The Winefully Magazine

La forza dell’etichetta (e non solo)

Immaginiamo uno scaffale ben rifornito di vino o, in alternativa, la pagina web di un e-shop che preveda una chiara e facile navigazione oltre che una corretta prospettiva di osservazione: questa è di sicuro una situazione classica che ognuno di noi ha vissuto (a maggior ragione essendo all’interno del Magazine di Winefully) e che ha visto entrare in gioco una serie di dinamiche tali da governare la scelta del proprio vino da acquistare.

Le ragioni a guidare la selezione sono varie e molte di essere sono legate alla motivazione intrinseca all’acquisto: un’occasione da celebrare, un presente da omaggiare, una bottiglia da collezionare, un vino desiderato da tempo finalmente disponibile, un’etichetta scelta in funzione di un consiglio diretto di un amico o indiretto da parte di social media o di guide internazionali, la disponibilità di determinati formati ed infine anche la dinamica prezzo, vuoi perchè legata ad un determinato budget o perchè in grado di generare un risparmio se confrontata ad altre opportunità di acquisto. In cosa consiste il fil rouge che connette, in modo più o meno intenso, le motivazioni menzionate, sicuramente non esaustive di tutte le opportunità di acquisto che possiamo vivere? L’estetica, ovvero la percezione mediata attraverso i sensi delle caratteristiche di un prodotto che, al momento dell’acquisto, non si conosce o si conosce solo in parte.

E’ fuori dubbio che l’antico detto secondo cui “anche l’occhio vuole la sua parte” si applica molto bene a tali situazioni d’acquisto, da qui il ruolo chiave del Marketing nel creare un certo appeal nel prodotto, la bottiglia di vino, tanto da motivare l’acquirente a selezionarlo in modo congiunto o disgiunto rispetto ad altre variabili parte del processo decisionale.

Non tutti i cinque sensi sono però stimolati nella fase di studio in cui si captano le informazioni di interesse: una bottiglia chiusa difficilmente potrà stimolare l’olfatto salvo che le condizioni di stoccaggio del sito di acquisto non siano all’altezza e ci motivino ad allontanarci al più presto (vedi anche l’articolo “Bottiglie preziose: come conservarle a regola d’arte”), o il gusto; maggiori possono invece essere gli stimoli nei confronti dell’udito, soprattutto se combinato al tatto nel tastare una bottiglia ed immagazzinare una serie di informazioni dal suo profilo, da eventuali scritte impresse sul vetro o dalla qualità e grana di etichetta e capsula, ove presente.

Lasciamo inevitabilmente per ultima la vista, essendo questo il senso che condiziona maggiormente la scelta di un vino in sede di acquisto in persona condividendo, appunto, altri dettagli con tatto ed udito, e condizionando esclusivamente l’acquisto nel caso in cui si opti per piattaforme online.

Nel mondo dei vino è da tempo chiara la strategicità del packaging di una bottiglia: si investe moltissimo affinchè il prodotto trasmetta i valori della cantina, comunichi chiaramente ed in modo immediato al consumatore, permetta di andare oltre le informazioni di etichetta e retroetichetta, fornisca dettagli in linea con le legislazioni vigenti, menzioni il progressivo della bottiglia in caso di edizioni limitate o, e non in ultimo, fornisca un messaggio legato al posizionamento del prodotto a livello di Marketing.

Anche il più piccolo dettaglio conta e può realmente fare la differenza: oggettivamente, in quanti ci siamo trovati nella condizione di dover scegliere uno o più vini facendoci guidare sì dalle nostre conoscenze o da referenze di terzi, ma anche dal nostro istinto e dalle nostre preferenze visive? Quante volte ci siamo trovati di fronte ad etichette ammiccanti, packaging fantasiosi che generano curiosità e voglia di approfondire o a delle mise semplicemente eleganti perfettamente in linea con la nomea di un determinato vino? E quante volte ci siamo sottratti all’acquisto di vini non in grado di comunicare o il cui packaging non è stato considerato all’altezza della situazione specifica?

E’ accaduto, accade ed accadrà essendo il consumatore sempre più informato ed essendoci mezzi a disposizione che forniscono informazioni che un tempo magari non erano così rilevanti (o lo erano ma solo per gli esperti di settore).

Il trend è comune a tutti i mercati (non solo del vino visto che sia i superalcolici che l’acqua e bevande gassate non sono da meno) ma nel nostro mondo si notano con maggiore chiarezza le scelte aziendali volte ad un maggior focus sull’apparenza e la percezione del prodotto al cliente (consumatore o meno).

Questo avviene perchè ovviamente il mercato del vino è fortemente eterogeneo e caratterizzato da una storia spesso legata ai singoli territori ed alle singole cantine, a loro volta custodi di una tradizione il più delle volte familiare che i trend del mercato non hanno modo di scalfire (o almeno non riescono a farlo, al momento).

Risulterà quindi sempre difficile ed anche limitante confrontare vini dove l’essenza è contenuta all’interno del vetro e vini dove l’involucro esterno risulta fondamentale per finalizzarne la vendita. Entrambi hanno l’esigenza di incontrare il potere d’acquisto del cliente ma le modalità in cui lo fanno sono radicalmente diverse, attivando il modo diametralmente opposto i sensi alla base del processo decisionale oltre che l’emozione, il trasporto ed il sentimento che possono caratterizzare determinati acquisti.

A supporto della scelta di un vino possiamo categorizzare elementi decisionali interni ed esterni. I primi fanno riferimento al vino di per sè, alla sua storia, alle tecniche di vinificazione ed affinamento, all’annata ed al terroir. I secondi sono invece riconducibili al modo in cui viene presentato il vino, all’etichetta, al packaging, al prezzo e altri fattori che permettono di raccontare il prodotto di per sè.

Come è emerso nello studio “Il neuromarketing incontra l’arte dell’etichetta” commissionato da UPM Raflatac a SenseCatch nel 2018, emerge chiaramente che, tralasciando la variabile prezzo, sono l’etichetta con il suo design, le tipologie di carta e di nobilitazioni ad influenzare la scelta di un vino piuttosto che un altro.

Come accennato dal titolo, la materia è stata analizzata a livello scientifico utilizzando la metodologia di ricerca di SenseCatch, che integra neuroscienze e consumer behavior per analizzare le ragioni dietro i processi decisionali del consumatore in modo oggettivo e scientifico.

Il lavoro di ricerca è stato pubblicato in questo libro e nell’articolo scientifico “Neuromarketing Meets the Art of Labelling. How Papers and Finishing on Labels Affect Wine Buying Decisions” della rivista American Association of Wine Economics.

Esistono quindi delle ragioni oggettive, oltre che soggettive, dietro determinate scelte d’acquisto che coinvolgono uno o più sensi nel valutare più alternative così da scremarle progressivamente per identificare il prodotto di maggiore interesse.

L’estetica intesa come ciò che più aggrada l’occhio tanto da creare soddisfazione per un acquisto entra quindi in gioco e ci porta a propendere per determinate opzioni a seconda che gli stimoli siano più o meno allineati alle aspettative.

L’aspetto esteriore di una bottiglia di vino, quindi, risulta chiave in questo scenario, con l’etichetta che gioca il ruolo più importante insieme ad un eventuale packaging esterno che rende il prodotto unico e da subito riconoscibile, oltre che fortemente attraente.

Anche focalizzando la riflessione soltanto sull’etichetta, il vero e proprio carattere distintivo di ogni vino, avremmo uno spettro molto ampio di messaggi da recepire ed analizzare: da qui il focus sulle dinamiche che spingono un acquirente a selezionare specifiche etichette a seguito di stimoli specifici legati alla grafica, alla percezione tattile, al mix di colori che contraddistinguono i singoli vini.

A seconda delle specifiche necessità che sottintendono al processo di acquisto, ciascuna o tutte insieme possono svolgere un ruolo più o meno decisivo, dai risultati fortemente eterogenei a seguito di un ragionamento razionale per buona parte ma, inevitabilmente (ed aggiungiamo, fortunatamente) anche emozionale.

Immaginiamo uno scaffale ben rifornito di vino o, in alternativa, la pagina web di un e-shop che preveda una chiara e facile navigazione oltre che una corretta prospettiva di osservazione: questa è di sicuro una situazione classica che ognuno di noi ha vissuto (a maggior ragione essendo all’interno del Magazine di Winefully) e che ha visto entrare in gioco una serie di dinamiche tali da governare la scelta del proprio vino da acquistare.

Le ragioni a guidare la selezione sono varie e molte di essere sono legate alla motivazione intrinseca all’acquisto: un’occasione da celebrare, un presente da omaggiare, una bottiglia da collezionare, un vino desiderato da tempo finalmente disponibile, un’etichetta scelta in funzione di un consiglio diretto di un amico o indiretto da parte di social media o di guide internazionali, la disponibilità di determinati formati ed infine anche la dinamica prezzo, vuoi perchè legata ad un determinato budget o perchè in grado di generare un risparmio se confrontata ad altre opportunità di acquisto. In cosa consiste il fil rouge che connette, in modo più o meno intenso, le motivazioni menzionate, sicuramente non esaustive di tutte le opportunità di acquisto che possiamo vivere? L’estetica, ovvero la percezione mediata attraverso i sensi delle caratteristiche di un prodotto che, al momento dell’acquisto, non si conosce o si conosce solo in parte.

E’ fuori dubbio che l’antico detto secondo cui “anche l’occhio vuole la sua parte” si applica molto bene a tali situazioni d’acquisto, da qui il ruolo chiave del Marketing nel creare un certo appeal nel prodotto, la bottiglia di vino, tanto da motivare l’acquirente a selezionarlo in modo congiunto o disgiunto rispetto ad altre variabili parte del processo decisionale.

Non tutti i cinque sensi sono però stimolati nella fase di studio in cui si captano le informazioni di interesse: una bottiglia chiusa difficilmente potrà stimolare l’olfatto salvo che le condizioni di stoccaggio del sito di acquisto non siano all’altezza e ci motivino ad allontanarci al più presto (vedi anche l’articolo “Bottiglie preziose: come conservarle a regola d’arte”), o il gusto; maggiori possono invece essere gli stimoli nei confronti dell’udito, soprattutto se combinato al tatto nel tastare una bottiglia ed immagazzinare una serie di informazioni dal suo profilo, da eventuali scritte impresse sul vetro o dalla qualità e grana di etichetta e capsula, ove presente.

Lasciamo inevitabilmente per ultima la vista, essendo questo il senso che condiziona maggiormente la scelta di un vino in sede di acquisto in persona condividendo, appunto, altri dettagli con tatto ed udito, e condizionando esclusivamente l’acquisto nel caso in cui si opti per piattaforme online.

Nel mondo dei vino è da tempo chiara la strategicità del packaging di una bottiglia: si investe moltissimo affinchè il prodotto trasmetta i valori della cantina, comunichi chiaramente ed in modo immediato al consumatore, permetta di andare oltre le informazioni di etichetta e retroetichetta, fornisca dettagli in linea con le legislazioni vigenti, menzioni il progressivo della bottiglia in caso di edizioni limitate o, e non in ultimo, fornisca un messaggio legato al posizionamento del prodotto a livello di Marketing.

Anche il più piccolo dettaglio conta e può realmente fare la differenza: oggettivamente, in quanti ci siamo trovati nella condizione di dover scegliere uno o più vini facendoci guidare sì dalle nostre conoscenze o da referenze di terzi, ma anche dal nostro istinto e dalle nostre preferenze visive? Quante volte ci siamo trovati di fronte ad etichette ammiccanti, packaging fantasiosi che generano curiosità e voglia di approfondire o a delle mise semplicemente eleganti perfettamente in linea con la nomea di un determinato vino? E quante volte ci siamo sottratti all’acquisto di vini non in grado di comunicare o il cui packaging non è stato considerato all’altezza della situazione specifica?

E’ accaduto, accade ed accadrà essendo il consumatore sempre più informato ed essendoci mezzi a disposizione che forniscono informazioni che un tempo magari non erano così rilevanti (o lo erano ma solo per gli esperti di settore).

Il trend è comune a tutti i mercati (non solo del vino visto che sia i superalcolici che l’acqua e bevande gassate non sono da meno) ma nel nostro mondo si notano con maggiore chiarezza le scelte aziendali volte ad un maggior focus sull’apparenza e la percezione del prodotto al cliente (consumatore o meno).

Questo avviene perchè ovviamente il mercato del vino è fortemente eterogeneo e caratterizzato da una storia spesso legata ai singoli territori ed alle singole cantine, a loro volta custodi di una tradizione il più delle volte familiare che i trend del mercato non hanno modo di scalfire (o almeno non riescono a farlo, al momento).

Risulterà quindi sempre difficile ed anche limitante confrontare vini dove l’essenza è contenuta all’interno del vetro e vini dove l’involucro esterno risulta fondamentale per finalizzarne la vendita. Entrambi hanno l’esigenza di incontrare il potere d’acquisto del cliente ma le modalità in cui lo fanno sono radicalmente diverse, attivando il modo diametralmente opposto i sensi alla base del processo decisionale oltre che l’emozione, il trasporto ed il sentimento che possono caratterizzare determinati acquisti.

A supporto della scelta di un vino possiamo categorizzare elementi decisionali interni ed esterni. I primi fanno riferimento al vino di per sè, alla sua storia, alle tecniche di vinificazione ed affinamento, all’annata ed al terroir. I secondi sono invece riconducibili al modo in cui viene presentato il vino, all’etichetta, al packaging, al prezzo e altri fattori che permettono di raccontare il prodotto di per sè.

Come è emerso nello studio “Il neuromarketing incontra l’arte dell’etichetta” commissionato da UPM Raflatac a SenseCatch nel 2018, emerge chiaramente che, tralasciando la variabile prezzo, sono l’etichetta con il suo design, le tipologie di carta e di nobilitazioni ad influenzare la scelta di un vino piuttosto che un altro.

Come accennato dal titolo, la materia è stata analizzata a livello scientifico utilizzando la metodologia di ricerca di SenseCatch, che integra neuroscienze e consumer behavior per analizzare le ragioni dietro i processi decisionali del consumatore in modo oggettivo e scientifico.

Il lavoro di ricerca è stato pubblicato in questo libro e nell’articolo scientifico “Neuromarketing Meets the Art of Labelling. How Papers and Finishing on Labels Affect Wine Buying Decisions” della rivista American Association of Wine Economics.

Esistono quindi delle ragioni oggettive, oltre che soggettive, dietro determinate scelte d’acquisto che coinvolgono uno o più sensi nel valutare più alternative così da scremarle progressivamente per identificare il prodotto di maggiore interesse.

L’estetica intesa come ciò che più aggrada l’occhio tanto da creare soddisfazione per un acquisto entra quindi in gioco e ci porta a propendere per determinate opzioni a seconda che gli stimoli siano più o meno allineati alle aspettative.

L’aspetto esteriore di una bottiglia di vino, quindi, risulta chiave in questo scenario, con l’etichetta che gioca il ruolo più importante insieme ad un eventuale packaging esterno che rende il prodotto unico e da subito riconoscibile, oltre che fortemente attraente.

Anche focalizzando la riflessione soltanto sull’etichetta, il vero e proprio carattere distintivo di ogni vino, avremmo uno spettro molto ampio di messaggi da recepire ed analizzare: da qui il focus sulle dinamiche che spingono un acquirente a selezionare specifiche etichette a seguito di stimoli specifici legati alla grafica, alla percezione tattile, al mix di colori che contraddistinguono i singoli vini.

A seconda delle specifiche necessità che sottintendono al processo di acquisto, ciascuna o tutte insieme possono svolgere un ruolo più o meno decisivo, dai risultati fortemente eterogenei a seguito di un ragionamento razionale per buona parte ma, inevitabilmente (ed aggiungiamo, fortunatamente) anche emozionale.

La forza dell’etichetta (e non solo)

Immaginiamo uno scaffale ben rifornito di vino o, in alternativa, la pagina web di un e-shop che preveda una chiara e facile navigazione oltre che una corretta prospettiva di osservazione: questa è di sicuro una situazione classica che ognuno di noi ha vissuto (a maggior ragione essendo all’interno del Magazine di Winefully) e che ha visto entrare in gioco una serie di dinamiche tali da governare la scelta del proprio vino da acquistare.

Le ragioni a guidare la selezione sono varie e molte di essere sono legate alla motivazione intrinseca all’acquisto: un’occasione da celebrare, un presente da omaggiare, una bottiglia da collezionare, un vino desiderato da tempo finalmente disponibile, un’etichetta scelta in funzione di un consiglio diretto di un amico o indiretto da parte di social media o di guide internazionali, la disponibilità di determinati formati ed infine anche la dinamica prezzo, vuoi perchè legata ad un determinato budget o perchè in grado di generare un risparmio se confrontata ad altre opportunità di acquisto. In cosa consiste il fil rouge che connette, in modo più o meno intenso, le motivazioni menzionate, sicuramente non esaustive di tutte le opportunità di acquisto che possiamo vivere? L’estetica, ovvero la percezione mediata attraverso i sensi delle caratteristiche di un prodotto che, al momento dell’acquisto, non si conosce o si conosce solo in parte.

E’ fuori dubbio che l’antico detto secondo cui “anche l’occhio vuole la sua parte” si applica molto bene a tali situazioni d’acquisto, da qui il ruolo chiave del Marketing nel creare un certo appeal nel prodotto, la bottiglia di vino, tanto da motivare l’acquirente a selezionarlo in modo congiunto o disgiunto rispetto ad altre variabili parte del processo decisionale.

Non tutti i cinque sensi sono però stimolati nella fase di studio in cui si captano le informazioni di interesse: una bottiglia chiusa difficilmente potrà stimolare l’olfatto salvo che le condizioni di stoccaggio del sito di acquisto non siano all’altezza e ci motivino ad allontanarci al più presto (vedi anche l’articolo “Bottiglie preziose: come conservarle a regola d’arte”), o il gusto; maggiori possono invece essere gli stimoli nei confronti dell’udito, soprattutto se combinato al tatto nel tastare una bottiglia ed immagazzinare una serie di informazioni dal suo profilo, da eventuali scritte impresse sul vetro o dalla qualità e grana di etichetta e capsula, ove presente.

Lasciamo inevitabilmente per ultima la vista, essendo questo il senso che condiziona maggiormente la scelta di un vino in sede di acquisto in persona condividendo, appunto, altri dettagli con tatto ed udito, e condizionando esclusivamente l’acquisto nel caso in cui si opti per piattaforme online.

Nel mondo dei vino è da tempo chiara la strategicità del packaging di una bottiglia: si investe moltissimo affinchè il prodotto trasmetta i valori della cantina, comunichi chiaramente ed in modo immediato al consumatore, permetta di andare oltre le informazioni di etichetta e retroetichetta, fornisca dettagli in linea con le legislazioni vigenti, menzioni il progressivo della bottiglia in caso di edizioni limitate o, e non in ultimo, fornisca un messaggio legato al posizionamento del prodotto a livello di Marketing.

Anche il più piccolo dettaglio conta e può realmente fare la differenza: oggettivamente, in quanti ci siamo trovati nella condizione di dover scegliere uno o più vini facendoci guidare sì dalle nostre conoscenze o da referenze di terzi, ma anche dal nostro istinto e dalle nostre preferenze visive? Quante volte ci siamo trovati di fronte ad etichette ammiccanti, packaging fantasiosi che generano curiosità e voglia di approfondire o a delle mise semplicemente eleganti perfettamente in linea con la nomea di un determinato vino? E quante volte ci siamo sottratti all’acquisto di vini non in grado di comunicare o il cui packaging non è stato considerato all’altezza della situazione specifica?

E’ accaduto, accade ed accadrà essendo il consumatore sempre più informato ed essendoci mezzi a disposizione che forniscono informazioni che un tempo magari non erano così rilevanti (o lo erano ma solo per gli esperti di settore).

Il trend è comune a tutti i mercati (non solo del vino visto che sia i superalcolici che l’acqua e bevande gassate non sono da meno) ma nel nostro mondo si notano con maggiore chiarezza le scelte aziendali volte ad un maggior focus sull’apparenza e la percezione del prodotto al cliente (consumatore o meno).

Questo avviene perchè ovviamente il mercato del vino è fortemente eterogeneo e caratterizzato da una storia spesso legata ai singoli territori ed alle singole cantine, a loro volta custodi di una tradizione il più delle volte familiare che i trend del mercato non hanno modo di scalfire (o almeno non riescono a farlo, al momento).

Risulterà quindi sempre difficile ed anche limitante confrontare vini dove l’essenza è contenuta all’interno del vetro e vini dove l’involucro esterno risulta fondamentale per finalizzarne la vendita. Entrambi hanno l’esigenza di incontrare il potere d’acquisto del cliente ma le modalità in cui lo fanno sono radicalmente diverse, attivando il modo diametralmente opposto i sensi alla base del processo decisionale oltre che l’emozione, il trasporto ed il sentimento che possono caratterizzare determinati acquisti.

A supporto della scelta di un vino possiamo categorizzare elementi decisionali interni ed esterni. I primi fanno riferimento al vino di per sè, alla sua storia, alle tecniche di vinificazione ed affinamento, all’annata ed al terroir. I secondi sono invece riconducibili al modo in cui viene presentato il vino, all’etichetta, al packaging, al prezzo e altri fattori che permettono di raccontare il prodotto di per sè.

Come è emerso nello studio “Il neuromarketing incontra l’arte dell’etichetta” commissionato da UPM Raflatac a SenseCatch nel 2018, emerge chiaramente che, tralasciando la variabile prezzo, sono l’etichetta con il suo design, le tipologie di carta e di nobilitazioni ad influenzare la scelta di un vino piuttosto che un altro.

Come accennato dal titolo, la materia è stata analizzata a livello scientifico utilizzando la metodologia di ricerca di SenseCatch, che integra neuroscienze e consumer behavior per analizzare le ragioni dietro i processi decisionali del consumatore in modo oggettivo e scientifico.

Il lavoro di ricerca è stato pubblicato in questo libro e nell’articolo scientifico “Neuromarketing Meets the Art of Labelling. How Papers and Finishing on Labels Affect Wine Buying Decisions” della rivista American Association of Wine Economics.

Esistono quindi delle ragioni oggettive, oltre che soggettive, dietro determinate scelte d’acquisto che coinvolgono uno o più sensi nel valutare più alternative così da scremarle progressivamente per identificare il prodotto di maggiore interesse.

L’estetica intesa come ciò che più aggrada l’occhio tanto da creare soddisfazione per un acquisto entra quindi in gioco e ci porta a propendere per determinate opzioni a seconda che gli stimoli siano più o meno allineati alle aspettative.

L’aspetto esteriore di una bottiglia di vino, quindi, risulta chiave in questo scenario, con l’etichetta che gioca il ruolo più importante insieme ad un eventuale packaging esterno che rende il prodotto unico e da subito riconoscibile, oltre che fortemente attraente.

Anche focalizzando la riflessione soltanto sull’etichetta, il vero e proprio carattere distintivo di ogni vino, avremmo uno spettro molto ampio di messaggi da recepire ed analizzare: da qui il focus sulle dinamiche che spingono un acquirente a selezionare specifiche etichette a seguito di stimoli specifici legati alla grafica, alla percezione tattile, al mix di colori che contraddistinguono i singoli vini.

A seconda delle specifiche necessità che sottintendono al processo di acquisto, ciascuna o tutte insieme possono svolgere un ruolo più o meno decisivo, dai risultati fortemente eterogenei a seguito di un ragionamento razionale per buona parte ma, inevitabilmente (ed aggiungiamo, fortunatamente) anche emozionale.

I fine wines fra investimento e collezionismo – Parte Prima

Possiamo considerare i fine wines una sorta di bene rifugio? È una domanda che, prima o poi, tutti gli appassionati di vino si fanno, soprattutto osservando l’andamento di un mercato che, al netto di qualche piccolo fisiologico rallentamento, sembra ormai da anni non conoscere crisi. Le risposte, come sempre davanti alle domande complesse, sono più di una. Iniziamo col dire che i vini pregiati sono una forma di investimento ma che i connotati di quest’ultimo cambiano molto a seconda dell’attitudine di chi acquista: c’è chi ha un approccio prettamente “finanziario” e che compra, costruendo una sorta di portfolio di investimento – a volte affidandosi a veri e propri consulenti finanziari specializzati nel settore – sempre tenendo ben presente la componente di rischio che è propria di ogni operazione di questo tipo. È una dinamica simile a quella di altri settori di investimento, con, però, un elemento differenziante rispetto a tutti gli altri mercati: nel momento in cui si acquista un vino pregiato, si acquista un oggetto di un certo valore economico, dotato di una fortissima allure esperienziale, capace di mitigare gli imponderabili fattori connessi a un investimento, che in fondo è sempre anche una scommessa. Il vino “da investimento”, infatti, rimane prima di tutto un eccellente prodotto enologico, che nella peggiore delle ipotesi può essere consumato, regalando al proprietario (e ai suoi fortunati commensali) una probabile esperienza memorabile, in grado di compensare l’eventuale perdita economica. Il vino pregiato, dunque, da questo punto di vista, è un tipo di investimento che potremmo definire meno “freddo”, perché comunque legato a una passione e a un certo gusto da bon vivant.

Accanto a questo approccio, per certi versi anche meramente speculativo, esiste quello del collezionista, ovvero di chi acquista – con amore e competenza – con l’idea di costruire una cantina, dinamica e varia del punto di vista delle referenze e della loro provenienza, dove i grandi classici affiancano nomi nuovi dal buon potenziale futuro. Una collezione, dunque, che acquisisce valore nel tempo e nel suo insieme e pensata per un fine personale, senza magari escludere l’opportunità di una buona vendita al momento giusto. Se questi sono gli identikit di chi investe in vino, possiamo dire che anche il vino pregiato ne ha uno.

Esistono, infatti, alcuni parametri che determinano il suo valore economico: dalle annate che hanno ottenuto punteggi elevati alle edizioni speciali o “a tiratura limitata”, passando per i cosiddetti formati speciali, come magnum o doppio magnum dalle produzioni contenute e numerate.

Per quanto riguarda, invece, le etichette, le grandi icone – come i Premier Cru Classé di Bordeaux, i Grand Cru di Borgogna o i nostri Barolo e Supertuscan – rimangono tali e sono pressoché inscalfibili ma, come certifica l’ultima edizione della classifica del Liv-ex, il panorama è in costante evoluzione con una grande crescita proprio dei fine wines italiani e di una nuova generazione di vini californiani ma anche tedeschi, cileni e australiani che nei nei rapporti – punto di riferimento per il mercato secondario – hanno dimostrato ottime perfomance.

Ciò che determina queste evoluzioni non è semplicemente la normale crescita qualitativa delle cantine o il naturale evolvere del gusto ma anche e soprattutto l’andamento della critica internazionale: personaggi influenti come James Suckling e Robert Parker, con le loro valutazioni, da decenni non solo aprono la strada a nuove tendenze, ma orientano a tutti gli effetti l’andamento del mercato.

In Italia uno degli esempi più evidenti è rappresentato dalle vicende recenti di Montalcino, qui nell’ultimo decennio il lavoro serio e tenace di diverse aziende per alzare il livello qualitativo del loro Brunello ha dato i suoi frutti ed è stato premiato a livello internazionale, ma non bisogna dimenticare che senza l’innamoramento di Suckling per il borgo e il suo vino più celebre probabilmente alcune cantine, più o meno note, non avrebbero goduto dell’incredibile visibilità che hanno oggi.

Quando si parla di fine wines non si può prescindere dal canale di acquisto: il vino è “un alimento vivo” che va  trattato con una serie di cautele, perché troppi passaggi di mano e una logistica poco accurata possono danneggiarne la qualità e il valore. Per questo, il consiglio migliore è sempre quello di acquistare direttamente in cantina oppure da professionisti che lavorano per assegnazione e per questo comprendono il valore economico ed enologico del vino e sono anche adeguatamente attrezzati per ridurre al minimo i rischi. Per gli stessi motivi, l’altro elemento fondamentale è lo stoccaggio: come vi abbiamo raccontato qualche tempo fa (link), la corretta conservazione del vino è un passaggio determinante per mantenerlo in ottime condizioni e assecondare tutto il suo potenziale evolutivo, tanto per poterlo consumare quanto per poter monetizzare il suo acquisto. Ci sono accorgimenti per costruire una cantina casalinga che sia adeguata alla conservazione, ma bisogna anche dire che raramente il contesto domestico, per quanto ben attrezzato, può rispettare tutte le condizioni ideali di stoccaggio. Proprio partendo da questa consapevolezza è nato, per esempio, il nostro servizio su richiesta e senza costi aggiuntivi, per conservare le bottiglie dei nostri clienti in condizioni ottimali, fino a quando lo vorranno.

Accanto al canale di acquisto e allo stoccaggio c’è un terzo fattore imprescindibile per chi vuole considerare la propria collezione di fine wines un investimento finanziario: il canale di vendita. Vendere privatamente implica la possibilità proporre prezzi più vantaggiosi e allettanti per chi acquista ma il limite è rappresentato dal fatto che ci si muove in un’area opaca, dove non ci sono regole ben definite e tutto dipende, in sostanza, dalla serietà delle due parti in causa e dalla loro capacità di creare una fiducia reciproca tale da permettere le negoziazioni. La soluzione migliore, dunque, è quella di guardare a realtà specializzate che, avendo accesso al mercato primario, non solo sono sempre aggiornate sugli andamenti del mercato e della critica, ma adottano anche policy tali da garantire venditore e acquirente.

Sono le stesse realtà professionali che aiutano a capire il giusto valore economico della bottiglia. La valutazione di un vino è qualcosa di complesso e in qualche misura aleatorio perché il prezzo lo fa il mercato – per esempio il già citato Liv-ex – ma parliamo di un mercato abituato a lavorare sui cosiddetti lotti vergini (le casse di legno chiuse e sigillate) e non su singole bottiglie e sempre nel rispetto delle condizioni di stoccaggio e logistica di cui abbiamo parlato poco fa. Il singolo venditore privato, quindi, si trova inevitabilmente in una condizione di svantaggio se decide di agire autonomamente, senza l’intervento di società specializzate che possano guidare la vendita nella maniera più appropriata e vantaggiosa. È quindi sempre utile – se non necessario – confrontarsi con realtà con esperienza e capacità negoziali e tecniche, per impostare al meglio la vendita o semplicemente per scambiare qualche opinione sulla propria cantina privata, ma anche per comprendere le dinamiche di un mercato sicuramente più complesso, variegato e sfaccettato di quanto possa sembrare a una prima osservazione.

Concludiamo rimandandovi al prossimo articolo del Magazine Winefully per i nostri consigli circa vini, annate e formati che riteniamo si prestino meglio a un acquisto o al collezionismo, con o senza fini di una eventuale futura rivendita.

Redazione 07.10.2021

Drengot: il rinascimento dell’Asprinio

Alberto Verde è un quarantaduenne dallo spirito indomito, orgogliosamente campano, che per argomentare le ragioni del suo incondizionato amore per la Campania arriva a citare il filosofo francese Régis Debray, che nel suo ultimo libro (Contro Venezia, pubblicato qualche mese fa) definisce Napoli come «la vitalità incarnata. […] La città meno narcisista che ci sia, l’unica in Europa dove il mito si incontra per strada, dove il passato si vive al presente».

Da questo amore e dalla conoscenza profonda del territorio è nato un progetto ambizioso di riscoperta e valorizzazione dell’Asprinio, un vitigno autoctono dell’aversano con una vicenda unica, che si intreccia con quella degli Angiò ma anche quella dello champagne e del Greco di Tufo e che testimonia le profonde trasformazioni (non sempre positive) vissute dal territorio campano nel corso della storia. Con la sua cantina, Drengot – in omaggio al conte normanno Rainulf Drengot, che nel 1030 fondò Aversa – oggi Alberto produce tre ottimi vini, a base di Asprinio proveniente dalle vigne ultracentenarie di famiglia.

Lo abbiamo incontrato prima della pausa estiva e ci siamo fatti raccontare qualcosa di più su Drengot e sulla sua visione.

Sei partito da una vigna di famiglia e da lunga storia, operando una piccola rivoluzione nel territorio di Cesa e di tutto l’aversano. Ci racconti come è nato il tuo progetto e perché hai scelto di lavorare solo con Asprinio?

Per raccontarti come siamo arrivati a Drengot voglio fare una premessa, per me importante, che riguarda il territorio in cui ci troviamo.

La provincia di Caserta è una delle migliori di Italia per la vitivinicoltura perché è estremamente fertile – siamo nel cuore di quella che gli antichi chiamavano Campania Felix – ma proprio la sua fertilità ha fatto sì che, soprattutto dal dopoguerra in avanti, ci si concentrasse su coltivazioni intensive, per sfruttare al massimo la ricchezza del territorio. Anche perché i prodotti alimentari del casertano non hanno eguali in Italia dal punto di vista qualitativo e, quindi, sono sempre stati molto richiesti. Non lo dico per partigianeria, è la realtà e lo dimostra il fatto che ancora oggi la gran parte dell’industria agroalimentare del paese viene qui a comprare materie prime e prodotti per poi rivenderli con la propria etichetta. Il limite di questo sistema qual è, però? Che questa zona, speciale dal punto di vista agronomico, ricchissima in biodiversità e con una lunga tradizione agroalimentare, è diventata, nel tempo, una terra di contoterzisti a servizio di tutte le aziende del paese. È stata la sorte di molte zone del Sud Italia, a seguito del boom economico e con la parallela perdita della vocazione agricola di queste zone. Sembra, però, che le cose stiano piano piano cambiando, anche se ci vorrà tempo per vedere i risultati.

Sì, è vero, gli imprenditori agricoli di nuova generazione stanno cercando di fare un lavoro diverso. Per esempio, qui nell’aversano ci sono tantissime aziende agricole che operano in biologico e soprattutto si stanno facendo strada molte realtà che hanno scelto di entrare nella grande distribuzione con un marchio proprio e con un posizionamento e una strategia di comunicazione a supporto. Stiamo cercando di uscire dalla logica contoterzista per riappropriarci della nostra identità, anche per poter dare il giusto valore – economico e culturale – ai nostri prodotti, che sono davvero di qualità altissima, che si tratti di frutta, di verdura, di vino o di formaggi.

La cosa più difficile è capovolgere la prospettiva e allontanare tutti quei pregiudizi che si sono nel tempo accumulati e che, nella maggior parte dei casi, sono frutto di una pessima narrazione delle nostre terre e della nostra storia.

Tu con Drengot stai cercando di dare un tuo contributo per quanto riguarda il vino, dando una nuova vita a varietà autoctona come l’Asprinio. Mi sembra che il tuo progetto sia animato da un certo spirito battagliero.

Assolutamente sì. Quando ho iniziato a pensare di avviare un progetto sui terreni di famiglia, non avevo in mente di fare vino ma ero sicuro di voler qualcosa per restituire a questo territorio quello che merita, con un misto di orgoglio e di senso di riscatto, per tutto quello che ci è stato tolto e le opportunità che non ci sono state date.

La scelta dell’Asprinio è arrivata strada facendo, ci sono stati due episodi piccoli ma decisivi. Il primo è stato una lunga chiacchierata con un produttore di vino del Veneto, per il quale l’Asprinio è uno dei bianchi migliori d’Italia. Per me è stata una sorta di illuminazione, che mi ha portato a riflettere molto, anche perché la mia famiglia alleva Asprinio da sempre, almeno dal 1800, ma sicuramente potremmo andare ancora più indietro, volendo fare un po’ di ricerca. E io stesso sono cresciuto in mezzo alle vigne, insieme ai miei cugini ho passato tutte le mie estati di bambino e ragazzino lì. Quindi, dopo questo incontro ho fatto un giro nella vecchia cantina di mio nonno e per le vigne e così ho deciso, immaginandolo subito come un progetto di lungo respiro, a venti – ma anche trenta – anni. Volevo costruire qualcosa che potesse durare nel tempo e che desse davvero valore a questa terra. L’Asprinio ha caratteristiche che lo rendono unico nel panorama vinicolo italiano. Ci dici qualcosa di più?

Per prima cosa bisogna dire che è un vitigno che qui si alleva fin dall’antichità e che definire territoriale è poco, perché cresce solo qui e quando dico “qui” intendo i quindici comuni dell’aversano, perché se già provi a spostare l’Asprinio di pochi chilometri, diciamo a Caserta, non cresce più.

E fammi fare anche un piccolo excursus storico: nel Settecento, a causa di una pandemia a Napoli e dintorni, un nobile locale decise di trasferirsi e isolarsi – non abbiamo certo inventato noi il lockdown –  nel castello di Tufo, portando con sé, fra i vari beni, anche alcune viti di Asprinio per impiantarle nei terreni circostanti. Ora, una delle caratteristiche di questa varietà è che si sviluppa in altezza, raggiungendo e superando i 15 metri,  a Tufo però le viti non riuscivano a crescere e presero nel tempo un’altra fisionomia e altre caratteristiche: il Greco di Tufo è nato dall’evoluzione di quelle prime viti di Asprinio.

E proprio dalla straordinaria altezza di cui ti parlavo deriva la peculiare struttura delle alberate aversane: le viti di Asprinio crescono intrecciate – o “maritate” come si dice da noi – ai pioppi che vengono utilizzati come supporti, mentre i tralci si attorcigliano a cavi di ferro zincato, creando quasi dei muri vegetali. È un’altra di quelle meraviglie che si trovano solo qui, tanto che le alberate sono state riconosciute come patrimonio immateriale della Regione Campania.

La leggenda dice che l’Asprinio è stato il primo spumante dalla storia. Quanto c’è di vero?

È tutto vero! Semplicemente perché l’Asprinio ha un’acidità di dieci decimi. Non esiste nessun’altra uva che raggiunge questi livelli, quindi si può dire che dall’Asprinio nasce un vino naturalmente frizzante. È uno spumante naturale di fatto e quando diciamo che le bollicine sono nate qui, lo diciamo perché alla corte degli Angiò si beveva solo Asprinio, proprio perché frizzante. Tutto questo è documentato.

Il primo documento ufficiale in cui si cita l’Asprinio è datato 1495 ed è una scrittura privata fra un proprietario terriero e il suo colono ma, come ti dicevo, nell’aversano si alleva da sempre.

È incredibile come un vino così speciale sia stato così poco valorizzato, quasi dimenticato. Credo che sia una dinamica collegata anche al contoterzismo di cui parlavi prima.

Sì, certo. In realtà a livello locale non si è mai smesso di consumare Asprinio ma diciamo che è sempre stato il classico vino da vendere sfuso o da produrre e destinare a uso privato e questo perché dal secondo dopoguerra fino agli anni Novanta il grosso della produzione era destinato alla cantina della Vecchia Romagna, che pagava molto bene le uve per due utilizzi: l’uva era usata per ottenere una base spumante da vendere ai produttori francesi di champagne; con la vinaccia, invece, si otteneva il famoso brandy. Quindi, per decenni – fino alla chiusura di questa cantina – non è stato più redditizio produrre un nostro vino.

Per quanto riguarda la nostra azienda agricola, alla morte di mio nonno (nel 1990), mio padre ha preso in mano la sua gestione, dedicandosi soprattutto alla vigna che è antica, tutte le nostre piante hanno circa 200 anni. Drengot nella sua fisionomia attuale quando è nata, quindi?

Le prime due annate sono state la 2015 e 2016, ma nei fatti sono state dei test, non abbiamo mai pensato di commercializzarle. Nel 2017 ho ripensato tutta la struttura, con un nuovo gruppo di lavoro che funziona molto bene e, così, siamo arrivati a una formula convincente: il lancio sul mercato del vino è avvenuto nel 2018 e quello dello spumante nel 2019.

Avevo in mente un prodotto “ultra-territoriale”, lavorando solo ed esclusivamente con Asprinio, per tutti i motivi che già ti ho raccontato, e volevo che fosse un prodotto di alta qualità che rendesse finalmente giustizia al grande potenziale di quest’uva. Volevo dimostrare, ai miei conterranei prima di tutto, che quel vino, che qui chiamavano tradizionalmente “il vinello”, poteva essere un ottimo vino, di grande piacevolezza e con buon potenziale evolutivo. Un vino di fascia alta.

Ho scelto il nome Drengot per dichiarare da subito il legame con il territorio. Mentre le nostre tre referenze hanno nomi connessi alla storia locale: Terramasca significa terra vulcanica, quindi rimanda al carattere delle nostre terre, Scalillo è un omaggio alla scala che usiamo durante la vendemmia e che ha una particolare forma rastremata per consentire la raccolta manuale sulle nostre alberate e, infine, Asprinium per celebrare fino in fondo la nostra varietà, con un rimando al mondo latino, quindi alle nostre radici.

Terramasca è la vostra referenza di punta, lo definirei un metodo Charmat “nobile” perché matura un anno in acciaio, fa diciotto mesi di affinamento sui lieviti, con un riposo, poi, in bottiglia di almeno altri sei mesi. Considerando, però, il carattere naturalmente frizzante dell’Asprinio, mi viene spontaneo chiederti se pensi di produrre anche un metodo classico.

In realtà ci stiamo già lavorando e ti posso dire che, nel futuro prossimo, Terramasca sarà esclusivamente un metodo classico, non posso essere più preciso perché vogliamo prenderci tutto il tempo che ci serve per arrivare a una bollicina perfetta, che ci soddisfi a pieno. Quest’uva se lo merita!

Sicuramente, Terramasca rimarrà la nostra eccellenza, ma non abbandoneremo del tutto lo Charmat. Lo useremo, infatti, per una nuova referenza un po’ più giovane e non più di annata e per questo più accessibile nel prezzo. Per me è importante, in questo momento, far arrivare l’Asprinio a un pubblico ampio, senza naturalmente abbassare la qualità. Il tuo progetto sta dimostrando fin dove può arrivare l’Asprinio. Che impatto ha avuto il tuo approccio a livello locale? Come è stato recepito?

Ciò che ho portato io qui è stata soprattutto una mentalità positiva: il prodotto c’era ma era poco considerato, da noi per primi. E per questo motivo, nonostante tutte le peculiarità dell’Asprinio, il vino è sempre stato di bassa qualità; quello che ho scelto di fare io, invece, è stato nobilitarlo al massimo, mettendo in piedi un gruppo di lavoro di alto livello e mostrando a tutti tutto il potenziale che abbiamo. E nel farlo ho stupito positivamente i consumatori ma anche gli altri imprenditori agricoli. Diciamo che sono riuscito a smuovere le acque.

Per me, personalmente, Drengot va oltre le opportunità imprenditoriali, è un progetto che riguarda soprattutto il territorio nella sua interezza: sono partito dall’Asprinio per dare nuovo valore a tutto quello che abbiamo qui. Però ammetto che c’è tantissimo da fare e che sono solo agli inizi, con la complicazione che ci troviamo a dover fare il lavoro di un consorzio, che qui non c’è.

Capisco, anche perché per portare avanti certi discorsi servono le istituzioni e serve anche una visione di marketing territoriale, che sono può essere affidata solo a un singolo.

Devo dire che le Pro Loco qui stanno facendo un gran lavoro di supporto. L’inserimento dell’Asprinio fra i beni immateriali campani, si deve al loro impegno. È un riconoscimento importantissimo, non solo a livello simbolico ma anche perché vincola tutti a una tutela delle viti e a una cura del territorio che prima non c’erano. Recentemente è stato fatto anche il passo successivo per ottenere il riconoscimento dall’UNESCO.

Inizia a esserci un certo movimento e una certa attenzione che prima mancavano e che riguardano l’Asprinio ma anche tutti i nostri prodotti locali. Vedo, per esempio, un rinascimento complessivo del vino del casertano, qui c’è un lunghissima e preziosa tradizione: abbiamo tanti rossi e tanti bianchi da splendide uve autoctone, sono poco conosciuti ma stanno trovando nuovo vigore, come il Casavecchia, che è davvero ottimo. È un bene perché si può creare, con il tempo e con il lavoro, un circolo virtuoso per tutto il territorio.

Per quanto riguarda me, sono molto ottimista perché credo molto nella qualità del mio prodotto, so che la storia dell’Asprinio ha un fascino tutto suo e sono molto determinato a contribuire alla rinascita della mia terra. Si tratta unicamente di dare tempo al tempo e lavorare con tenacia.

Redazione 7.09.2021

Luciano Sandrone: nati sotto il segno del Nebbiolo

Nel periodo più intenso dell’anno, quello della vendemmia, Barbara Sandrone – figlia di Luciano – è riuscita lo stesso a dedicarci un po’ del suo tempo per raccontarci la storia della loro cantina, che, prima ancora di essere una bellissima vicenda imprenditoriale, è un’intensa vicenda di famiglia e di affetti. Una storia nella quale l’amore che lega le tre generazioni oggi in azienda trova un riflesso e un completamento nel rapporto quasi simbiotico con il territorio, dal quale nascono sei vini che interpretano la tradizione in maniera pura e appassionata.

Tuo padre Luciano, il fondatore della vostra cantina, ha una bellissima storia personale. Vorrei partire da qui, se ti va.

Sì, certo, per noi è sempre una gioia raccontare come è iniziato tutto perché non veniamo da una tradizione di famiglia nel vino. Mio nonno, in realtà, era falegname e, a un certo punto, decise di trasferirsi a Barolo per ampliare la sua attività e – chiamalo caso oppure destino – la sede della nuova falegnameria era a fianco della cantina del grande Giacomo Borgogno. Mio papà all’epoca era un ragazzino e si divideva fra questi due mondi, con il signor Giacomo che lo aveva preso in simpatia e gli ripeteva sempre – in dialetto piemontese ovviamente – “Cresci in fretta Luciano, perché qui c’è posto per te”. E alla fine è andata davvero così: dopo l’avviamento, ha iniziato a lavorare insieme a lui, assorbendo tutti i suoi insegnamenti e osservando tutti i suoi gesti. Un’esperienza bellissima per mio padre che è durata fino al servizio militare, poi al suo ritorno in paese è diventato capo cantiniere per le famiglie Abbona e Scarzello, titolari de  Marchesi di Barolo, nel 1970. Aveva solo ventiquattro anni ed è rimasto lì fino al 1990. A che punto di questo percorso Luciano ha deciso che voleva fare un vino suo, partendo da zero?

È successo verso la fine degli anni Settanta, mio padre ha iniziato ad avere desiderio di confrontarsi anche con quello che accade, prima della cantina, in vigna. La qualità del vino, lo sai, nasce nel vigneto e lui voleva capire meglio anche quella parte di processo. Nel 1977 è arrivato l’acquisto del vigneto Cannubi Boschis, da cui poi è nato il nostro primo Barolo.

Mio padre non aveva spazi o strumenti di proprietà perché – come ti dicevo – non veniva da una famiglia di vignaioli, perciò è partito da zero, usando il nostro garage perché era il miglior luogo che aveva a disposizione. La nostra azienda è cresciuta in questa maniera semplice e per piccoli passi: prima con pochi fusti, poche vasche e a volte attrezzi di seconda mano; poi nel tempo abbiamo affittato altri garage per poterci allargare un po’ e, infine, il progetto della nuova cantina, che è arrivato solo nel 1998. Si trova sempre qui a Barolo, proprio ai piedi della collina di Cannubi e qui siamo riusciti, gradualmente, a portare tutto dentro: dai trattori alle sale dove affiniamo.

Ti vorrei fare una domanda riguardo al vostro carattere che si riflette, in ultimo, nei vostri vini. Siete sicuramente uno dei nomi di riferimento per il Barolo, eppure mi sembra che siate riusciti a conservare quello spirito garagista, essenziale e semplice degli inizi, come ci siete riusciti?

Non saprei. Non c’è stata una strategia, abbiamo solo creduto tanto, con il cuore e con la testa, in quello che abbiamo fatto e abbiamo voluto rimanere una famiglia, anche se questo ha significato darsi dei limiti. Ma va bene così perché vogliamo gestire le cose in una certa maniera – la nostra – e vogliamo esercitare il controllo su tutte le fasi in vigna e in cantina.

Non bisogna avere fretta e questa è una cosa che prima di tutto ci dicono i nostri vigneti. Se c’è una cosa che la famiglia del Nebbiolo insegna è proprio l’arte della pazienza e del saper aspettare. Ti direi che questo insegnamento dalla vigna lo abbiamo trasposto a tutti gli aspetti del nostro lavoro. Questo è anche uno dei motivi per i quali, in fondo, i nostri vini non sono tanti, perché abbiamo scelto di farci guidare dai vitigni autoctoni e dalla tradizione, senza avere fretta. Pensa che il nostro ultimo nato, il Barolo Vite Talin, ha avuto più o meno trent’anni di gestazione prima di vedere la luce.

Tu ti occupi della parte commerciale, giusto?

Sì, anche se ammetto che non mi piace chiamarla così. Lavoro insieme a un gruppo di sole donne davvero molto in gamba, ci tengo a dirlo perché penso che l’abilità relazionale femminile faccia la differenza. Per noi è indispensabile far capire ai distributori la complessità di certe scelte che facciamo, a volte all’apparenza antieconomiche ma coerenti con la nostra filosofia.

Mio zio Luca con la sua squadra di otto  persone segue, invece, la vigna. Con l’arrivo del vigneto Le Corse di Monforte, che entrerà a far parte del Barolo Le Vigne dall’annata 2019, siamo a trenta ettari. Ti parlo di questa acquisizione perché ci teniamo davvero tanto: il titolare dell’appezzamento è sempre stato in rapporti di stima e di collaborazione con mio padre, nel momento in cui ha scelto di ritirarsi ha voluto venderlo a noi perché sapeva di lasciarlo a qualcuno con un certo pensiero e un certo modo di lavorare. Per noi è stata una grande soddisfazione e anche un onore. Con l’ingresso in azienda dei tuoi figli, Alessia e Stefano, siete alla terza generazione ormai ma si può dire che siete ancora oggi prima una famiglia e poi un’azienda. Quanto influisce questo nel vostro modo di fare vino?

Essere famiglia è una forza incredibile. Ovviamente non dimentichiamo mai di essere un’azienda ma lo facciamo animati da un sentimento comune e anche dal rapporto che ci lega e questo ci consente, credo, di lavorare con una serenità e una convinzione fortissime.

Sul vostro sito ho notato che definite il vino per sua stessa essenza “naturale”, ci racconti qualcosa di più su come lavorate?

Per noi le nostre vigne sono come persone, sono parte della nostra famiglia: occorre curarle, essere presenti, saperle ascoltare, senza prevaricare. Ti faccio l’esempio del Nebbiolo di Barolo e di Valmaggiore: la varietà è la stessa, ma le condizioni pedoclimatiche e idriche sono così diverse che dobbiamo rapportarci a loro in modi altrettanto diversi. Siamo noi a dover essere capaci di cogliere i segni che la vite ci dà e aiutarla a compiere il suo percorso. Questo richiede una cura che assomiglia alla dedizione, soprattutto nei momenti più delicati come l’estate o quelli che precedono la vendemmia. Luca a fine agosto inizia a campionare per parcelle perché chiaramente, a seconda dell’esposizione, i tempi e i modi della maturazione cambiano molto e questo determina una vendemmia molto articolata, nel senso che ogni appezzamento, anzi ogni parcella fa storia a sé. È il motivo per cui abbiamo molte persone a supporto, che devono essere specializzate ma anche appassionate. Il lavoro in vigna è sempre tanto e faticoso e richiede in parti uguali competenza e sensibilità.

Voi operate a tutti gli effetti in biologico ma non avete certificazione. Non la ritenete utile?

Non ci definiamo biologici, o meglio operiamo alla nostra maniera da sempre ma non abbiamo bisogno di una bollinatura, perché sappiamo come lavoriamo. La mia famiglia è radicata qui, ora ci sono i miei figli che lavorano con noi, amiamo questi luoghi, sarebbe assurdo violare questa terra che ci ha dato tanto, lavorando male, con interventi poco rispettosi.

Usate lieviti indigeni e praticate la fermentazione spontanea, possiamo dire che non avete scelto la strada più facile. Le variabili che entrano in gioco operando così sono molto maggiori.

Lavoriamo così da sempre, non ti saprei nemmeno dire com’è essere diversi. E forse per questo sento meno i rischi e le complessità. È anche vero che siamo aiutati dal fatto di conoscere bene i nostri vigneti e che il patrimonio genetico delle nostre uve è talmente unico che va conservato. Detto questo, scegliere di operare in questo modo richiede un’attenzione maniacale, assoluta. Per farti un esempio, quando bisogna fare i rimontaggi, durante la fermentazione, le persone in cantina si fermano poche ore al giorno, perché ci vuole una cura pazzesca e perché questi lieviti sono vivi e non si comportano mai nello stesso modo. Anche in questo caso, ci vuole competenza ma soprattutto bisogna “sentire” questo lavoro, capire che si ha a che fare con qualcosa di vivo, di pulsante.

Siete naturali e biologi ma mi sembra che siate molto poco interessati al dibattito sul naturale e alle tendenze che ha innescato.

Sinceramente noi abbiamo sempre seguito la nostra strada, senza cercare di assomigliare a qualcun altro. Spesso siamo anche andati controcorrente, per esempio, quando negli anni Novanta c’erano barrique ovunque e sembrava che bisognasse barricare tutto, mio padre ha sempre ostinatamente usato il tonneaux, a volte facendo una fatica incredibile per trovare le botti perché c’era poca offerta. Ma noi abbiamo sempre pensato che il vino deve avere la sua personalità, rispetto alla quale il legno è solo un complemento e per questo siamo sempre andati avanti così. Magari, in questo modo si corre il rischio di non piacere a tutti, ma è giusto in un certo senso, è solo un bene che ci siano più voci e più strade possibili. Ben vengano anche tutti i dibattiti ma poi è importante che ognuno scelga il proprio percorso con indipendenza e coerenza.

Poco fa parlavi di vendemmia, in questo momento (ndr. inizi di ottobre) è ancora in corso quella di quest’anno. Non ti chiedo un bilancio perché è troppo presto ma una vostra prima impressione sul suo andamento.

In effetti non amo parlare della vendemmia prima che sia conclusa. Anche per questioni di scaramanzia! Però posso dire che siamo molto contenti di quello che abbiamo raccolto fino a questo momento. L’andamento climatico di quest’anno ci ha tenuti sempre con il fiato sospeso, con le gelate di aprile e poi le grandinate in estate. Sono stati tutti fenomeni abbastanza violenti ma devo dire che è andata bene e le uve sono sane e belle. Il raccolto è buono per qualità e quantità.

Sul nostro shop si trovano sia Le vigne sia Aleste, due Barolo con una allure particolare. Ci vuoi raccontare la loro storia?

Le Vigne è sempre stato un vino speciale per noi. I primi riconoscimenti sono arrivati con il Cannubi Boschis, ma mio padre ha sempre avuto nel cuore l’idea del Barolo secondo la tradizione dell’assemblaggio finale di uve di parcelle diverse. Mi piace descriverlo come una sinfonia di strumenti musicali che insieme esprimono compiutamente il territorio: ogni vigneto viene trattato, vendemmiato e vinificato da solo, nel rispetto delle sue caratteristiche e poi, con progressivi assaggi e prove, si decide la composizione finale capace di esprimere le caratteristiche dell’annata e del territorio. La nostra impronta c’è ma è sullo sfondo, per armonizzare le singole voci in un tutto. Aleste in realtà è il mitico Cannubi Boschis, che a un certo punto tuo padre ha deciso di rinominare, dedicandolo ai tuoi figli (Ale e Ste). Un generoso passaggio di testimone generazionale che però avrebbe gettato nel panico qualunque consulente di marketing. Come è andata?

Mi fai parlare di una cosa che ancora mi commuove perché ricordo benissimo quando mio padre ci ha spiegato che voleva dedicare alle nuove generazioni – all’epoca in arrivo – la cosa più preziosa che aveva: il suo primo vigneto e il suo primo vino. Sulle prime, io e Luca eravamo un po’ spaesati perché cambiare nome al vino che tutti considerano il nostro simbolo era un rischio dal punto di vista comunicativo. La cosa che ho ritenuto giusto fare è stato passare tantissimo tempo in giro per spiegare in prima persona ai nostri distributori questa scelta: era importante per noi che tutti capissero che si trattava puramente di una scelta di cuore che non coinvolgeva l’identità del vino. Il Barolo è rimasto lo stesso: un vino vigoroso, diretto, pieno, pronto da subito, anche per via della maturazione “più spinta” del vigneto Cannubi Boschis, che sta più in basso rispetto agli altri vigneti, quindi in una zona un po’ più calda.

Le Vigne, invece, è più floreale, più morbido, prima ti abbraccia e poi conquista la tua attenzione. Sono due personalità complementari.

Sibi et paucis che progetto è e perché non avete voluto fare una classica riserva?

È un accantonamento delle nostre bottiglie che facciamo da circa quindici anni. Abbiamo iniziato con una piccola quantità aumentando progressivamente. I vini riposano in una cantina dedicata per otto anni, quindi per dieci anni in tutto (due in fusto e otto in bottiglia) perché è un progetto nato per valorizzare la capacità del Nebbiolo di crescere nel tempo e pensato per noi e per coloro che vogliono comprendere cos’è un Barolo dopo dieci o venti anni. La riserva nasce già in vigna, da appezzamenti che le vengono dedicati ma noi non volevamo avere appezzamenti “speciali”. Sibi et paucis è sempre il nostro vino, semplicemente tenuto da parte, per noi e per gli amici.

Per concludere, come hai visto cambiare la Langa in questi decenni.

È una domandona questa. C’è una questione che mi sta a cuore: a me non è mai piaciuta la distinzione fra tradizionalisti e modernisti, perché penso che abbiamo tutti le stesse radici, senza le quali oggi non saremmo qui. È una distinzione che ho sempre percepito come un’esigenza comunicativa, per spiegare in maniera semplice, schematica – a volte troppo – un territorio complesso come questo.

Più che di due poli distinti parlerei di evoluzione: in una storia come la nostra è normale che si attraversino diversi momenti evolutivi, che però nascono tutti dalla tradizione. Oggi mi sembra che siamo arrivati a un punto di equilibrio fra le diverse anime, fra chi ha sperimentato di più e chi invece non si è allontanato dalle origini. E mi sembra un’ottima cosa.

Quattro brindisi (in rosa) per la nostra estate

È uno dei trend di mercato degli ultimi anni: finalmente – diciamo noi – le bollicine rosate iniziano ad avere il successo che meritano; certo, siamo ancora lontanissimi dai grandi numeri dei bianchi – che forse rimarranno irraggiungibili – ma gradualmente i rosé stanno uscendo dalla nicchia, attirando un numero sempre maggiore di estimatori. Una delle ragioni di questo nuovo interesse risiede probabilmente nella versatilità: il panorama delle bolle rosate, infatti, è così variegato per carattere ed espressività (e anche fasce di prezzo) che è possibile trovare un rosé giusto per ogni circostanza. E così abbandonando una volta per tutte l’obsoleto cliché del “vino da donne” e abbracciando le tante sfaccettature di questa tipologia di vini, si scopre che uno spumante rosé può essere un ottimo vino a tutto pasto – di pesce ma anche di carne, con i giusti abbinamenti – e che d’estate quel mix seducente di struttura e morbidezza, in proporzioni variabili a seconda dei casi, può essere un rinfrescante antidoto al caldo afoso.

Calendario alla mano, quale momento più propizio di questo, dunque, per proporvi quattro eccellenti bollicine per accompagnare le vostre vacanze? Uberti – Francesco I Franciacorta Rosé Brut. La bollicina rosata di Uberti fa parte della linea dedicata a Francesco I, un omaggio al re francese che – secondo la tradizione – nel Cinquecento decise di sostenere la produzione di vini spumanti, fino a quel momento poco diffusi perché considerati “difettosi”.

È una cuvée di Chardonnay (60%) e Pinot Noir (40%) che, con il suo piacevole color rosa confetto dai riflessi aranciati, declina in rosa la filosofia territoriale della famiglia Uberti. Le uve sono raccolte manualmente, sottoposte a una rigorosa selezione, per poi attraversare percorsi di vinificazione differenti – il Pinot Noir, infatti, sosta per qualche giorno a contatto con le bucce – ed essere infine assemblati. Dopo il tiraggio, Francesco I Rosé trascorre un minimo di trenta mesi sui lieviti prima della sboccatura e altri sei mesi in bottiglia prima del rilascio al pubblico. Il risultato è una bollicina fruttata e di grande morbidezza, non priva di freschezza e mineralità e, per questo, di un’eleganza pulita e bilanciata, come sempre accade con i vini di Uberti.

Ci piace perché: è una bollicina versatile, capace di intercettare il gusto contemporaneo senza rinunciare al proprio carattere elegante e identitario. Un rosé dalla beva facile ma non banale, perfetto per uno spensierato aperitivo estivo o per accompagnare un’intera cena vista mare. Ferrari – Giulio Ferrari Riserva del Fondatore Rosé 2008. Presentata alla fine del 2020, l’annata 2008 del Giulio Ferrari Rosé è solo la terza rilasciata sul mercato di questa riserva anagraficamente giovane ma già considerata un’icona delle bollicine italiane rosate. Il rosé alla maniera di Ferrari esalta il Pinot Noir di montagna, che costituisce il 70% del blend e che, grazie all’affinamento di dieci anni sui lieviti, si fonde armoniosamente con lo Chardonnay, in una sintesi elegante e finissima delle migliori uve destinate alle riserve dell’azienda.

Color salmone con riflessi ramati e un perlage fine e persistente, l’annata 2008 trasmette una vibrante intensità da subito, grazie al suo bouquet olfattivo complesso, nel quale le note agrumate si fondono con quelle fruttate di fragola e tamarindo, accenni speziati e note minerali di iodio e calcare. L’assaggio è strutturato e potente e allo stesso tempo lungo ed equilibrato, guidato dal filo rosso della freschezza, che costituisce l’inconfondibile cifra stilistica di casa Ferrari.

Ci piace perché: per tutti coloro che amano la freschezza e la mineralità delle bollicine di montagna, ma anche la struttura del rosé, Giulio Ferrari Rosé è quasi la bottiglia perfetta, la quadratura del cerchio che armonizza con eleganza questi due mondi. Un Trentodoc di grande carattere, che sicuramente può essere il brillante compagno di un’intera cena a base di pesce; il nostro consiglio, però, è di osare e lasciarvi sorprendere da abbinamenti più insoliti. Non vi deluderà. Dom Pérignon – Rosé Vintage 2006. Un mito nel mito, se è possibile. Un grande vino che nasce da uve provenienti da alcuni dei più prestigiosi Grand Cru e Premier Cru della Champagne e che viene prodotto, naturalmente, solo nelle annate migliori. Protagonista assoluto, il Pinot Noir che, supportato dall’immancabile Chardonnay e parzialmente vinificato in rosso, dona a questa riserva la struttura tannica che la rende unica.

Più di dieci anni di affinamento sui lieviti nobilitano questo champagne, che la stessa maison ha definito “paradossale” per l’equilibrio che riesce a raggiungere tra poli opposti: maturità e giovinezza, essenzialità ed espressività.

Vincent Chaperon – Chef de Cave di Dom Pérignon dal 2019, dopo tanti anni passati al fianco del grande Richard Geoffroy – dice a proposito del Rosé e dell’annata 2006 in particolare: «Trasgredisce le regole e ci mostra sicuramente una doppia anima: quella tenace, che viene fuori grazie alla forza sorprendente del vino rosso fermo e quella leggiadra e armonica che ci riporta nel cuore della produzione della Champagne. Trovare questo equilibrio è sempre una sfida. Fare il Rosé ci proietta sempre in una situazione di pericolo. Che solo con l’assaggio, dopo un lungo affinamento in bottiglia, viene scongiurato».

Ci piace perché: come potrebbe non piacerci? Siamo al cospetto di un vero capolavoro, che offre un’esperienza sensoriale intensissima. Con crostacei e crudi di mare è pura sensualità ma il consiglio migliore arriva da Chaperon che suggerisce di assaggiare il Rosé Vintage 2006 con spirito sperimentale e assolutamente libero.

Da non dimenticare che questo champagne ha anche un grande potenziale di invecchiamento, per chi vorrà e saprà aspettare. Perrier-Jouët – Belle Epoque Rosé 2007. È un paradigma quando si parla di bollicine rosé per via dell’armonia e dell’espressività che sono la sua cifra distintiva e non a caso lo Chef de Cave di Perrier-Jouët, Hervé Deschamps, lo definisce «un vino delicato e al tempo stesso ricco e voluttuoso; intenso, generoso e vigoroso ma anche di grande finezza». Il Belle Epoque Rosé è un assemblaggio di uve Chardonnay, Pinot Noir e Pinot Meunier provenienti dai più blasonati cru della Champagne, affina sei anni sui lieviti e viene prodotto, come si confà a uno champagne così prestigioso, solo nelle annate eccezionali.

Dall’elegantissimo colore rosa antico e da un perlage finissimo e cremoso, è un rosé dalla personalità stravagante, nella quale gli aromi floreali e fruttati si intrecciano a note agrumate, di spezie e frutta secca. Al palato è fresco e vivace ma anche intenso e cremoso. Perfetta espressione dello stile raffinato che da sempre caratterizza la Maison.

Ci piace perché: anche in questo caso sarebbe impossibile il contrario. Il Belle Epoque Rosé è uno champagne prezioso che trasmette lo spirito gioioso e vitale di quella Belle Epoque a cui deve il nome e che, anche per questo, regala un’esperienza gustativa sensuale ed espressiva. È una di quelle bottiglie che non dovrebbe mai mancare in una cantina ideale.

E – sorprendentemente se si pensa alla sua complessità – è uno champagne molto versatile e in virtù di questo può essere protagonista di diversi abbinamenti, dai più classici ai più inaspettati, che non faranno altro che esaltare quel carattere stravagante di cui parlavamo.

Redazione 10.08.2021

Speciale bollicine Ferrari

Il perlage del Trento Doc firmato dalla famiglia Lunelli incontra ricette a base di pesce perfette per l’estate (e per tutto l’anno).

Una cena in terrazza, un aperitivo in spiaggia o a bordo piscina, un pranzo con il mare sullo sfondo. E ancora, una buona compagnia e un menu a base di pesce, crostacei e molluschi: ecco il necessario per mettere su una situazione ideale in questi mesi estivi, tanto in città quanto in vacanza. A completare il tutto non mancano che delle “bolle” ben fresche, che accompagnino le portate e la conversazione.

Diversificata ma accomunata dalla grande attenzione alla qualità (e all’ambiente) e da una cifra stilistica incentrata sull’eleganza, la produzione trentina di Cantine Ferrari – l’azienda ultracentenaria creata da Giulio Ferrari e acquisita nel 1952 da Bruno Lunelli, oggi guidata dai nipoti Marcello, Matteo, Camilla e Alessandro – offre una gamma di etichette che permette di stappare e brindare a tutto pasto, realizzate con le uve Chardonnay e Pinot Noir dei vigneti trentini, secondo il disciplinare del Trento DOC che segue il metodo classico. Il Riserva Lunelli – Blanc de Blanc Extra Brut rotondo e dal bouquet complesso, tra gli ultimi nati in casa Ferrari – è un ottimo avvio per sciogliere il ghiaccio e accompagnare qualche assaggio iniziale, magari in versione finger food: dal classico e sempre buonissimo pane con burro e acciughe agli originali “crostini” di croccante pane carasau conditi con un’insalata di muggine, sedano e patate (o anche con la sapida bottarga, sempre smussata dalle patate).

Il sapore iodato ma con tendenza dolce delle cozze – cucinate al vapore e insaporite appena da olio extravergine, poco vino bianco e prezzemolo, con al massimo qualche goccia di limone – viene esaltato dal profilo avvolgente ma molto equilibrato e armonico della Gran Cuvée millesimata, nonché dal suo perlage fine e persistente, con sentori floreali e fruttati bilanciati da spezie e frutta secca. Disponibile solo in grandi formati, è una bottiglia da aprire con una compagnia (giustamente) numerosa e ideale anche per accompagnare primi piatti con delicati sughi a base di crostacei.

Caratterizzato da un naso vibrante di note agrumate e speziate e da un sorso che è insieme morbido, fresco e minerale, il Giulio Ferrari Riserva del Fondatore Rosé , realizzata con il 70% di Pinot Noir ad affiancare lo Chardonnay, è ideale per accompagnare tanto una croccante frittura di pesce quanto un sontuoso “cuoccio” (pesce cappone o gallinella di mare) cucinato all’acqua pazza secondo l’antica tradizione dei pescatori campani. Cotto in un tegame da forno con olio, aglio tritato e pomodori, ricoperto d’acqua e con abbondante aggiunta di prezzemolo a fine cottura, è un piatto saporito ma delicato la cui sapidità marina viene esaltata alla perfezione dall’eleganza delle bollicine.

– Luciana Squadrilli 15.07.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

La biodiversità: una risorsa nella lotta ai cambiamenti climatici

Già da tempo l’agricoltura si misura con uno scenario climatico differente dal passato: inverni più miti e brevi, estati sempre più calde e siccitose e, nel mezzo, eventi violenti e inaspettati, come gelate primaverili, forti grandinate e alluvioni sempre più frequenti.  Fenomeni che, nel loro insieme, stanno già influenzando qualità e quantità delle nostre produzioni agricole.

In questo contesto, poiché la vite è particolarmente sensibile alle variazioni climatiche, la viticoltura e, con essa, la produzione di vino, rischiano di subire pesanti trasformazioni a causa dell’aumento delle temperature. A dir poco preoccupanti sono le stime di uno studio condotto da un gruppo internazionale di ricercatori, che include studiosi dell’Institut National de la Recherche Agronomiquen (INRA) e del Bordeaux Sciences Agro Institute e i cui risultati sono stati pubblicati a gennaio sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences.

Analizzando l’impatto dei cambiamenti climatici su 11 varietà di vitigni – fra le quali Cabernet Sauvignon, Chardonnay e Pinot Noir – che rappresentano il 35% della superficie coltivata mondiale e più del 64% di quella coltivata in paesi a vocazione vitivinicola come Australia, Cile e Francia, lo studio afferma che – con un aumento atteso della temperatura di 2 °C – entro il 2050 il 56% delle aree vitivinicole del mondo potrebbe scomparire. I paesi più colpiti sarebbero quelli mediterranei come Italia e Spagna, che rischierebbero di perdere, secondo lo studio, circa il 65% dei loro vitigni, “a favore” di paesi come la Nuova Zelanda o gli stati del nord degli USA che, viceversa, potrebbero destinare più terra alla viticoltura.

Lo studio, per fortuna, non si limita a fornire uno scenario futuro piuttosto fosco (almeno per alcuni paesi) ma propone anche una soluzione, che fa affidamento sulla natura stessa e sulla sua resilienza. Nel mappare il comportamento delle 11 varietà in esame, infatti, i ricercatori, hanno sviluppato un modello che analizza e valuta lo sviluppo di ognuna di esse in tre differenti stadi – il germogliamento, la fioritura e l’invaiatura – applicando poi questo modello alle diverse regioni vitivinicole e simulando l’ipotetico aumento della temperatura di 2 °C, con l’obiettivo di capire quali varietà rispondono meglio a questo incremento. Facendo un esempio molto semplice, il Grenache, che matura molto tardi, si comporta molto bene anche in uno scenario climatico molto più caldo di quello attuale, mentre Pinot Noir e Chardonnay, che germogliano presto e hanno l’esigenza di un clima più freddo, potranno in futuro essere coltivati in zone fino a questo momento escluse dalla mappa mondiale del vino. Un fenomeno questo già in corso in parte, se si pensa allo sviluppo recente degli spumanti inglesi e alla scelta lungimirante di Taittinger di acquistare 69 ettari nel Kent, per spostarvi parte della sua produzione di Champagne, investendo sul fatto che, a breve, il sud della Gran Bretagna avrà un clima come quello della Francia settentrionale, con un suolo da sempre molto simile a quello della regione francese.

Lo studio mira a conoscere approfonditamente le capacità adattive delle diverse varietà a un contesto climatico differente da quello attuale, per aiutare il settore vitivinicolo a prepararsi meglio al cambiamento e a ridurre i danni che sicuramente – questo ormai è evidente – esso porterà con sé. Per il futuro, i ricercatori si propongono di studiare anche altre varietà meno diffuse per arrivare a una mappatura più completa.

Mettendo per un istante da parte i dati e le misurazioni scientifiche, l’elemento fondamentale che questo studio mette in evidenza è l’importanza della biodiversità. Sono circa 1.100, infatti, le varietà di vite coltivate attualmente note, un vero patrimonio che rappresenta una risorsa fondamentale nel contrasto al cambiamento climatico, perché può consentire ai viticoltori di diversificare i propri vitigni, guardando soprattutto a quelli autoctoni e alla loro spontanea adattabilità al contesto d’origine, per creare un ecosistema più sano e resistente capace, per questo, di rispondere meglio alle trasformazioni in corso.

Il francese INRA, inoltre, è fautore di un altro importante progetto a supporto della viticoltura del futuro. Si tratta di LACCAVE, lanciato nel 2012 con la collaborazione del Centre National de la Recherche Scientifique e di diverse università francesi con l’obiettivo specifico di fornire strumenti e conoscenze ai viticoltori francesi per fronteggiare il cambiamento climatico. Con un orizzonte temporale piuttosto ampio – fino al 2050 – LACCAVE promuove studi, ricerche e analisi interdisciplinari, che coinvolgono non solo l’enologia e l’agronomia ma anche la climatologia, la genetica, l’ecofisiologia e la matematica.

Infine, per citare un esempio italiano, molto interessante è come si sta muovendo il gruppo Gaja, con la scelta di tenute che si trovano a un’altitudine maggiore (ne sono state acquistate di recente una sull’Etna e una su una zona collinare piemontese) e la selezione di vitigni a bacca bianca del Sud Italia, geneticamente selezionati per convivere con le alte temperature, c’è un test in atto, ad esempio, sulla resa del Fiano nella zona di Bolgheri. Senza dimenticare gli interventi biologici, volti a selezionare flora e fauna che meglio combattono il perdurare delle malattie, come l’innesto del cipresso insieme a una particolare categoria di uccelli per tutelare la salute dei vitigni. Come, infatti, ha sottolineato Gaia Gaja a Wine2Wine 2019, l’aspetto più preoccupante dei cambiamenti climatici riguarda, soprattutto, le malattie della vite e in particolare la loro resistenza ai trattamenti, che sembra essere supportata dalle alte temperature. Mentre il calore non compromette direttamente la qualità del vino (anzi gli può dare struttura) rendendo necessario, al massimo, qualche mirato intervento in cantina a supporto della bevibilità. Un sospiro di sollievo per tutti!

Signature Dishes That Matter

La storia della gastronomia in 240 piatti iconici

Considerato dal Times come il miglior food book del 2019, Signature Dishes That Matter ripercorre la  gastronomia internazionale attraverso le storie di 240 piatti e delle persone che li hanno ideati.

Il fascino di questa raccolta sta nella scelta di mescolare alta cucina e ricette popolari, sperimentazione culinaria di alto rango e casual dining per raccontare pietanze entrate nell’immaginario collettivo e diventate simboli di epoche, trend culinari e stili di vita.

Si va dal mitico Pastrami Sandwich di Katz’s (New York) – diventato ancora più mitico, se è possibile, grazie a Harry ti presento Sally – al Carpaccio dell’Harry’s Bar di Arrigo Cipriani, dalla Pesca Melba, inventata dal leggendario Auguste Escoffier fino alle Olive Liquide di Ferran Adrià, che hanno segnato la nascita “ufficiale” della Cucina Molecolare. E ancora, il Club Sandwich del Saratoga Club House, la storica Pizza Margherita di Raffaele Esposito e il Ceviche di Pedro Solari.

La curatela del libro è di Christine Muhlke – editor-at-large di Bon Appétit – e di tanti altri food writer, fra i quali spicca anche il nome dell’italiano Andrea Petrini, ideatore di Gelinaz, la jam-session gastronomica che nell’edizione del 2019 ha coinvolto 38 paesi, 138 ristoranti, 148 chef per 700 ore di cucina e 2200 ricette in streaming.

Le illustrazioni sono di Adriano Rampazzo.

Susan Jung, Howie Kahn, Christine Muhlke, Pat Nourse, Andrea Petrini, Diego Salazar, and Richard Vines, Signature Dishes That Matter. Con le illustrazioni di Adriano Rampazzo – 2019, Phaidon

– Redazione 05.05.2020

Aprile, fra gestione dell’emergenza e desiderio di normalità

A marzo, nei giorni più duri dell’emergenza Covid-19, Angelo Peretti si chiedeva su The Internet Gourmet ( www.internetgourmet.it) se avesse senso scrivere di vino in circostanze così drammatiche. Molto probabilmente non esiste un’unica risposta a questa domanda ed è giusto che sia così. Noi, come sempre, abbiamo raccolto alcune delle notizie più interessanti lette nelle ultime settimane, fra gestione dell’emergenza e desiderio di normalità. www.internetgourmet.it

Iniziamo, allora, da una piccola indagine condotta dal magazine Planet of The Grapes, che ha chiesto a diversi wine-writer – dalla mitica Jancis Robinson all’editor di Pipette Rachel Seigner – di raccontare cosa rappresenta per loro il vino in un momento così strano come quello che stiamo attraversando. C’è chi lo vive come un piccolo rituale gioioso da contrapporre alle difficoltà del quotidiano e chi, invece, sta bevendo meno del solito perché considera il vino inscindibilmente legato alla socialità e, dunque, alla presenza delle altre persone; c’è chi trova conforto nello champagne e chi in vini più semplici, nati del lavoro di vignaioli che si vogliono idealmente sostenere a distanza. Un collage di attitudini e sensibilità differenti, in cui tutti possiamo ritrovare qualcosa di nostro: www.medium.com

Il vino, è cosa nota, può essere pura poesia ma anche oggetto di consistenti investimenti economici. E su questo fronte arrivano buone notizie per l’Italia dei fine wine: nella prima settimana di aprile, su Liv-ex la share di vini italiani scambiati sul mercato secondario è stata pari al 24,7% a valore. Un risultato importante – come racconta Wine News – che consolida la posizione delle nostre etichette di pregio in un panorama storicamente dominato dai grandi Bordeaux: www.winenews.it.

E sempre a proposito di grandi Bordeaux, Neal Martin ha raccontato su Vinous le sue impressioni a margine della complessa degustazione dei Vintage 2010: www.vinous.com.

Rimaniamo in Francia con l’annuncio dell’avvio della negoziazione esclusiva per l’acquisizione da parte di Campari di una partecipazione dell’80% – e successivamente dell’intero capitale azionario – di Sarl Champagne Lallier. Ne parla, fra gli altri, anche La Repubblica: www.ilsole24ore.com.

Distillazione volontaria, vendemmia verde e una serie di misure di sostegno economico per tutto il settore vitivinicolo: sono alcune delle proposte formulate da Assoenologi nei giorni scorsi per fronteggiare la crisi. Ne dà conto Identità Golose: www.identitagolose.it

E sempre a proposito di Covid-19, Wine Spectator ha dedicato un’intera sezione del suo sito all’emergenza, per documentarne l’impatto sul settore food&wine: www.winespectator.com

Chiudiamo con un profilo del leggendario wine-writer e degustatore Michael Broadbent, firmato da Eric Asimov sul New York Times. Scomparso lo scorso 18 marzo a  92 anni, Broadbent è stato un grande conoscitore dei fine wine e, soprattutto, colui che negli anni Sessanta ha plasmato il settore delle aste dei vini, intuendo che questi potevano essere trattati esattamente come le opere d’arte: www.nytimes.com

Arrosti&co, non solo rossi di struttura

Cotture lente, sapori decisi, texture succulente. Con le carni arrosto solitamente ci si aspetta di bere “in rosso”, scegliendo vini strutturati e con qualche anno alle spalle e magari approfittando dell’occasione per aprire qualche bottiglia veramente importante (o viceversa, accompagnando con una preparazione all’altezza l’etichetta prescelta).

Non è, però, sempre e per forza così. A seconda della tipologia di carne e del metodo di cottura, anche dei bianchi ben strutturati o dei rossi più leggeri possono accompagnare alla perfezione i piatti a base di carne.

Partiamo dalle carni bianche ad esempio, e dal protagonista per eccellenza dei pranzi casalinghi non troppo impegnativi, con la famiglia riunita attorno al tavolo: il pollo al forno con le patate. Una preparazione che sembra facile e scontata ma non lo è per nulla, visto che ci vogliono occhio ed esperienza per avere la cottura perfetta, che lascia l’interno umido ma ben cotto, la pelle croccante che rilascia il suo grasso, le patate appena brunite. In questo caso, si può scegliere un vino bianco come la Falanghina Irpinia Doc Via del Campo di Quintodecimo: fruttato e avvolgente, più ricco rispetto allo standard di questa tipologia di vini anche grazie a un breve passaggio in piccole botti di rovere, ha una componente minerale spiccata e profumi di erbe aromatiche. Se invece volete osare un abbinamento insolito ma davvero interessante, potrebbe valere la pena stappare la Ribolla 2011 di Gravner: macerato a lungo sulle bucce, fermentato in anfora e maturato in botte grande, è un vino ambrato estremamente ampio e ricco, con intriganti spunti aromatici e balsamici. Struttura e tannini dati dalla macerazione, insieme alle insolite note quasi ferrose e officinali, lo rendono unico a ogni sorso.

Altro grande classico, buonissimo in tutte le stagioni e in tutte le occasioni, è il roastbeef.
Ben rosato al centro, servito per lo più freddo e poco condito – ma magari accompagnato da patate, insalata o altri contorni – potrà sposarsi tanto con un bianco dalle note appena più morbide (ma non stucchevoli) ma con una buona acidità, quanto con un rosso dalla grande beva. Per esempio, nel primo caso, con il Gewürztraminer Konrad Oberhofer Vigna Pirchschrait di Hofstatter, frutto di una maturazione di 10 anni sui lieviti fini che unisce intensità e freschezza, con spiccati profumi di miele, frutta secca e vaniglia, a una struttura importante sorretta da una buona acidità. Oppure, il Gattinara base di Nervi-Conterno, asciutto e leggermente tannico con un bel finale lievemente ammandorlato e note di frutti rossi, sottobosco ed erbe officinali: un Nebbiolo di razza e un’etichetta storica che, nella sua semplicità, garantisce sempre grandi bevute.

Salendo di struttura e intensità dei piatti, passiamo anche a vini più “impegnativi”. Tra le ricette a base di carne non può mancare il brasato di manzo che, nella classica versione piemontese, viene tradizionalmente preparato con il vino rosso e in particolare con il Barolo. Inutile dire, dunque, che questo grande vino è anche l’abbinamento per eccellenza per un piatto così poderoso. Se volete bere alla grande ma restando con i piedi per terra, il suggerimento potrebbe andare sul Barolo Riserva Vigna Rionda di Oddero: una grande etichetta, da uno dei vigneti più rinomati delle Langhe. Per un’occasione speciale si potrà altrimenti chiamare in causa il “signor Voerzio” – altro nome mitologico dell’enologia langarola – con il suo Barolo Riserva 10 anni: perfettamente pronto da stappare, è un grande vino da meditazione ma è altresì perfetto per accompagnare un piatto come il brasato.

Passiamo alle carni ovine, con i dovuti distinguo. Ad esempio, il sapore intenso e la grassezza marcata dell’agnello (pur se dal buon profilo nutrizionale, se parliamo di animali allevati in condizioni ottimali) richiedono maggior struttura nel bicchiere, facendo propendere per qualcosa di altrettanto “rustico” e corposo – per esempio, guardando all’abbinamento territoriale, un Montepulciano d’Abruzzo; se però non si vuole rinunciare all’eleganza, la scelta si può orientare su un taglio bordolese capace di unire struttura e finezza, riuscendo a “reggere” piatti robusti come quelli a base di agnello, al forno o in umido. E cosa potrebbe esserci di meglio, a tal proposito, di una bottiglia di Sassicaia della Tenuta San Guido?

Il capretto invece, più magro e tenero, si sposa meglio a qualcosa di appena più esile ma non meno soddisfacente. Per esempio, il Chianti Classico San Lorenzo di Castello di Ama, Gran Selezione DOCG ottenuto dalle uve dei vigneti dell’omonima vallata, con un’età media di almeno 25 anni. Frutto dell’assemblaggio delle diverse varietà (sangiovese, merlot e malvasia nera) dopo la malolattica e di una successiva maturazione in barrique di rovere, è un vino morbido e fresco, potente ma molto armonico, perfetto per accompagnare questa tipologia di carni.

Le cose cambiano, però, se si sceglie la cottura alla brace.
La regola generale sconsiglia infatti di accompagnare le preparazioni di questo tipo con vini barricati, i cui sentori finirebbero per amplificare in maniera eccessiva le sensazioni di legno e di tostato. In questo caso, dunque, meglio preferire vini di struttura ma che facciano solo acciaio o botte grande: la scelta può andare da molte etichette di Barolo di scuola “tradizionalista” – che rifiuta categoricamente l’uso di barrique, appunto – fino a quella inaspettata, ma molto valida per gli amanti del genere, dell’Amarone della Valpolicella Classico DOC Riserva di De Buris. Dalla bevibilità atipica per questa tipologia di vino, ha un carattere unico in cui le note dolci dell’appassimento lasciano spazio a inedite sfumature sapide e minerali e all’equilibrio notevole tra la potenza dei tannini, la polposità del frutto e la freschezza complessiva.

Chiudiamo con una preparazione che non appartiene alla tradizione italiana ma che negli ultimi anni, con il diffondersi della passione per il grilling, riscuote molto successo anche da noi: il brisket, la punta di petto di manzo cotta lentamente protagonista del classico BBQ texano. Ben speziato, morbidissimo e succulento – tanto da non richiedere quasi masticazione – e lievemente affumicato, cerca struttura e potenza nel bicchiere senza rinunciare all’eleganza. Andate sul classico con un bel Brunello di Montalcino come quello di Castiglion del Bosco, con i suoi tannini vellutati e le note di sottobosco.

Se invece volete spiazzare i vostri ospiti e regalare a loro e a voi una bevuta indimenticabile, vi proponiamo un abbinamento quasi eretico, un po’ da “la bella e la bestia” ma che non potrà che conquistare tutti: quello con il leggendario Château Haut-Brion, grande vino di Bordeaux Premier Grand Cru Classé, uvaggio di cabernet sauvignon, merlot e cabernet franc che conquista per la sua eleganza e le sue note di tabacco, liquirizia e spezie.

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

Meditazioni nobili: i vini muffati

Gustare il vino centrando l’abbinamento migliore con il cibo moltiplica l’appagamento e rende l’esperienza della degustazione più ricca e completa, non c’è dubbio. Tuttavia, ci sono casi in cui la bevuta si esprime al massimo senza nessun accostamento. È il caso dei cosiddetti “vini da meditazione”. La definizione abbraccia un insieme di vini dalla grande complessità, che può derivare da motivazioni differenti. Un grado alcolico importante, ad esempio, dovuto magari alla lavorazione di uve surmature, oppure l’aggiunta di alcol, come nel caso dei vini fortificati. È questa complessità a suggerire una bevuta “solitaria”, proprio perché il ventaglio di sentori è così ampio da richiedere tutta la concentrazione per la bevuta, e così intenso da “sorreggere” l’esperienza gustativa per tutta la durata.

In genere quando si parla di vini da meditazione il primo pensiero va ai passiti. Così intensi, strutturati e importanti dal punto di vista del tenore alcolico da rappresentare l’esempio perfetto. Il cerchio però è molto più ampio. A me piace considerare “da meditazione” anche i vini da lungo invecchiamento, come ad esempio un classico Brunello con qualche lustro sulle spalle, oppure alcuni vini macerativi particolarmente importanti. Sono bianchi, questi ultimi, lavorati utilizzando le bucce come si fa con i rossi. La tecnica determina una certa masticabilità del vino, una polpa più sostanziosa, e una trama tannica capace di traghettare l’evoluzione parecchio in là, incrementando così la complessità finale di quelli che vengono chiamati “orange wine”. 

Una tipologia di vini da meditazione di cui sono particolarmente innamorato sono gli specialissimi muffati. Si tratta di vini che nascono da acini attaccati da una malattia chiamata Botrytis Cinerea. Il fungo che causa questo problema, in condizioni climatiche molto particolari, si sviluppa sulla buccia, formando un feltro che provoca un appassimento per evaporazione e di conseguenza la concentrazione di diverse sostanze. In più, la muffa produce glicerina e conferisce particolarissimi profumi. È la muffa grigia che si esprime nella rara variante della muffa nobile, e quello che in genere rappresenta un grosso problema si trasforma in un plusvalore unico per il vino. Le condizioni in cui questo si verifica sono davvero speciali. Un clima caldo e secco, a cui si alternano situazioni di umidità che favoriscono una proliferazione limitata del fungo. È il caso innanzitutto della zona delle Graves, a sud di Bordeaux, dove nasce il più famoso tra i muffati, il Sauternes. Altri esempi di botritizzati noti sono i Trockenbeerenauslese tedeschi e austriaci e il Tokaji ungherese.

Esistono poi esempi di vini botritizzati provenienti da altre zone. In Italia, ad esempio, il lago di Bolsena presenta le condizioni climatiche ideali per la muffa nobile. E poi ce n’è uno davvero unico. Nasce nel Collio Goriziano, sul confine con la Slovenia, da uno dei più grandi produttori di sempre: Josko Gravner. Il suo muffato si chiama 8’9’10 e nasce da acini di Ribolla botritizzati, provenienti da tre vendemmie differenti: 2008, 2009 e 2010. Viene fermentato in anfore interrate, con il mosto a contatto con bucce e raspi, e affinato in piccole botti per 48 mesi.

L’impatto sensoriale è così intenso da lasciare disorientati. Ha il colore dell’ambra e la sua capacità di riflettere la luce è qualcosa di immenso, quasi a volere illuminare la stanza dove viene degustato. Il naso è impetuoso e restituisce in successione sensazioni più ricche come quelle dell’albicocca disidratata, del miele, dei fichi, e altre più flebili come il fieno e il torrone. Poi c’è lo zafferano, il più tipico tra i sentori che nascono dai muffati. Arriva piano, si mescola agli altri e poi spicca con tutta la sua forza, prima di rituffarsi nel ventaglio di profumi di 8’9’10. In bocca il vino mette in scena una splendida tensione fra morbidezze e durezze. Da un lato la ricchezza glicerica e l’intensità della frutta disidratata, dall’altro la freschezza sorprendente e una sapidità fine, elegante, profonda. L’allungo è poderoso, la durata della persistenza in bocca si mescola a quella di permanenza nel cuore e nella memoria, rendendolo un vino infinito e senza tempo.

Le sue spalle larghe lo rendono adatto ai formaggi importanti così come ai cioccolati più nobili. Ma il mio consiglio è quello di ritagliarsi uno spazio e un tempo esclusivi dedicati solo a lui. Per abbinarlo al passare dei minuti, alla luce che cambia e allo scorrere dei propri pensieri. Perché sì, questo è un grande vino da meditazione.

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

 

Uberti, la forza dell’autenticità

“I nostri Franciacorta sono tutti diversi: ognuno ha una propria storia da raccontare, quella delle vigne da cui proviene” – Silvia Uberti

La solida impronta familiare, il rispetto per l’unicità di ogni vigneto, l’impegno – non sbandierato ma di sostanza – sul fronte di un’agricoltura biologica, senza dimenticare l’affascinante progetto che sta alla base di due etichette iconiche come Quinque e Dequinque: abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Silvia Uberti per tracciare il profilo di una delle cantine più interessanti della Franciacorta. Una vera eccellenza costruita con dedizione, rigore e passione dalla famiglia Uberti.

La prima cosa che si legge entrando nel vostro sito è “Dal 1793 viticoltori in Erbusco”, quanto conta nel definire la vostra identità di vignaioli la dimensione familiare, fatta di generazioni che da secoli si avvicendano nella cura dell’azienda agricola?

In questa domanda c’è una parola che fornisce già la risposta: “cura”. Le generazioni di Uberti, che si sono avvicendate nel tempo fino ai giorni nostri, si sono “prese cura”, come solo può fare una famiglia, del nostro patrimonio vitivinicolo. Oggi siamo noi a portarlo avanti con grande orgoglio.

Se dovesse provare a descrivere la vostra cantina con tre parole, quali userebbe?

Sensibilità, autenticità e costanza.

In cosa risiede la cifra identitaria dei vostri Franciacorta?

I nostri Franciacorta si identificano nella semplice espressione di ogni singola vigna, la vinificazione parcellare permette di far esprimere le caratteristiche e le peculiarità di ogni vigneto. Per questo motivo, in un certo senso, i nostri Franciacorta sono tutti diversi: ognuno ha una propria storia da raccontare, quella delle singole vigne o delle piccole parcelle da cui proviene.

All’interno di questa visione come si colloca la scelta di utilizzare esclusivamente lo Chardonnay per la maggior parte dei vostri di punta?

È una scelta di lunga data. Il nostro modo di fare Franciacorta è rimasto sempre lo stesso, fin dalle prime vendemmie. È un modo fatto di poche strategie e di molto rispetto per le peculiarità di ogni uvaggio. In questo senso, le caratteristiche dello Chardonnay ci permettono di realizzare dei Franciacorta identitari e capaci di essere longevi.

E rispetto al futuro, avete intenzione di ampliare la vostra gamma? Sperimentare qualcosa di nuovo?

Non mettiamo mai limiti alle novità, l’importante è che siano sempre coerenti con la nostra filosofia aziendale, Come dicevo prima, la costanza è uno dei nostri valori di riferimento. Finora tutte le novità messe in commercio sono andate bene… speriamo di continuare così!

Un grosso cambiamento per voi è avvenuto sul finire degli anni Settanta, quando i suoi genitori (Agostino e Eleonora) hanno iniziato a guidare l’azienda. Come è cresciuta in questi decenni la vostra cantina?

La prima grande iniezione di energia è stata data da Agostino e Eleonora, che hanno dato alla luce le prime bottiglie di Franciacorta nel 1978. Negli anni Duemila abbiamo fatto il nostro ingresso in azienda io – per quanto riguarda la parte agronomica ed enologica – e mia sorella Francesca per quanto riguarda la gestione commerciale. Non si è trattato di un avvicendamento perché i nostri genitori hanno tuttora un ruolo fondamentale in azienda ma di dare ulteriore respiro alla visione aziendale e familiare, nel solco della continuità.

La nostra forza è stata ed è ancora quella di non aver mai cambiato il nostro modo di fare il Franciacorta, non abbiamo mai seguito le mode o i cambiamenti di stile e di gusto. Siamo così da sempre e finora ha funzionato.

Da tempi non sospetti avete un approccio poco interventista sia in vigna sia in cantina. Ce ne vuole parlare?

È un’altra costante del nostro lavoro: abbiamo sempre coltivato le nostre vigne con un grande rispetto verso la sostenibilità ambientale e con un forte impegno per preservare la biodiversità di ogni singolo ambiente in cui dimorano le viti. È l’unico modo, a nostro avviso, per produrre vini autentici. L’autenticità e il carattere dei nostri Franciacorta sono il frutto anche di questa scelta. A completare il lavoro di tutti questi anni, nel 2016, è arrivata anche la certificazione biologica.

Rimanendo sempre su questo argomento, l’agricoltura biologica può essere un alleato rispetto alla questione dei cambiamenti climatici e all’impatto di questi ultimi sulle terra e sulla produzione agricola in generale?

Certamente sì ed è inevitabile considerare le evoluzioni ambientali in corso. L’importante è che l’adozione del biologico sia una scelta fatta in maniera seria, costante e coerente. Dal nostro punto di vista è fondamentale mantenere un approccio sempre più preciso, attento e di continua ricerca nelle scelte agronomiche e nella cura dei vigneti. Dobbiamo garantire una salubrità costante delle viti (e del loro ambiente) e un’alta qualità delle uve.

La Franciacorta rappresenta un unicum nel panorama delle bollicine italiane e sicuramente il Consorzio negli anni ha varato diverse iniziative a supporto territorio e della sua enogastronomia. Secondo voi, cosa manca (se manca) per valorizzare pienamente il “brand Franciacorta”?

I miei genitori sono stati tra i fondatori del Consorzio e da allora l’attività di promozione e tutela è sempre stata in crescendo. C’è solo una strada da percorrere sempre con costanza e tenacia: l’alta qualità dei Franciacorta e la tutela del nostro territorio.

In tutta la vostra produzione c’è un vino al quale tenete particolarmente, che ha per voi un valore affettivo, diciamo così?

Sicuramente Dequinque, una cuvée di dieci vendemmie, frutto della riserva perpetua che abbiamo iniziato a creare e alimentare nel 2002, quindi la cuvée del nostro miglior Chardonnay, assemblata anno dopo anno all’interno di un unico tino. Il primo passaggio è stato Quinque (2002 – 2006), cuvée di cinque vendemmie, poi è stata la volta di Dequinque (2002 – 2011) ma il percorso non si fermerà qui.

Un progetto unico nella Franciacorta, a cui teniamo molto perché rappresenta il nostro patrimonio identitario e il racconto della nostra storia.

Sono tante le grandi cantine italiane, ce n’è a cui  guardate con particolare stima?

Senza dubbio Giuseppe Rinaldi, uno dei grandi nomi del Barolo, a cui siamo legati da rapporti di stima e conoscenza di lunga data. Sentiamo una grande affinità di valori e di visione.

Una domanda inevitabile, purtroppo, considerati i tempi: sul settore vino nel suo insieme che impatto potrà avere la vicenda Covid-19? Al di là della dimensione produttiva e di vendita, la necessità di praticare il “social distancing” pensate che potranno modificare le modalità di interazione B2B ma anche B2C?

Oggi è ancora presto ipotizzare gli sviluppi e l’impatto sul mondo del vino da parte del Covid-19, di certo l’agricoltura e l’agroalimentare italiano, vino compreso, saranno tra i settori che potranno fin da subito dare risposte e nuovo sviluppo a questo straordinario paese.

Per quanto riguarda gli aspetti legati  alla comunicazione, a prescindere dal momento attuale, il mondo del vino è soggetto a continui cambiamenti (anche nel sistema fieristico), è  importante avere sempre chiara la direzione da seguire: fare una comunicazione seria, di qualità e soprattutto trasmettere le giuste informazioni a tutti gli stakeholder.

Redazione 14.04.2020

Mecenatismo tra le vigne

Vino e arte come espressione della creatività e dell’intelletto umani: una visione genuinamente umanistica che ha portato diverse cantine italiane a farsi promotrici di progetti artistici di ampio respiro e di grande valore culturale. Inscindibilmente legati ai luoghi che li hanno generati, questi progetti nascono per essere condivisi con il pubblico, perché proprio come la fruizione del vino anche quella dell’arte trova nella socialità e nelle relazioni la sua dimensione più vera e profonda.

Castello di Ama — Daniel Buren

Nel 1999, con grande lungimiranza, Lorenza Sebasti e Marco Pallanti hanno scelto di aprire il loro Castello di Ama all’arte contemporanea, creando – anno dopo anno – una collezione permanente che dialoga con lo spirito e le suggestioni dell’ambiente naturale e architettonico della tenuta. Ogni anno, infatti, seguendo il ritmo delle vendemmie, un grande artista viene invitato a concepire e a realizzare un’opera o installazione ispirata al Genius Loci. Nel tempo si sono susseguiti Michelangelo Pistoletto, Daniel Buren, Anish Kapoor, Cristina Iglesias, Louise Bourgeois, Miroslav Balka e altri ancora che hanno reso questo luogo – rimasto intatto per secoli – ancora più magico.

[Castello di Ama — Daniel Buren

Sempre in Toscana, nel 2012, Tiziana Frescobaldi ha dato nuovo slancio allo storico mecenatismo di famiglia con Artisti per Frescobaldi, un premio biennale d’arte contemporanea che, a ogni edizione, invita tre artisti a interpretare la Tenuta di CastelGiocondo. Il premio, che ha l’obiettivo di sostenere e dare spazio a giovani artisti non ancora affermati, è curato da Ludovico Pratesi, mentre la giuria, che assegna il premio, cambia ad ogni edizione ed è sempre formata da tre direttori di musei d’arte contemporanea. Nel 2017, Tiziana Frescobaldi ha voluto far confluire le opere di Artisti per Frescobaldi in una collezione permanente aperta al pubblico e allestita all’interno della tenuta di CastelGiocondo.

Tiziana Frescobaldi e Ludovico Pratesi

Nel 2018 il premio è stato vinto dall’artista svizzera Sonia Kacem con l’opera Les Grandes. Mentre a gennaio di quest’anno sono stati comunicati i nomi dei tre artisti selezionati per il 2020: il canadese Andrew Dadson, l’americana Erica Mahinay e l’italiano Gian Maria Tosatti. La premiazione avverrà a Milano il prossimo settembre.

Artisti per Frescobaldi supporta, infine, iniziative dedicate all’arte contemporanea italiana attraverso il ricavato delle edizioni limitate e numerate delle bottiglie di CastelGiocondo Brunello di Montalcino. Queste bottiglie per collezionisti sono rese uniche dalle etichette disegnate dai tre artisti protagonisti di ogni edizione del premio.

Artisti per Frescobaldi 2018 – Magnum di CastelGiocondo Brunello di Montalcino (annata 2013)

Dal 2009, Ornellaia festeggia la presentazione di ogni sua nuova annata con Vendemmia d’artista. Il progetto si articola in due parti: la prima vede la commissione a un grande artista di un’opera destinata alla tenuta di Bolgheri e ispirata al carattere dell’annata; la seconda prevede che in ogni cassa di Ornellaia sia presente una bottiglia con un’etichetta disegnata dallo stesso artista e che venga realizzata un’edizione limitata di 111 bottiglie di grande formato, da lui numerate e firmate. Queste 111 bottiglie vengono in seguito battute all’asta e il ricavato viene devoluto a un progetto di arte contemporanea.

Nel 2019 (annata 2016), Ornellaia ha affidato Vendemmia d’artista a Shirin Neshat, il ricavato della vendita all’asta delle bottiglie firmate dall’artista e attivista iraniana è stato destinato a Mind’s Eye, il progetto della Guggenheim Foundation che aiuta le persone con disabilità visive ad avvicinarsi all’arte grazie l’uso di tutti i sensi. Nel 2020 (annata 2017) tocca a Tomàs Saraceno.

Antinori è un’altra grande famiglia del vino italiano da sempre legata al mondo dell’arte, come testimonia il suo stemma realizzato agli inizi del Cinquecento dalla bottega dello scultore e ceramista fiorentino Giovanni della Robbia. Nel 2012, con l’inaugurazione della nuova cantina nel cuore del Chianti Classico, la famiglia ha scelto di spostare qui e mettere a disposizione dei visitatori parte della sua secolare collezione di dipinti, ceramiche, manoscritti e altri manufatti artistici. Con uno sguardo al presente, inoltre, è stato contestualmente avviato l’Antinori Art Project, una piattaforma di commissioni biennali a giovani ma già affermati artisti. Dal 2014 la direzione del progetto è affidata a Ilaria Bonacossa.

Impossibile, infine, non ricordare la passione di Maurizio Zanella – fondatore e presidente di Ca’ del Bosco – per la scultura contemporanea e il suo desiderio di creare, nei luoghi dell’azienda, un continuum emozionale e sensoriale, capace di fondere vino, arte e ambiente naturale. 

Nel corso del tempo, ha così preso vita negli spazi (esterni e interni) della cantina un vero e proprio percorso immersivo, che inizia fin dall’ingresso, con il Cancello solare in bronzo dorato di Arnaldo Pomodoro, per proseguire – senza soluzione di continuità – con opere di Igor Mitoraj, Stefano Bombardieri, Mimmo Paladino e tanti altri.

In vino veritas

Alessandro Torcoli racconta “il grande romanzo del vino”

Parafrasando quanto scrive Alessandro Torcoli nell’introduzione di In vino veritas, il vino – come tante altre cose belle della vita – è complesso, porta con sé una stratificazione di mondi sensoriali e cognitivi infinita ed è qualcosa di estremamente civilizzato che accompagna l’uomo da tempi antichissimi.

Il vino è passione, emozione, a volte ebrezza ma anche conoscenza, sia perché chi lo produce deve compiere ogni giorno moltissime scelte ponderate e consapevoli (in vigna e in cantina) per arrivare a un risultato soddisfacente, sia perché chi lo consuma ha spesso bisogno di andare oltre il piacere del momento per capire “cosa” sta bevendo, facendolo diventare l’oggetto di studio personale e accurato, che non di rado sfocia nella mania.

Per orientarsi in questo mondo così sfaccettato che alterna emozioni e razionalità, piacere immediato e disciplina, Torcoli – direttore di Civiltà del Bere, sommelier e accademico della vite e del vino – propone un manuale dal sapore contemporaneo, agile, narrativo e molto poco didascalico. In vino veritas parte dal racconto della vigna per arrivare fino alla costruzione dell’etichetta, rispondendo alle domande più diffuse sul vino e ripercorrendone storie, curiosità e argomenti apparentemente intoccabili.

Un libro sincero – come solo un buon vino sa essere – che restituisce a pieno quella complessità di cui si parlava all’inizio, fatta di dedizione, studio, impegno e dell’imprescindibile fattore umano.

Alessandro Torcoli, In vino veritas. Praticamente tutto quello che serve sapere (davvero) sul vino – 2019, Longanesi

Bottiglie: i grandi formati

Nella botte piccola c’è il vino buono? La saggezza popolare, come sempre, dice qualcosa di vero: le minori dimensioni favoriscono, infatti, un contatto maggiore fra vino e legno, con importanti conseguenze sullo sviluppo organolettico del primo. Quando si parla di bottiglie, in maniera forse un po’ controintuitiva, accade il contrario.

Sicuramente il formato per i vini rossi fermi più diffuso è il Bordolese (0,75 L), ma le bottiglie di misura più grande (Magnum e doppio Magnum) sono considerate unanimemente le più adatte per ottenere un migliore affinamento e, per questo motivo, sono quelle predilette per i grandi vini, destinati a un lungo invecchiamento.

Sono diversi i fattori che contribuiscono a fare della Magnum la bottiglia per eccellenza. Innanzitutto poiché il diametro del collo è lo stesso di una bottiglia standard e la sua capacità è doppia (1,5 L), una minore quantità di vino entra in contatto  con l’ossigeno. Lo stesso discorso vale per il rapporto superficie/volume: la quantità di vino a contatto con la superficie della bottiglia è molto minore in una Magnum e questo implica un effetto ridotto della luce sul liquido e più in generale una maggiore protezione del vino, anche in rapporto al tappo, che è il vero “collegamento” con l’esterno. La decantazione del vino, inoltre, è facilitata dalle grandi dimensioni, che consentono una precipitazione costante e omogenea dei residui.

In sostanza, un vino conservato in una Magnum può maturare in modo più lento e stabile, protetto maggiormente dalla luce, dagli sbalzi di temperatura e dagli altri fattori esterni. Questo consente un sensibile miglioramento delle sue caratteristiche organolettiche e uno sviluppo più armonioso.

Tra i grandi formati, Magnum e doppio Magnum sono quelli più diffusi perché consentono l’imbottigliamento meccanizzato, per le misure superiori, invece, è necessario il travaso. Queste ultime, inoltre, hanno diametro del collo maggiore che richiede tappi speciali.

Dai rossi agli Champagne, perché quando si parla di formati speciali, la mente corre subito alle bollicine e ai suggestivi nomi dei personaggi storici e biblici associati a queste bottiglie.

La misura standard anche in questo caso è da 0,75 L (bouteille). In tutti i casi, la bottiglia e la Magnum sono sempre usate per la presa di spuma e la rifermentazione, si procede poi al riempimento nei formati superiori (tutti multipli della dimensione standard) per travaso isobarico: Jéroboam (4 bottiglie), Réhoboam (6 bottiglie), Mathusalem (8 bottiglie), Salmanazar  (12 bottiglie) fino ad arrivare – di multiplo in multiplo – al Melchisedec, che corrisponde a  40 bottiglie (ben 30 litri).

Cresce il formato e cresce anche il peso della bottiglia, che, nel caso dello Champagne, è già di per sé più pesante perché deve sopportare una sovrappressione di almeno sei atmosfere. Bottiglie più pesanti, complesse da maneggiare – esistono telai speciali che servono a questo scopo – e delicatissime da trattare. Questo fa sì che i grandi formati siano più rari e anche più costosi…un premium per qualità ed emozione!