiarità di ogni uvaggio. In questo senso, le caratteristiche dello Chardonnay ci permettono di realizzare dei Franciacorta identitari e capaci di essere longevi.

E rispetto al futuro, avete intenzione di ampliare la vostra gamma? Sperimentare qualcosa di nuovo?

Non mettiamo mai limiti alle novità, l’importante è che siano sempre coerenti con la nostra filosofia aziendale, Come dicevo prima, la costanza è uno dei nostri valori di riferimento. Finora tutte le novità messe in commercio sono andate bene… speriamo di continuare così!

Un grosso cambiamento per voi è avvenuto sul finire degli anni Settanta, quando i suoi genitori (Agostino e Eleonora) hanno iniziato a guidare l’azienda. Come è cresciuta in questi decenni la vostra cantina?

La prima grande iniezione di energia è stata data da Agostino e Eleonora, che hanno dato alla luce le prime bottiglie di Franciacorta nel 1978. Negli anni Duemila abbiamo fatto il nostro ingresso in azienda io – per quanto riguarda la parte agronomica ed enologica – e mia sorella Francesca per quanto riguarda la gestione commerciale. Non si è trattato di un avvicendamento perché i nostri genitori hanno tuttora un ruolo fondamentale in azienda ma di dare ulteriore respiro alla visione aziendale e familiare, nel solco della continuità.

La nostra forza è stata ed è ancora quella di non aver mai cambiato il nostro modo di fare il Franciacorta, non abbiamo mai seguito le mode o i cambiamenti di stile e di gusto. Siamo così da sempre e finora ha funzionato.

Da tempi non sospetti avete un approccio poco interventista sia in vigna sia in cantina. Ce ne vuole parlare?

È un’altra costante del nostro lavoro: abbiamo sempre coltivato le nostre vigne con un grande rispetto verso la sostenibilità ambientale e con un forte impegno per preservare la biodiversità di ogni singolo ambiente in cui dimorano le viti. È l’unico modo, a nostro avviso, per produrre vini autentici. L’autenticità e il carattere dei nostri Franciacorta sono il frutto anche di questa scelta. A completare il lavoro di tutti questi anni, nel 2016, è arrivata anche la certificazione biologica.

Rimanendo sempre su questo argomento, l’agricoltura biologica può essere un alleato rispetto alla questione dei cambiamenti climatici e all’impatto di questi ultimi sulle terra e sulla produzione agricola in generale?

Certamente sì ed è inevitabile considerare le evoluzioni ambientali in corso. L’importante è che l’adozione del biologico sia una scelta fatta in maniera seria, costante e coerente. Dal nostro punto di vista è fondamentale mantenere un approccio sempre più preciso, attento e di continua ricerca nelle scelte agronomiche e nella cura dei vigneti. Dobbiamo garantire una salubrità costante delle viti (e del loro ambiente) e un’alta qualità delle uve.

La Franciacorta rappresenta un unicum nel panorama delle bollicine italiane e sicuramente il Consorzio negli anni ha varato diverse iniziative a supporto territorio e della sua enogastronomia. Secondo voi, cosa manca (se manca) per valorizzare pienamente il “brand Franciacorta”?

I miei genitori sono stati tra i fondatori del Consorzio e da allora l’attività di promozione e tutela è sempre stata in crescendo. C’è solo una strada da percorrere sempre con costanza e tenacia: l’alta qualità dei Franciacorta e la tutela del nostro territorio.

In tutta la vostra produzione c’è un vino al quale tenete particolarmente, che ha per voi un valore affettivo, diciamo così?

Sicuramente Dequinque, una cuvée di dieci vendemmie, frutto della riserva perpetua che abbiamo iniziato a creare e alimentare nel 2002, quindi la cuvée del nostro miglior Chardonnay, assemblata anno dopo anno all’interno di un unico tino. Il primo passaggio è stato Quinque (2002 – 2006), cuvée di cinque vendemmie, poi è stata la volta di Dequinque (2002 – 2011) ma il percorso non si fermerà qui.

Un progetto unico nella Franciacorta, a cui teniamo molto perché rappresenta il nostro patrimonio identitario e il racconto della nostra storia.

Sono tante le grandi cantine italiane, ce n’è a cui  guardate con particolare stima?

Senza dubbio Giuseppe Rinaldi, uno dei grandi nomi del Barolo, a cui siamo legati da rapporti di stima e conoscenza di lunga data. Sentiamo una grande affinità di valori e di visione.

Una domanda inevitabile, purtroppo, considerati i tempi: sul settore vino nel suo insieme che impatto potrà avere la vicenda Covid-19? Al di là della dimensione produttiva e di vendita, la necessità di praticare il “social distancing” pensate che potranno modificare le modalità di interazione B2B ma anche B2C?

Oggi è ancora presto ipotizzare gli sviluppi e l’impatto sul mondo del vino da parte del Covid-19, di certo l’agricoltura e l’agroalimentare italiano, vino compreso, saranno tra i settori che potranno fin da subito dare risposte e nuovo sviluppo a questo straordinario paese.

Per quanto riguarda gli aspetti legati  alla comunicazione, a prescindere dal momento attuale, il mondo del vino è soggetto a continui cambiamenti (anche nel sistema fieristico), è  importante avere sempre chiara la direzione da seguire: fare una comunicazione seria, di qualità e soprattutto trasmettere le giuste informazioni a tutti gli stakeholder.

Redazione 14.04.2020

Mecenatismo tra le vigne

Vino e arte come espressione della creatività e dell’intelletto umani: una visione genuinamente umanistica che ha portato diverse cantine italiane a farsi promotrici di progetti artistici di ampio respiro e di grande valore culturale. Inscindibilmente legati ai luoghi che li hanno generati, questi progetti nascono per essere condivisi con il pubblico, perché proprio come la fruizione del vino anche quella dell’arte trova nella socialità e nelle relazioni la sua dimensione più vera e profonda.

Castello di Ama — Daniel Buren

Nel 1999, con grande lungimiranza, Lorenza Sebasti e Marco Pallanti hanno scelto di aprire il loro Castello di Ama all’arte contemporanea, creando – anno dopo anno – una collezione permanente che dialoga con lo spirito e le suggestioni dell’ambiente naturale e architettonico della tenuta. Ogni anno, infatti, seguendo il ritmo delle vendemmie, un grande artista viene invitato a concepire e a realizzare un’opera o installazione ispirata al Genius Loci. Nel tempo si sono susseguiti Michelangelo Pistoletto, Daniel Buren, Anish Kapoor, Cristina Iglesias, Louise Bourgeois, Miroslav Balka e altri ancora che hanno reso questo luogo – rimasto intatto per secoli – ancora più magico.

[Castello di Ama — Daniel Buren

Sempre in Toscana, nel 2012, Tiziana Frescobaldi ha dato nuovo slancio allo storico mecenatismo di famiglia con Artisti per Frescobaldi, un premio biennale d’arte contemporanea che, a ogni edizione, invita tre artisti a interpretare la Tenuta di CastelGiocondo. Il premio, che ha l’obiettivo di sostenere e dare spazio a giovani artisti non ancora affermati, è curato da Ludovico Pratesi, mentre la giuria, che assegna il premio, cambia ad ogni edizione ed è sempre formata da tre direttori di musei d’arte contemporanea. Nel 2017, Tiziana Frescobaldi ha voluto far confluire le opere di Artisti per Frescobaldi in una collezione permanente aperta al pubblico e allestita all’interno della tenuta di CastelGiocondo.

Tiziana Frescobaldi e Ludovico Pratesi

Nel 2018 il premio è stato vinto dall’artista svizzera Sonia Kacem con l’opera Les Grandes. Mentre a gennaio di quest’anno sono stati comunicati i nomi dei tre artisti selezionati per il 2020: il canadese Andrew Dadson, l’americana Erica Mahinay e l’italiano Gian Maria Tosatti. La premiazione avverrà a Milano il prossimo settembre.

Artisti per Frescobaldi supporta, infine, iniziative dedicate all’arte contemporanea italiana attraverso il ricavato delle edizioni limitate e numerate delle bottiglie di CastelGiocondo Brunello di Montalcino. Queste bottiglie per collezionisti sono rese uniche dalle etichette disegnate dai tre artisti protagonisti di ogni edizione del premio.

Artisti per Frescobaldi 2018 – Magnum di CastelGiocondo Brunello di Montalcino (annata 2013)

Dal 2009, Ornellaia festeggia la presentazione di ogni sua nuova annata con Vendemmia d’artista. Il progetto si articola in due parti: la prima vede la commissione a un grande artista di un’opera destinata alla tenuta di Bolgheri e ispirata al carattere dell’annata; la seconda prevede che in ogni cassa di Ornellaia sia presente una bottiglia con un’etichetta disegnata dallo stesso artista e che venga realizzata un’edizione limitata di 111 bottiglie di grande formato, da lui numerate e firmate. Queste 111 bottiglie vengono in seguito battute all’asta e il ricavato viene devoluto a un progetto di arte contemporanea.

Nel 2019 (annata 2016), Ornellaia ha affidato Vendemmia d’artista a Shirin Neshat, il ricavato della vendita all’asta delle bottiglie firmate dall’artista e attivista iraniana è stato destinato a Mind’s Eye, il progetto della Guggenheim Foundation che aiuta le persone con disabilità visive ad avvicinarsi all’arte grazie l’uso di tutti i sensi. Nel 2020 (annata 2017) tocca a Tomàs Saraceno.

Antinori è un’altra grande famiglia del vino italiano da sempre legata al mondo dell’arte, come testimonia il suo stemma realizzato agli inizi del Cinquecento dalla bottega dello scultore e ceramista fiorentino Giovanni della Robbia. Nel 2012, con l’inaugurazione della nuova cantina nel cuore del Chianti Classico, la famiglia ha scelto di spostare qui e mettere a disposizione dei visitatori parte della sua secolare collezione di dipinti, ceramiche, manoscritti e altri manufatti artistici. Con uno sguardo al presente, inoltre, è stato contestualmente avviato l’Antinori Art Project, una piattaforma di commissioni biennali a giovani ma già affermati artisti. Dal 2014 la direzione del progetto è affidata a Ilaria Bonacossa.

Impossibile, infine, non ricordare la passione di Maurizio Zanella – fondatore e presidente di Ca’ del Bosco – per la scultura contemporanea e il suo desiderio di creare, nei luoghi dell’azienda, un continuum emozionale e sensoriale, capace di fondere vino, arte e ambiente naturale. 

Nel corso del tempo, ha così preso vita negli spazi (esterni e interni) della cantina un vero e proprio percorso immersivo, che inizia fin dall’ingresso, con il Cancello solare in bronzo dorato di Arnaldo Pomodoro, per proseguire – senza soluzione di continuità – con opere di Igor Mitoraj, Stefano Bombardieri, Mimmo Paladino e tanti altri.

In vino veritas

Alessandro Torcoli racconta “il grande romanzo del vino”

Parafrasando quanto scrive Alessandro Torcoli nell’introduzione di In vino veritas, il vino – come tante altre cose belle della vita – è complesso, porta con sé una stratificazione di mondi sensoriali e cognitivi infinita ed è qualcosa di estremamente civilizzato che accompagna l’uomo da tempi antichissimi.

Il vino è passione, emozione, a volte ebrezza ma anche conoscenza, sia perché chi lo produce deve compiere ogni giorno moltissime scelte ponderate e consapevoli (in vigna e in cantina) per arrivare a un risultato soddisfacente, sia perché chi lo consuma ha spesso bisogno di andare oltre il piacere del momento per capire “cosa” sta bevendo, facendolo diventare l’oggetto di studio personale e accurato, che non di rado sfocia nella mania.

Per orientarsi in questo mondo così sfaccettato che alterna emozioni e razionalità, piacere immediato e disciplina, Torcoli – direttore di Civiltà del Bere, sommelier e accademico della vite e del vino – propone un manuale dal sapore contemporaneo, agile, narrativo e molto poco didascalico. In vino veritas parte dal racconto della vigna per arrivare fino alla costruzione dell’etichetta, rispondendo alle domande più diffuse sul vino e ripercorrendone storie, curiosità e argomenti apparentemente intoccabili.

Un libro sincero – come solo un buon vino sa essere – che restituisce a pieno quella complessità di cui si parlava all’inizio, fatta di dedizione, studio, impegno e dell’imprescindibile fattore umano.

Alessandro Torcoli, In vino veritas. Praticamente tutto quello che serve sapere (davvero) sul vino – 2019, Longanesi

Bottiglie: i grandi formati

Nella botte piccola c’è il vino buono? La saggezza popolare, come sempre, dice qualcosa di vero: le minori dimensioni favoriscono, infatti, un contatto maggiore fra vino e legno, con importanti conseguenze sullo sviluppo organolettico del primo. Quando si parla di bottiglie, in maniera forse un po’ controintuitiva, accade il contrario.

Sicuramente il formato per i vini rossi fermi più diffuso è il Bordolese (0,75 L), ma le bottiglie di misura più grande (Magnum e doppio Magnum) sono considerate unanimemente le più adatte per ottenere un migliore affinamento e, per questo motivo, sono quelle predilette per i grandi vini, destinati a un lungo invecchiamento.

Sono diversi i fattori che contribuiscono a fare della Magnum la bottiglia per eccellenza. Innanzitutto poiché il diametro del collo è lo stesso di una bottiglia standard e la sua capacità è doppia (1,5 L), una minore quantità di vino entra in contatto  con l’ossigeno. Lo stesso discorso vale per il rapporto superficie/volume: la quantità di vino a contatto con la superficie della bottiglia è molto minore in una Magnum e questo implica un effetto ridotto della luce sul liquido e più in generale una maggiore protezione del vino, anche in rapporto al tappo, che è il vero “collegamento” con l’esterno. La decantazione del vino, inoltre, è facilitata dalle grandi dimensioni, che consentono una precipitazione costante e omogenea dei residui.

In sostanza, un vino conservato in una Magnum può maturare in modo più lento e stabile, protetto maggiormente dalla luce, dagli sbalzi di temperatura e dagli altri fattori esterni. Questo consente un sensibile miglioramento delle sue caratteristiche organolettiche e uno sviluppo più armonioso.

Tra i grandi formati, Magnum e doppio Magnum sono quelli più diffusi perché consentono l’imbottigliamento meccanizzato, per le misure superiori, invece, è necessario il travaso. Queste ultime, inoltre, hanno diametro del collo maggiore che richiede tappi speciali.

Dai rossi agli Champagne, perché quando si parla di formati speciali, la mente corre subito alle bollicine e ai suggestivi nomi dei personaggi storici e biblici associati a queste bottiglie.

La misura standard anche in questo caso è da 0,75 L (bouteille). In tutti i casi, la bottiglia e la Magnum sono sempre usate per la presa di spuma e la rifermentazione, si procede poi al riempimento nei formati superiori (tutti multipli della dimensione standard) per travaso isobarico: Jéroboam (4 bottiglie), Réhoboam (6 bottiglie), Mathusalem (8 bottiglie), Salmanazar  (12 bottiglie) fino ad arrivare – di multiplo in multiplo – al Melchisedec, che corrisponde a  40 bottiglie (ben 30 litri).

Cresce il formato e cresce anche il peso della bottiglia, che, nel caso dello Champagne, è già di per sé più pesante perché deve sopportare una sovrappressione di almeno sei atmosfere. Bottiglie più pesanti, complesse da maneggiare – esistono telai speciali che servono a questo scopo – e delicatissime da trattare. Questo fa sì che i grandi formati siano più rari e anche più costosi…un premium per qualità ed emozione!