The Winefully Magazine

VITICOLTURA IN VERTICALE: VIAGGIO TRA I VIGNETI PIÙ ALTI D’EUROPA

Quanto in alto ci si può spingere in Europa con la coltivazione della vite? La domanda è più che mai attuale, visti gli effetti del cambiamento climatico e gli esperimenti sempre più frequenti per trovare nell’altitudine una delle risposte decisive. Sono diversi i vigneti che rivendicano il primato di essere i più alti nel vecchio continente. Lo scopo qui non è tanto quello di decretare il vincitore dal punto di vista orografico, o compilare una lista esaustiva, quanto quello di citare alcuni di questi casi, e delineare alcuni tratti distintivi che caratterizzano le vigne in quota e i vini che ne derivano.
Il sud Spagna, con la catena montuosa de La Contraviesa, sembra quella che è riuscita a toccare le altitudini più elevate. Siamo vicino al Parco Nazionale della Sierra Nevada, a sud-est di Granada, all’impressionante quota di 1.368 metri sul livello del mare, mitigata dai venti caldi che provengono dal mare di Alboran. Qui l’azienda Barranco Oscuro coltiva 10 ettari di terreno, un’estensione non banale per condizioni tanto estreme. Tra i vitigni coltivati ci sono sia una serie di autoctoni, sia alcuni internazionali tra cui Pinot Nero e Merlot.
In Alto Adige, precisamente nell’alta Val Venosta, esiste un altro luogo che sfiora le quote dello spagnolo appena citato. Qui l’azienda Calvenschlössl cura diversi vigneti, tra cui uno molto speciale. Si chiama Marienberg, ed è stato l’omonimo monastero benedettino a concedere il terreno perché potesse essere coltivato.L’incredibile altitudine dove cresce il vitigno Solaris è quella di 1.340 metri sul livello del mare, davvero un soffio dal titolo di vigneto più alto d’Europa. Si tratta di luoghi di incredibile fascino, dove la storia millenaria del monastero benedettino si fonde con scenari scoscesi dalla bellezza folgorante, e il lago di Resia spicca con le sue acque cristalline.

Sempre in Italia, ma a tutt’altra latitudine, la viticoltura vola fino a 1.300 metri sul livello del mare. Siamo in Calabria, a Cava di Melis, un piccolo paese nel cuore del Parco Nazionale della Sila, nel comune di Longobucco. L’azienda si chiama Immacolata Pedace, coltiva diversi vitigni internazionali tra cui Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Pinot bianco e Chardonnay. La viticoltura ad altezze così proibitive, in questo caso, è resa possibile da un incrocio delicato di fattori, tra cui la presenza del lago Cecita, che con il suo influsso agisce da elemento mitigante, permettendo di superare i rigidi inverni in cui le temperature arrivano anche a 20 gradi sotto lo zero.Tornando a nord, anche la Valle D’Aosta è conosciuta per le altitudini impressionanti della sua viticoltura. Siamo a 1.210 metri, nella parte nord-ovest della regione, dove nasce il noto Blanc de Morgex et de La Salle, prodotto con uve Prié Blanc. La cantina si chiama Cave Mont Blanc, oggi conta circa 80 soci, ciascuno dei quali coltiva un piccolo vigneto ai piedi del Monte Bianco.Tornando in Alto Adige, e in particolare nella Valle di Non, una realtà davvero interessante è Vin de la Neu, guidata da Nicola Biasi, enologo conosciuto internazionalmente per la capacità di far crescere e affermare sul mercato diverse realtà italiane.

Nicola, oltre dieci anni fa, decide di impiantare a oltre 800 metri di altitudine la varietà resistente Johanniter: il 2013 è l’anno della prima vendemmia. Uno dei punti più interessanti del lavoro di Vin de la Neu è la sperimentazione che oggi, attraverso scienza e conoscenza, permette di produrre vini ad altitudini più elevate rispetto al passato. Uno dei tasselli fondamentali che consente di raggiungere questo obiettivo è lo studio delle varietà resistenti, come appunto la Johanniter. I risultati che danno dal punto di vista agronomico contro le malattie fungine, e non solo, sono davvero straordinari. Questo, naturalmente, permette una totale assenza di trattamenti in vigna, e dunque di portare avanti una viticoltura che davvero si può definire sostenibile e rispettosa del territorio che la accoglie.
Il risultato nel bicchiere è tangibile e inequivocabile. Quelli di Nicola sono vini di grandissima purezza e pulizia, caratterizzati da un’espressività che lascia il segno. L’annata 2017 di Vin de la Neu, in particolare, si caratterizza per il rigore e la freschezza che deriva dall’ambiente montano dove nasce. L’arancia, l’ananas e alcune interessanti sfumature erbacee, si uniscono a una gamma di sentori appartenenti al mondo minerale, come la grafite. A questi si aggiungono screziature di profumi terziari, tra cui si distinguono sfumature di idrocarburi e riverberi iodati. Un sorso teso, ricco e perfettamente a fuoco, che contiene in nuce l’anima di un progetto innovativo che fa dell’armonia con l’ambiente montano la propria cifra distintiva.

Quanto in alto ci si può spingere in Europa con la coltivazione della vite? La domanda è più che mai attuale, visti gli effetti del cambiamento climatico e gli esperimenti sempre più frequenti per trovare nell’altitudine una delle risposte decisive. Sono diversi i vigneti che rivendicano il primato di essere i più alti nel vecchio continente. Lo scopo qui non è tanto quello di decretare il vincitore dal punto di vista orografico, o compilare una lista esaustiva, quanto quello di citare alcuni di questi casi, e delineare alcuni tratti distintivi che caratterizzano le vigne in quota e i vini che ne derivano.
Il sud Spagna, con la catena montuosa de La Contraviesa, sembra quella che è riuscita a toccare le altitudini più elevate. Siamo vicino al Parco Nazionale della Sierra Nevada, a sud-est di Granada, all’impressionante quota di 1.368 metri sul livello del mare, mitigata dai venti caldi che provengono dal mare di Alboran. Qui l’azienda Barranco Oscuro coltiva 10 ettari di terreno, un’estensione non banale per condizioni tanto estreme. Tra i vitigni coltivati ci sono sia una serie di autoctoni, sia alcuni internazionali tra cui Pinot Nero e Merlot.
In Alto Adige, precisamente nell’alta Val Venosta, esiste un altro luogo che sfiora le quote dello spagnolo appena citato. Qui l’azienda Calvenschlössl cura diversi vigneti, tra cui uno molto speciale. Si chiama Marienberg, ed è stato l’omonimo monastero benedettino a concedere il terreno perché potesse essere coltivato.L’incredibile altitudine dove cresce il vitigno Solaris è quella di 1.340 metri sul livello del mare, davvero un soffio dal titolo di vigneto più alto d’Europa. Si tratta di luoghi di incredibile fascino, dove la storia millenaria del monastero benedettino si fonde con scenari scoscesi dalla bellezza folgorante, e il lago di Resia spicca con le sue acque cristalline.

Sempre in Italia, ma a tutt’altra latitudine, la viticoltura vola fino a 1.300 metri sul livello del mare. Siamo in Calabria, a Cava di Melis, un piccolo paese nel cuore del Parco Nazionale della Sila, nel comune di Longobucco. L’azienda si chiama Immacolata Pedace, coltiva diversi vitigni internazionali tra cui Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Pinot bianco e Chardonnay. La viticoltura ad altezze così proibitive, in questo caso, è resa possibile da un incrocio delicato di fattori, tra cui la presenza del lago Cecita, che con il suo influsso agisce da elemento mitigante, permettendo di superare i rigidi inverni in cui le temperature arrivano anche a 20 gradi sotto lo zero.Tornando a nord, anche la Valle D’Aosta è conosciuta per le altitudini impressionanti della sua viticoltura. Siamo a 1.210 metri, nella parte nord-ovest della regione, dove nasce il noto Blanc de Morgex et de La Salle, prodotto con uve Prié Blanc. La cantina si chiama Cave Mont Blanc, oggi conta circa 80 soci, ciascuno dei quali coltiva un piccolo vigneto ai piedi del Monte Bianco.Tornando in Alto Adige, e in particolare nella Valle di Non, una realtà davvero interessante è Vin de la Neu, guidata da Nicola Biasi, enologo conosciuto internazionalmente per la capacità di far crescere e affermare sul mercato diverse realtà italiane.

Nicola, oltre dieci anni fa, decide di impiantare a oltre 800 metri di altitudine la varietà resistente Johanniter: il 2013 è l’anno della prima vendemmia. Uno dei punti più interessanti del lavoro di Vin de la Neu è la sperimentazione che oggi, attraverso scienza e conoscenza, permette di produrre vini ad altitudini più elevate rispetto al passato. Uno dei tasselli fondamentali che consente di raggiungere questo obiettivo è lo studio delle varietà resistenti, come appunto la Johanniter. I risultati che danno dal punto di vista agronomico contro le malattie fungine, e non solo, sono davvero straordinari. Questo, naturalmente, permette una totale assenza di trattamenti in vigna, e dunque di portare avanti una viticoltura che davvero si può definire sostenibile e rispettosa del territorio che la accoglie.
Il risultato nel bicchiere è tangibile e inequivocabile. Quelli di Nicola sono vini di grandissima purezza e pulizia, caratterizzati da un’espressività che lascia il segno. L’annata 2017 di Vin de la Neu, in particolare, si caratterizza per il rigore e la freschezza che deriva dall’ambiente montano dove nasce. L’arancia, l’ananas e alcune interessanti sfumature erbacee, si uniscono a una gamma di sentori appartenenti al mondo minerale, come la grafite. A questi si aggiungono screziature di profumi terziari, tra cui si distinguono sfumature di idrocarburi e riverberi iodati. Un sorso teso, ricco e perfettamente a fuoco, che contiene in nuce l’anima di un progetto innovativo che fa dell’armonia con l’ambiente montano la propria cifra distintiva.

VITICOLTURA IN VERTICALE: VIAGGIO TRA I VIGNETI PIÙ ALTI D’EUROPA

Quanto in alto ci si può spingere in Europa con la coltivazione della vite? La domanda è più che mai attuale, visti gli effetti del cambiamento climatico e gli esperimenti sempre più frequenti per trovare nell’altitudine una delle risposte decisive. Sono diversi i vigneti che rivendicano il primato di essere i più alti nel vecchio continente. Lo scopo qui non è tanto quello di decretare il vincitore dal punto di vista orografico, o compilare una lista esaustiva, quanto quello di citare alcuni di questi casi, e delineare alcuni tratti distintivi che caratterizzano le vigne in quota e i vini che ne derivano.
Il sud Spagna, con la catena montuosa de La Contraviesa, sembra quella che è riuscita a toccare le altitudini più elevate. Siamo vicino al Parco Nazionale della Sierra Nevada, a sud-est di Granada, all’impressionante quota di 1.368 metri sul livello del mare, mitigata dai venti caldi che provengono dal mare di Alboran. Qui l’azienda Barranco Oscuro coltiva 10 ettari di terreno, un’estensione non banale per condizioni tanto estreme. Tra i vitigni coltivati ci sono sia una serie di autoctoni, sia alcuni internazionali tra cui Pinot Nero e Merlot.
In Alto Adige, precisamente nell’alta Val Venosta, esiste un altro luogo che sfiora le quote dello spagnolo appena citato. Qui l’azienda Calvenschlössl cura diversi vigneti, tra cui uno molto speciale. Si chiama Marienberg, ed è stato l’omonimo monastero benedettino a concedere il terreno perché potesse essere coltivato.L’incredibile altitudine dove cresce il vitigno Solaris è quella di 1.340 metri sul livello del mare, davvero un soffio dal titolo di vigneto più alto d’Europa. Si tratta di luoghi di incredibile fascino, dove la storia millenaria del monastero benedettino si fonde con scenari scoscesi dalla bellezza folgorante, e il lago di Resia spicca con le sue acque cristalline.

Sempre in Italia, ma a tutt’altra latitudine, la viticoltura vola fino a 1.300 metri sul livello del mare. Siamo in Calabria, a Cava di Melis, un piccolo paese nel cuore del Parco Nazionale della Sila, nel comune di Longobucco. L’azienda si chiama Immacolata Pedace, coltiva diversi vitigni internazionali tra cui Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Pinot bianco e Chardonnay. La viticoltura ad altezze così proibitive, in questo caso, è resa possibile da un incrocio delicato di fattori, tra cui la presenza del lago Cecita, che con il suo influsso agisce da elemento mitigante, permettendo di superare i rigidi inverni in cui le temperature arrivano anche a 20 gradi sotto lo zero.Tornando a nord, anche la Valle D’Aosta è conosciuta per le altitudini impressionanti della sua viticoltura. Siamo a 1.210 metri, nella parte nord-ovest della regione, dove nasce il noto Blanc de Morgex et de La Salle, prodotto con uve Prié Blanc. La cantina si chiama Cave Mont Blanc, oggi conta circa 80 soci, ciascuno dei quali coltiva un piccolo vigneto ai piedi del Monte Bianco.Tornando in Alto Adige, e in particolare nella Valle di Non, una realtà davvero interessante è Vin de la Neu, guidata da Nicola Biasi, enologo conosciuto internazionalmente per la capacità di far crescere e affermare sul mercato diverse realtà italiane.

Nicola, oltre dieci anni fa, decide di impiantare a oltre 800 metri di altitudine la varietà resistente Johanniter: il 2013 è l’anno della prima vendemmia. Uno dei punti più interessanti del lavoro di Vin de la Neu è la sperimentazione che oggi, attraverso scienza e conoscenza, permette di produrre vini ad altitudini più elevate rispetto al passato. Uno dei tasselli fondamentali che consente di raggiungere questo obiettivo è lo studio delle varietà resistenti, come appunto la Johanniter. I risultati che danno dal punto di vista agronomico contro le malattie fungine, e non solo, sono davvero straordinari. Questo, naturalmente, permette una totale assenza di trattamenti in vigna, e dunque di portare avanti una viticoltura che davvero si può definire sostenibile e rispettosa del territorio che la accoglie.
Il risultato nel bicchiere è tangibile e inequivocabile. Quelli di Nicola sono vini di grandissima purezza e pulizia, caratterizzati da un’espressività che lascia il segno. L’annata 2017 di Vin de la Neu, in particolare, si caratterizza per il rigore e la freschezza che deriva dall’ambiente montano dove nasce. L’arancia, l’ananas e alcune interessanti sfumature erbacee, si uniscono a una gamma di sentori appartenenti al mondo minerale, come la grafite. A questi si aggiungono screziature di profumi terziari, tra cui si distinguono sfumature di idrocarburi e riverberi iodati. Un sorso teso, ricco e perfettamente a fuoco, che contiene in nuce l’anima di un progetto innovativo che fa dell’armonia con l’ambiente montano la propria cifra distintiva.

Viticoltura eroica, un dialogo serrato tra uomo e natura

Quando si parla di viticoltura eroica il primo pensiero va a un concetto romantico di coltivazione della vite in condizioni estreme e quasi proibitive. L’interpretazione di per sé è corretta, tuttavia è interessante sottolineare che la definizione ha confini più precisi. Esistono infatti quattro requisiti specifici e la pratica agricola deve rispondere almeno a uno di questi perché si possa parlare di viticoltura eroica.

Il primo, quello per cui la definizione è principalmente conosciuta, riguarda le pendenze dei terreni, che devono superare il 30%. Questo naturalmente rende tutto più difficile. Per l’uomo, prima di tutto, che si trova a dover svolgere le diverse attività agricole affrontando salite e discese estenuanti. C’è poi un tema di meccanizzazione, o meglio di non meccanizzazione, visto che questo tipo di pendenze rendono praticamente impossibile lavorare con le macchine che generalmente vengono utilizzate nei contesti agricoli “canonici”. A questo si aggiunge un ulteriore fattore “eroico”, perché in genere le estensioni di questi vigneti sono limitate. Quindi non solo le difficoltà e la fatica si moltiplicano, ma la produzione dal punto di vista quantitativo è sempre esigua. Va da sé che il lavoro, fortemente orientato a un’elevata qualità, ha senso soltanto quando parliamo di terreni ad altissima vocazione. Il secondo requisito per poter parlare di viticoltura eroica è il fatto che la coltivazione avvenga su terrazze, o gradoni. Emblematico il caso della Valtellina, tra i più citati quando si parla dell’argomento, dove i terrazzamenti cesellano il fianco della montagna con un livello di cura e precisione unici al mondo. Capolavori come questi rappresentano una vera e propria sublimazione del fragile equilibrio tra uomo e natura. Se da un lato infatti l’industria agroalimentare, supportata dalle macchine, rappresenta in un certo senso il totale dominio degli esseri umani, nei contesti come quello valtellinese va in scena un dialogo serrato e costante. Si prende, si dà, niente è facile, e gli sforzi sono enormi anche per strappare alla roccia il più piccolo fazzoletto di terra.

Terzo requisito che abilita la parola “eroica”: l’altitudine. Più si sale in quota e più è complicato fare vino. Tuttavia esistono situazioni particolari dove una commistione di fattori tra cui la varietà del vitigno, l’abilità dell’uomo e il contesto territoriale rendono possibile la coltivazione della vite ad altitudini notevoli. In Val D’Aosta e Alto Adige non è raro trovare vigneti a 800, 900 e anche sopra i 1.000 metri, fino ad arrivare ai 1.350 dell’abbazia benedettina Marienberg, che si colloca tra le pochissime in Europa in grado di arrivare così in alto.

L’ultimo punto evidenzia come viticoltura eroica non significhi per forza contesto montuoso. Il quarto requisito, infatti, parla di “coltivazione su piccole isole”. Come quelle della Laguna di Venezia, ad esempio, dove l’acqua alta arriva a sommergere le vigne e la barca diventa il mezzo di trasporto protagonista in fase di vendemmia. Terreni sospesi tra acqua e terra, dove le radici delle piante lambiscono l’acqua salata del mare e la loro stessa vita è costantemente in discussione.

Per rimanere in tema con il contesto marittimo, ci sono casi in cui la presenza del mare convive con pendenze vertiginose. Ad esempio, le vigne dove viene prodotto il famoso Sciacchetrà, noto passito prodotto in Liguria nella zona delle Cinque Terre. Altro caso eclatante è quello del fiordo di Furore, vera e propria scheggia di Nord Europa conficcata in un contesto decisamente Mediterraneo. Stiamo parlando infatti della Costiera Amalfitana, dove a Furore la roccia è solcata da una profonda spaccatura ricoperta di uliveti, limoneti e vigneti. La realtà simbolo di questo incredibile angolo d’Italia è quella di Marisa Cuomo, che insieme ad Andrea Ferraioli conduce l’azienda da oltre quarant’anni. 10 ettari di superficie, di cui 3,5 di proprietà, molti dei quali coltivati sulle pareti rocciose a strapiombo sul mare. Ginestra, Pepella, Tronto, Sciascinoso… sono solo alcune delle varietà autoctone coltivate dall’azienda. La cantina, scavata nella roccia, gode della temperatura corretta senza necessita di alcun controllo.

Fiorduva Bianco è il vino più rappresentativo dell’azienda. Splendido blend delle tre uve prefillossera Fenile, Ginestra e Ripoli, trascorre sei mesi in piccole botti di rovere. Il 2019 si presenta con uno splendido giallo dorato e un ingresso avvolgente che rimanda alle note carnose dell’albicocca e del mango. In bocca mostra una progressione che apre a leggere speziature e a cenni di erbe aromatiche. Il finale è lunghissimo, scandito da sottili percezioni iodate. Sono proprio queste, più di tutto, a ricordare il contesto unico ed estremo in cui nasce questo vino, frutto di una viticoltura di altissimo profilo che valorizza luoghi dove nulla è scontato. In due parole, una viticoltura eroica.

di Graziano Nani 23.11.2021

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Piatti iconici e abbinamenti: il risotto alla milanese

Il profumo suadente e inconfondibile dello zafferano, la cremosità della mantecatura al burro che avvolge i chicchi di riso, la ricchezza umami data dalla generosa aggiunta di Parmigiano ma anche dal brodo di carne e volendo anche la grassezza avvolgente del midollo, che qualcuno ama aggiungere a fine cottura o fuori dal fuoco, già cotto a parte.

Il risotto alla milanese, o semplicemente risotto giallo allo zafferano, è un simbolo della cucina di casa delle grandi occasioni per la sua opulenza gustativa anticipata dal colore dorato dato dalla spezia, pur senza aggiungere la foglia d’oro come fece agli inizi degli anni ’80 il Maestro Gualtiero Marchesi rendendolo un’icona anche della nouvelle vague della cucina nostrana.

E se, secondo la leggenda, la sua origine sarebbe legata al Duomo di Milano – con l’apprendista Zafferano, grande amante e utilizzatore del color oro della spezia, che nel 1574 per ripicca finisce per metterla anche nel riso preparato in occasione delle nozze della figlia del maestro Valerio di Fiandra, artista fiammingo chiamato a realizzarne le magnifiche vetrate –, le prime menzioni della ricetta (con il riso però lessato, e non ancora cotto nel brodo) risalgono già al 1300. Mentre si deve aspettare l’800 per ritrovare delle preparazioni più vicine a quella che è stata codificata e tramandata ai giorni nostri, con il riso insaporito da grasso, midollo di bue, noce moscata, brodo e formaggio grattugiato. Il vino – ingrediente fondamentale per sgrassare e dare una lieve acidità al piatto – compare solo agli inizi del Novecento ad opera di Pellegrino Artusi, che propone appunto una variante della ricetta che utilizza il vino bianco, apprezzata da molti.

La preparazione del risotto giallo, più o meno canonica, entra di diritto nel novero dei grandi classici della cucina italiana e richiede una preparazione attenta fin nei minimi dettagli, a cominciare dalla scelta del riso che dovrebbe essere preferibilmente Carnaroli, o Vialone Nano, e dall’uso di zafferano in pistilli. Altrettanta cura, allora, richiede la scelta di cosa abbinarvi nel bicchiere.

Che si tratti della versione con o senza ossobuco, la scelta più indicata è senza dubbio un vino rosso di stoffa, sufficientemente maturo e di buon corpo ma con una sua eleganza, magari a base nebbiolo. Per esempio, il carattere intenso e i tannini vellutati del Gattinara Vigna Molsino di Nervi – il cui nome, in dialetto piemontese, significa “morbido” – potrebbe accompagnare egregiamente la versione “base” del piatto. Ottenuto da una vigna incastonata in un anfiteatro naturale ai piedi delle Alpi piemontesi, mostra al naso belle note floreali e di frutta rossa con qualche accenno speziato mentre in bocca è setoso, di grande beva, con un finale fruttato e incredibilmente sapido.

La presenza del midollo potrebbe invece far dirigere la scelta su un’etichetta altrettanto iconica e avvolgente come il Barolo Francia di Giacomo Conterno, un vero monumento di eleganza e fascino tutto piemontese. Al naso si avverte subito la sua complessità, con sentori di piccoli frutti rossi (qualcuno vi ritrova addirittura qualche accenno all’anguria) accompagnati da un profilo mentolato e minerale. In bocca è potente ed elegante allo stesso tempo, molto equilibrato, morbido ma con un finale sapido e fresco che invita al boccone successivo. ]L’alternativa un po’ fuori dai canoni potrebbe essere rappresentata da una bella bolla, con il perlage a  contrastare in maniera piacevole la cremosità e la grassezza del risotto. In questo caso però il suggerimento è di puntare su un Blanc de Noirs o comunque su un vino con una base importante di Pinot Nero.

Si va di certo sul sicuro stappando una bottiglia di Dom Pérignon Vintage 2010 in cui si fondono freschezza, mineralità e avvolgenza, unite a una persistenza notevole. Frutto di un’annata resa difficile da piogge improvvise, in cui la maestria della Maison ha saputo preservare le caratteristiche del pinot noir che qui affianca lo chardonnay al 50%, è fresco al naso – con note di fiori e frutta tropicale – ma ricco e intenso al palato che viene accarezzato da note speziate e pepate e da un affascinante finale salino.

Ma andrà benissimo anche optare per un Franciacorta Docg come il Vintage Collection Dosage Zèro Noir 2011 di Ca’ del Bosco, Pinot Noir in purezza dal perlage finissimo e persistente e il sorso pieno ma dalla grande bevibilità con ricordi di erbe aromatiche e spezie e una nota leggermente fumé a completare il profilo di frutta tropicale e agrumi.

– Luciana Squadrilli 16.11.2021

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

La serendipità dell’Amarone e il mito di Giuseppe Quintarelli

La serendipità è quel fenomeno per cui, mentre si sta cercando qualcosa, imprevedibilmente si trova altro. E il bello è che questo “altro” risulta una vera e propria sorpresa, qualcosa che spesso ha un valore più grande di ciò che si inseguiva originariamente. In poche parole si tratta di una scoperta fortunata, non pianificata. Cristoforo Colombo che scopre l’America, mentre in realtà cercava le Indie, è forse il caso più famoso di serendipità. Poi ci sono la Tarte Tatin, nata quando le sorelle Tatin scordarono di mettere la base nella torta di mele; il ghiacciolo, inventato incidentalmente da Frank Epperson dimenticando un bicchiere di soda al freddo; e la penicillina, figlia dell’errata disinfezione di un provino da parte di Alexander Fleming.

Anche l’Amarone pare sia un tipico caso di serendipità. La leggenda narra di un tale Adelino Lucchese, cantiniere della Cantina sociale di Negrar, che nel 1936 ritrova una botte di Recioto dimenticata. Spillando si rende conto che il vino dolce, continuando a fermentare, è diventato secco. Prova a recuperare il danno, ma senza successo. Il direttore della cantina, avvisato del problema, decide comunque di assaggiare quel “Recioto scapà” e rimane piacevolmente sorpreso dal risultato ottenuto. La frase che pare abbia rivolto al cantiniere è proprio “questo non è amaro, ma Amarone!”.

Nasce così il celebre vino della Valpolicella, il cui primo documento di vendita risale al 1938. L’Amarone viene poi distribuito a tutti gli effetti a partire dal 1953, ottenendo subito un ottimo riscontro commerciale. Nel 1968 viene approvato il primo disciplinare: al vino viene riconosciuta la certificazione DOC. Il suo successo continua a crescere, soprattutto all’estero, e nel 2010 arriva anche la DOCG. L’Amarone tecnicamente è un passito secco, ovvero privi di residuo zuccherino o quasi. La peculiarità del processo produttivo sta proprio nell’appassimento dell’uva, che porta a concentrazione e grande potenziale espressivo. Il vino viene prodotto con le uve storiche Corvina, Corvinone e Rondinella, a cui è possibile aggiungere sia uve locali che altre varietà.

Se guardiamo al percorso compiuto da questo grande vino, una stella brilla più delle altre lungo la sua parabola ascendente. È quella di Giuseppe Quintarelli, l’uomo che ha saputo portare l’Amarone ai livelli qualitativi più alti, fino a sancirne il successo e la fama in tutto il mondo. La cantina viene fondata dal padre Silvio a Negrar agli inizi del Novecento. Sarà proprio Giuseppe, il più giovane dei figli, a prenderla in mano negli anni Cinquanta, proseguendo il lavoro iniziato dal padre. L’azienda cresce nel rispetto dei metodi di lavorazione tradizionali, arricchiti da alcune importanti scelte evolutive. Negli anni Ottanta, ad esempio, alle varietà tradizionali ne vengono aggiunte altre internazionali come Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, e altre ancora come Nebbiolo e Croatina. Quello che negli anni invece non cambia è la tensione a un’eccellenza senza compromessi, assoluta.

Giuseppe Quintarelli è un uomo semplice e generoso, così altruista da condividere tutti i segreti del proprio mestiere con Romano Dal Forno, rendendolo di fatto il suo successore. Un grandissimo produttore mancato esattamente dieci anni fa, nel 2012, quando la figlia Fiorenza prende in mano le redini dell’azienda insieme al marito e ai figli. Diverse le etichette, tutte di monumentale importanza. Tra queste, l’Amarone della Valpolicella Classico spicca come vera e propria bottiglia leggendaria. Parliamo della 2013. L’annata, dal punto di vista climatico, è stata ambivalente. Nella prima parte le piante hanno subito gli effetti di un clima difficile, con temperature basse e frequenti piogge. Nella seconda parte, da giugno in poi, il meteo ha invece virato in direzione opposta, portando alla raccolta di frutti dal grande profilo qualitativo. Si tratta di fatto di una tra le migliori annate per l’Amarone, che molti produttori sono riusciti a tradurre in vini di estrema finezza. Quello di Quintarelli, in particolare, si presenta con un rosso rubino di grande intensità, lasciando presagire fin da subito una materia viva e vibrante. Al naso apre con sentori di potpourri e delinea un tocco di note scure che il palato renderà più evidenti. Il sorso è regale, sontuoso, con la frutta in confettura che lascia spazio prima a sensazioni iodate, poi a richiami sui toni della fava di cacao e della liquirizia. Come in tutte le opere massime, non solo quelle enologiche, è nel finale che si ha la conferma del capolavoro.

di Graziano Nani 09.03.2022

Quindici anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Direttore Creativo di Doing. Sommelier Ais, scrive per Intravino e Vertigo Magazine, parte del network Passione Gourmet. Su Instagram è #HellOfaWine, dedicato alle eccellenze enologiche. Il suo wine blog è gutin.it, mescola storie e illustrazioni. Ama anche la cucina: racconta chef e vini del cuore con degustazioni a tema.

Drengot: il rinascimento dell’Asprinio

Alberto Verde è un quarantaduenne dallo spirito indomito, orgogliosamente campano, che per argomentare le ragioni del suo incondizionato amore per la Campania arriva a citare il filosofo francese Régis Debray, che nel suo ultimo libro (Contro Venezia, pubblicato qualche mese fa) definisce Napoli come «la vitalità incarnata. […] La città meno narcisista che ci sia, l’unica in Europa dove il mito si incontra per strada, dove il passato si vive al presente».

Da questo amore e dalla conoscenza profonda del territorio è nato un progetto ambizioso di riscoperta e valorizzazione dell’Asprinio, un vitigno autoctono dell’aversano con una vicenda unica, che si intreccia con quella degli Angiò ma anche quella dello champagne e del Greco di Tufo e che testimonia le profonde trasformazioni (non sempre positive) vissute dal territorio campano nel corso della storia. Con la sua cantina, Drengot – in omaggio al conte normanno Rainulf Drengot, che nel 1030 fondò Aversa – oggi Alberto produce tre ottimi vini, a base di Asprinio proveniente dalle vigne ultracentenarie di famiglia.

Lo abbiamo incontrato prima della pausa estiva e ci siamo fatti raccontare qualcosa di più su Drengot e sulla sua visione.

Sei partito da una vigna di famiglia e da lunga storia, operando una piccola rivoluzione nel territorio di Cesa e di tutto l’aversano. Ci racconti come è nato il tuo progetto e perché hai scelto di lavorare solo con Asprinio?

Per raccontarti come siamo arrivati a Drengot voglio fare una premessa, per me importante, che riguarda il territorio in cui ci troviamo.

La provincia di Caserta è una delle migliori di Italia per la vitivinicoltura perché è estremamente fertile – siamo nel cuore di quella che gli antichi chiamavano Campania Felix – ma proprio la sua fertilità ha fatto sì che, soprattutto dal dopoguerra in avanti, ci si concentrasse su coltivazioni intensive, per sfruttare al massimo la ricchezza del territorio. Anche perché i prodotti alimentari del casertano non hanno eguali in Italia dal punto di vista qualitativo e, quindi, sono sempre stati molto richiesti. Non lo dico per partigianeria, è la realtà e lo dimostra il fatto che ancora oggi la gran parte dell’industria agroalimentare del paese viene qui a comprare materie prime e prodotti per poi rivenderli con la propria etichetta. Il limite di questo sistema qual è, però? Che questa zona, speciale dal punto di vista agronomico, ricchissima in biodiversità e con una lunga tradizione agroalimentare, è diventata, nel tempo, una terra di contoterzisti a servizio di tutte le aziende del paese. È stata la sorte di molte zone del Sud Italia, a seguito del boom economico e con la parallela perdita della vocazione agricola di queste zone. Sembra, però, che le cose stiano piano piano cambiando, anche se ci vorrà tempo per vedere i risultati.

Sì, è vero, gli imprenditori agricoli di nuova generazione stanno cercando di fare un lavoro diverso. Per esempio, qui nell’aversano ci sono tantissime aziende agricole che operano in biologico e soprattutto si stanno facendo strada molte realtà che hanno scelto di entrare nella grande distribuzione con un marchio proprio e con un posizionamento e una strategia di comunicazione a supporto. Stiamo cercando di uscire dalla logica contoterzista per riappropriarci della nostra identità, anche per poter dare il giusto valore – economico e culturale – ai nostri prodotti, che sono davvero di qualità altissima, che si tratti di frutta, di verdura, di vino o di formaggi.

La cosa più difficile è capovolgere la prospettiva e allontanare tutti quei pregiudizi che si sono nel tempo accumulati e che, nella maggior parte dei casi, sono frutto di una pessima narrazione delle nostre terre e della nostra storia.

Tu con Drengot stai cercando di dare un tuo contributo per quanto riguarda il vino, dando una nuova vita a varietà autoctona come l’Asprinio. Mi sembra che il tuo progetto sia animato da un certo spirito battagliero.

Assolutamente sì. Quando ho iniziato a pensare di avviare un progetto sui terreni di famiglia, non avevo in mente di fare vino ma ero sicuro di voler qualcosa per restituire a questo territorio quello che merita, con un misto di orgoglio e di senso di riscatto, per tutto quello che ci è stato tolto e le opportunità che non ci sono state date.

La scelta dell’Asprinio è arrivata strada facendo, ci sono stati due episodi piccoli ma decisivi. Il primo è stato una lunga chiacchierata con un produttore di vino del Veneto, per il quale l’Asprinio è uno dei bianchi migliori d’Italia. Per me è stata una sorta di illuminazione, che mi ha portato a riflettere molto, anche perché la mia famiglia alleva Asprinio da sempre, almeno dal 1800, ma sicuramente potremmo andare ancora più indietro, volendo fare un po’ di ricerca. E io stesso sono cresciuto in mezzo alle vigne, insieme ai miei cugini ho passato tutte le mie estati di bambino e ragazzino lì. Quindi, dopo questo incontro ho fatto un giro nella vecchia cantina di mio nonno e per le vigne e così ho deciso, immaginandolo subito come un progetto di lungo respiro, a venti – ma anche trenta – anni. Volevo costruire qualcosa che potesse durare nel tempo e che desse davvero valore a questa terra. L’Asprinio ha caratteristiche che lo rendono unico nel panorama vinicolo italiano. Ci dici qualcosa di più?

Per prima cosa bisogna dire che è un vitigno che qui si alleva fin dall’antichità e che definire territoriale è poco, perché cresce solo qui e quando dico “qui” intendo i quindici comuni dell’aversano, perché se già provi a spostare l’Asprinio di pochi chilometri, diciamo a Caserta, non cresce più.

E fammi fare anche un piccolo excursus storico: nel Settecento, a causa di una pandemia a Napoli e dintorni, un nobile locale decise di trasferirsi e isolarsi – non abbiamo certo inventato noi il lockdown –  nel castello di Tufo, portando con sé, fra i vari beni, anche alcune viti di Asprinio per impiantarle nei terreni circostanti. Ora, una delle caratteristiche di questa varietà è che si sviluppa in altezza, raggiungendo e superando i 15 metri,  a Tufo però le viti non riuscivano a crescere e presero nel tempo un’altra fisionomia e altre caratteristiche: il Greco di Tufo è nato dall’evoluzione di quelle prime viti di Asprinio.

E proprio dalla straordinaria altezza di cui ti parlavo deriva la peculiare struttura delle alberate aversane: le viti di Asprinio crescono intrecciate – o “maritate” come si dice da noi – ai pioppi che vengono utilizzati come supporti, mentre i tralci si attorcigliano a cavi di ferro zincato, creando quasi dei muri vegetali. È un’altra di quelle meraviglie che si trovano solo qui, tanto che le alberate sono state riconosciute come patrimonio immateriale della Regione Campania.

La leggenda dice che l’Asprinio è stato il primo spumante dalla storia. Quanto c’è di vero?

È tutto vero! Semplicemente perché l’Asprinio ha un’acidità di dieci decimi. Non esiste nessun’altra uva che raggiunge questi livelli, quindi si può dire che dall’Asprinio nasce un vino naturalmente frizzante. È uno spumante naturale di fatto e quando diciamo che le bollicine sono nate qui, lo diciamo perché alla corte degli Angiò si beveva solo Asprinio, proprio perché frizzante. Tutto questo è documentato.

Il primo documento ufficiale in cui si cita l’Asprinio è datato 1495 ed è una scrittura privata fra un proprietario terriero e il suo colono ma, come ti dicevo, nell’aversano si alleva da sempre.

È incredibile come un vino così speciale sia stato così poco valorizzato, quasi dimenticato. Credo che sia una dinamica collegata anche al contoterzismo di cui parlavi prima.

Sì, certo. In realtà a livello locale non si è mai smesso di consumare Asprinio ma diciamo che è sempre stato il classico vino da vendere sfuso o da produrre e destinare a uso privato e questo perché dal secondo dopoguerra fino agli anni Novanta il grosso della produzione era destinato alla cantina della Vecchia Romagna, che pagava molto bene le uve per due utilizzi: l’uva era usata per ottenere una base spumante da vendere ai produttori francesi di champagne; con la vinaccia, invece, si otteneva il famoso brandy. Quindi, per decenni – fino alla chiusura di questa cantina – non è stato più redditizio produrre un nostro vino.

Per quanto riguarda la nostra azienda agricola, alla morte di mio nonno (nel 1990), mio padre ha preso in mano la sua gestione, dedicandosi soprattutto alla vigna che è antica, tutte le nostre piante hanno circa 200 anni. Drengot nella sua fisionomia attuale quando è nata, quindi?

Le prime due annate sono state la 2015 e 2016, ma nei fatti sono state dei test, non abbiamo mai pensato di commercializzarle. Nel 2017 ho ripensato tutta la struttura, con un nuovo gruppo di lavoro che funziona molto bene e, così, siamo arrivati a una formula convincente: il lancio sul mercato del vino è avvenuto nel 2018 e quello dello spumante nel 2019.

Avevo in mente un prodotto “ultra-territoriale”, lavorando solo ed esclusivamente con Asprinio, per tutti i motivi che già ti ho raccontato, e volevo che fosse un prodotto di alta qualità che rendesse finalmente giustizia al grande potenziale di quest’uva. Volevo dimostrare, ai miei conterranei prima di tutto, che quel vino, che qui chiamavano tradizionalmente “il vinello”, poteva essere un ottimo vino, di grande piacevolezza e con buon potenziale evolutivo. Un vino di fascia alta.

Ho scelto il nome Drengot per dichiarare da subito il legame con il territorio. Mentre le nostre tre referenze hanno nomi connessi alla storia locale: Terramasca significa terra vulcanica, quindi rimanda al carattere delle nostre terre, Scalillo è un omaggio alla scala che usiamo durante la vendemmia e che ha una particolare forma rastremata per consentire la raccolta manuale sulle nostre alberate e, infine, Asprinium per celebrare fino in fondo la nostra varietà, con un rimando al mondo latino, quindi alle nostre radici.

Terramasca è la vostra referenza di punta, lo definirei un metodo Charmat “nobile” perché matura un anno in acciaio, fa diciotto mesi di affinamento sui lieviti, con un riposo, poi, in bottiglia di almeno altri sei mesi. Considerando, però, il carattere naturalmente frizzante dell’Asprinio, mi viene spontaneo chiederti se pensi di produrre anche un metodo classico.

In realtà ci stiamo già lavorando e ti posso dire che, nel futuro prossimo, Terramasca sarà esclusivamente un metodo classico, non posso essere più preciso perché vogliamo prenderci tutto il tempo che ci serve per arrivare a una bollicina perfetta, che ci soddisfi a pieno. Quest’uva se lo merita!

Sicuramente, Terramasca rimarrà la nostra eccellenza, ma non abbandoneremo del tutto lo Charmat. Lo useremo, infatti, per una nuova referenza un po’ più giovane e non più di annata e per questo più accessibile nel prezzo. Per me è importante, in questo momento, far arrivare l’Asprinio a un pubblico ampio, senza naturalmente abbassare la qualità. Il tuo progetto sta dimostrando fin dove può arrivare l’Asprinio. Che impatto ha avuto il tuo approccio a livello locale? Come è stato recepito?

Ciò che ho portato io qui è stata soprattutto una mentalità positiva: il prodotto c’era ma era poco considerato, da noi per primi. E per questo motivo, nonostante tutte le peculiarità dell’Asprinio, il vino è sempre stato di bassa qualità; quello che ho scelto di fare io, invece, è stato nobilitarlo al massimo, mettendo in piedi un gruppo di lavoro di alto livello e mostrando a tutti tutto il potenziale che abbiamo. E nel farlo ho stupito positivamente i consumatori ma anche gli altri imprenditori agricoli. Diciamo che sono riuscito a smuovere le acque.

Per me, personalmente, Drengot va oltre le opportunità imprenditoriali, è un progetto che riguarda soprattutto il territorio nella sua interezza: sono partito dall’Asprinio per dare nuovo valore a tutto quello che abbiamo qui. Però ammetto che c’è tantissimo da fare e che sono solo agli inizi, con la complicazione che ci troviamo a dover fare il lavoro di un consorzio, che qui non c’è.

Capisco, anche perché per portare avanti certi discorsi servono le istituzioni e serve anche una visione di marketing territoriale, che sono può essere affidata solo a un singolo.

Devo dire che le Pro Loco qui stanno facendo un gran lavoro di supporto. L’inserimento dell’Asprinio fra i beni immateriali campani, si deve al loro impegno. È un riconoscimento importantissimo, non solo a livello simbolico ma anche perché vincola tutti a una tutela delle viti e a una cura del territorio che prima non c’erano. Recentemente è stato fatto anche il passo successivo per ottenere il riconoscimento dall’UNESCO.

Inizia a esserci un certo movimento e una certa attenzione che prima mancavano e che riguardano l’Asprinio ma anche tutti i nostri prodotti locali. Vedo, per esempio, un rinascimento complessivo del vino del casertano, qui c’è un lunghissima e preziosa tradizione: abbiamo tanti rossi e tanti bianchi da splendide uve autoctone, sono poco conosciuti ma stanno trovando nuovo vigore, come il Casavecchia, che è davvero ottimo. È un bene perché si può creare, con il tempo e con il lavoro, un circolo virtuoso per tutto il territorio.

Per quanto riguarda me, sono molto ottimista perché credo molto nella qualità del mio prodotto, so che la storia dell’Asprinio ha un fascino tutto suo e sono molto determinato a contribuire alla rinascita della mia terra. Si tratta unicamente di dare tempo al tempo e lavorare con tenacia.

Redazione 7.09.2021

Nicola Biasi: l’importanza di rimettere al centro il territorio

Miglior giovane enologo d’Italia 2021 per Vinoway, premiato come Cult Oenologist per il Merano Wine Festival 2021 (il più giovane di sempre a ricevere questo riconoscimento), nel 2015 il premio Next in Wine di Simonit & Sirch – in collaborazione con Fondazione Italiana Sommelier Bibenda – e un carnet di esperienze professionali davvero ricco, sia come enologo all’interno di numerose aziende, sia come consulente: è il profilo molto (troppo) sintetico di Nicola Biasi, talentuoso enologo e vignaiolo che in questa intervista ci racconta come è nato il suo Vin de la Neu e qual è la strada, secondo lui, per raggiungere una reale sostenibilità.

Sia come enologo interno alle aziende, sia come consulente hai lavorato e lavori ancora in zone sicuramente vocate, una su tutte Montalcino. Quando però, si è trattato di fare il tuo vino, hai scelto un territorio non blasonato e, all’apparenza, anche difficile (ndr. Coredo, Trentino). Come mai?

Perché penso che le zone vocate non siano solo quelle “famose” e che non conosciamo ancora tutte le potenzialità dei nostri territori. L’esempio più evidente è proprio quello di Montalcino: è una delle denominazioni storiche italiane ma, in realtà, ha iniziato a fare vino seriamente e a concentrarsi sul Sangiovese solo una quarantina di anni fa. La zona è palesemente vocata e lo è sempre stata evidentemente, quello che è cambiato, nel tempo, è stato il nostro sguardo. Questa deve essere una lezione: bisogna continuare a studiare perché ci sono potenzialmente territori capaci di diventare i nuovi Montalcino.

Ovviamente, non sto dicendo che possiamo iniziare ad allevare vite dappertutto. Ma bisogna mettere il territorio al centro dei nostri pensieri. Cosa intendi? Non è sempre così, secondo te?

Sì e no. Per me il territorio è più importante del vitigno, che deve essere una sorta medium per far emergere il carattere del luogo. È un approccio, lo so, che fa passare in secondo piano il vitigno dal punto di vista dell’espressività organolettica ma che gli dà un’importanza di altro tipo, perché lo fa diventare lo strumento capace di far esprimere nella maniera più compiuta un territorio.

La scelta dello Johanniter per il tuo Vin de la Neu nasce da queste riflessioni, immagino.

Sì. Mi sono anche assunto il rischio di sbagliare ma ero convinto che lo Johanniter fosse il vitigno migliore per Coredo. Siamo in Alta Val di Non, dunque un terreno povero, che tende a farti produrre molto poco e questo eliminava già alcune scelte perché per certi vini il “poco” non è bene, né qualitativamente né quantitativamente. A quelle altitudini, poi, doveva essere per forza un bianco. E poi, volevo che fosse capace di durare nel tempo.

Mettendo insieme tutti questi fattori, sono arrivato allo Johanniter, perché ha i geni del Pinot Grigio e del Riesling: da un lato c’è la precocità del primo, di cui ho bisogno in una zona così fredda, dall’altro c’è il Riesling, importante per il potenziale evolutivo del vino.

Il terreno era un terreno di famiglia?

Era la casa dei miei nonni, una volta che sono ritornati in Italia dall’Australia e, per noi, è sempre stata il luogo delle vacanze. Noi vivevamo in Friuli all’epoca e i terreni sono sempre stati dati in affitto e ovviamente destinati alla coltivazione di mele. Dopo cinque anni di lavoro come enologo delle tenute Allegrini in Toscana, avevo voglia di fare un vino mio. Volevo mettermi alla prova e capire se e quanto ero bravo, facendo tutto da solo, senza la struttura di una grande azienda alle spalle. È stato abbastanza naturale guardare a un terreno di famiglia. Ho piantato nel 2012 e la prima annata è stata quella successiva.

Tornando allo Johanniter, quanto ha contato nella scelta il fatto che sia un vitigno PIWI?

Molto perché in questo modo ho praticamente azzerato i trattamenti. È la stata la chiusura del cerchio: fare un vino tutto mio, nel giardino di casa e per giunta realmente sostenibile. Sinceramente mi stimolava molto anche il fatto di provare a fare qualcosa che lì ancora non aveva fatto nessuno. Addirittura, ho scelto lo Johanniter quando ancora non aveva l’autorizzazione, che è arrivata solo nel 2014.

Possiamo già azzardare un bilancio di questo primi nove anni? Come si sta comportando il vitigno?

Innanzitutto, posso smentire molti detrattori dei vitigni resistenti, che sostengono che dopo alcuni anni i PIWI non resistono più alle malattie. Per ora le mie viti funzionano perfettamente dal punto di vista agronomico e sono resistenti. Poi non so cosa succederà da qui a trent’anni ma oggi è così.

Chiaramente, le vigne con qualche anno in più sulle spalle danno dei risultati diversi, i vini stanno migliorando costantemente, acquisendo col tempo una maggiore profondità organolettica. Ma fin da subito ho avuto una buonissima risposta, perché le vigne, aiutate dal terreno che le fa produrre poco, hanno sempre dato uve di alta qualità.

Vin de la Neu è una sola etichetta attualmente. Ti piacerebbe sperimentare con altre varietà?

Sono davvero molto soddisfatto di come si comporta lo Johanniter su quel terreno e, prima di tutto, vorrei incrementare la produzione: da 1000 a 2000 bottiglie. Nel 2017 ho piantato ancora perché il primo vigneto era davvero piccolo e nel 2025 amplierò ulteriormente, così arriverò a circa un ettaro di vigna e potrò far crescere la produzione.  Non escludo di piantare altro per capire come si comporta un’altra varietà, ma allo stesso tempo sono certo che farò solo un’etichetta. Forse più in là, Vin de la Neu potrebbe diventare un blend: un’evoluzione di questo tipo potrebbe interessarmi.

Ma è un progetto con una identità così forte e semplice che non voglio snaturarla con altre referenze. Quando la mattina della prima vendemmia – il 12 ottobre 2013 – ci siamo svegliati e tutto ero coperto di neve, ho pensato di aver trovato la mia storia. Il vino si chiama Vin de la Neu per questo motivo.

Con Vin de la Neu volevi fare un bianco capace di invecchiare, grazie anche al ricorso alla fermentazione malolattica. In Italia per i bianchi, tutto sommato, è ancora poco diffusa, perché secondo te?

C’è diffidenza verso la malolattica perché si teme sempre che appesantisca troppo i bianchi, li privi di freschezza. Ma è un pregiudizio, se è ben fatta conferisce stabilità al vino e quindi, al contrario, gli aromi si preservano meglio. Si perde forse qualcosa all’inizio ma in prospettiva si ha un vino bianco che può durare molto nel tempo. In Italia, i bianchi che invecchiano sono ancora troppo pochi e, siccome il potenziale evolutivo è fondamentale per dare valore a un vino, penso che dobbiamo iniziare a farne di più.

Anche per poterci confrontare davvero alla pari con i francesi, andando oltre la gara facile degli ettolitri prodotti o del numero complessivo di bottiglie vendute.

L’eterna rivalità Italia-Francia…

Guarda, io non credo che i francesi siano più bravi di noi a fare vino, credo siano più bravi a vinificare in un modo più adatto per fare vini di valore. Hanno la tranquillità e la forza di lavorare per fare vini che durano. Si sanno far aspettare. Su questo fronte, per me, siamo noi a dover cambiare, se lo vogliamo naturalmente.

Dato che la sostenibilità è una delle chiavi del tuo progetto, ti chiedo cosa rende un’azienda agricola sostenibile?

In fondo è molto semplice: alla fine del suo ciclo deve inquinare poco. Il paradosso, in questo momento, è che un’azienda può essere a tutti gli effetti certificata biologica ma inquinare comunque troppo.

Guardare solo quanti e quali prodotti vengono usati non dice abbastanza delle buone pratiche di un’azienda. Ti faccio un esempio semplice: posso usare solo zolfo e rame ma se poi devo fare più di 20 trattamenti e per ogni trattamento spreco 200 o 300 litri d’acqua l’impatto ambientale è enorme. Senza considerare la CO2 prodotta a ogni intervento. La sostenibilità deve riguardare un’azienda nella sua interezza: ogni passaggio produttivo, ogni singolo gesto quotidiano. E qui torniamo al tuo interesse per le varietà resistenti.

Ho assoluta certezza che le varietà resistenti oggi siano l’unica risposta concreta in viticoltura. Dico “oggi” perché non escludo che fra qualche tempo si scopriranno cose nuove ma allo stato attuale è così.

È per questo che, alla fine di luglio, è nata una rete di impresa che raggruppa le aziende che seguo come consulente e che hanno scelto questa strada. Nello statuto si parla di sostenibilità concreta, di vitigni resistenti, ma non solo, perché noi il focus deve essere, appunto, sulla sostenibilità e non sui mezzi che si usano per raggiungere questo obiettivo. Ogni iniziativa che tende a questo scopo per noi è ben accetta.

A questo punto mi sembra inevitabile chiederti cosa pensi della definizione di “vini naturali”.

A me non piace il termine perché divide in una maniera un po’ manichea i buoni dai cattivi: se sei naturale, sei dalla parte giusta, sennò sei un bandito. E invece le cose sono un po’ più complesse di così.

Inoltre, sono dell’idea che meno si vuole intervenire più si deve conoscere. E, invece, molto spesso – ovviamente non sempre – chi sta sotto il cappello del naturale queste conoscenze non le ha e ricorre all’idea un po’ romantica del vino una volta, del vino del contadino.

Si pensa che il vino sia soggettivo, ma non è così. O meglio, c’è il gusto personale ma prima di questo, per fare un buon prodotto – e questo vale per il vino e per ogni altra cosa – ci sono dei parametri oggettivi che arrivano dalla competenza e dal saper fare. Se un vino ha una volatile che supera le soglie di legge o comunque che devia gli aromi del vino, naturale e meno che sia, non può essere definito buono.

Diciamo che, come nel biologico, forse il naturale è un grande cappello sotto il quale si trova un po’ di tutto.

Ci deve essere un’etica in tutte le scelte che un’azienda compie, ma queste scelte devono essere indirizzate a ottenere un buon vino. Se scelgo il biologico o il biodinamico, lo devo fare non perché è una bandiera ideologica ma perché è il modo di operare che mi consente di fare il miglior vino possibile, nel contesto territoriale e ambientale in cui mi muovo.  È una prospettiva questa sulla quale mi confronto tantissimo anche con le aziende che seguo e che usano i vitigni resistenti.

Per me non ha senso mettere davanti a tutto la scelta dei PIWI, bisogna, invece, partire dalla qualità del vino, che è l’unica cosa, insieme a un approccio etico, che dà senso al nostro lavoro. Immagino che sia per questo che quando parli di Vin de la Neu parli molto poco di PIWI.

Sì, perché io credo molto nel potenziale dei PIWI ma credo anche che l’unico modo per arrivare a una loro diffusione sia quella di fare vini davvero buoni. Dobbiamo convincere i consumatori partendo dalla qualità del vino, è solo così che si può innescare un cambiamento, sennò rimarranno una bella nicchia, animata da valori sostenibili ma troppo piccola per fare la differenza.

All’inizio ho parlato del tuo curriculum molto ricco. Ci vuoi raccontare qualcosa di te?

Sono friulano e mio padre era enologo, dunque sono cresciuto in vigna e in cantina. Dopo la scuola di enologia, ho deciso di iniziare subito a lavorare perché avevo fretta di iniziare a fare. Dopo due vendemmie con Jermann, ho iniziato a lavorare con Patrizia Felluga, per Zuani, dove si facevano solo bianchi ed ero l’unico dipendente. E lì ho potuto mettere mano in tutte la parti del processo, ne avevo bisogno per capire, rendermi davvero conto.

Dopo cinque anni da Zuani, sono andato in Australia, poi una volta tornato ho lavorato per qualche mese al Castello di Fonterutoli e poi sono andato in Sud Africa. Qui mi ha chiamato Marilisa Allegrini per propormi di seguire Poggio San Polo. Non potevo rifiutare e, successivamente, ho iniziato a occuparmi anche di Poggio al Tesoro.

A Marilisa devo moltissimo ma dopo qualche anno avevo, di nuovo, bisogno di cambiare: prima ho piantato la vigna a Coredo e poi nel 2016 ho deciso di fare il consulente, mi piaceva l’idea di lavorare contemporaneamente su territori diversi. Nel 2021, in piena pandemia, ho creato la Nicola Biasi Consulting una società di consulenze per le aziende che fanno vino. L’obbiettivo è di poterle seguire a 360 gradi, collaborando con professionisti dalla formazione specifica.

Un’ultima domanda: fai anche parte del progetto Wine Research Team. Di cosa vi occupate?

È una rete d’impresa voluta da Riccardo Cotarella nel 2012 e composta da quaranta aziende che fanno ricerca e sperimentazione in viticoltura ed enologia. È una sorta di snodo fra l’università e le aziende. Diciamo che cerchiamo di trovare applicazioni pratiche, sperimentando sul territorio, tecnicamente, quanto studiato dalle università o dagli enti di ricerca scientifica.  E le soluzioni che troviamo sono messe a disposizione delle aziende associate. È un lavoro per me molto bello, molto stimolante e che ci sta dando grandissime soddisfazioni.

Saggezza antica e fiere virtuali: le nostre letture di maggio

In questi mesi di isolamento forzato si è registrato un forte incremento del consumo casalingo di alcolici e si è, di conseguenza, molto parlato dei rischi ad esso connessi. Torna utile, dunque, la saggezza dei tempi antichi, quando Dioniso, il dio dell’ebbrezza che nella mitologia greca fece dono agli uomini del vino, invitava a non esagerare e a seguire “la regola dei tre bicchieri” (all’epoca il vino era diluito con l’acqua): il primo per la salute, il secondo per l’amore e il terzo per il sonno. Superato questo numero, il rischio era quello di scivolare nella follia.

Un suggerimento da tenere sempre mente, che rimanda al bere consapevole in maniera sicuramente suggestiva e che troviamo in questa bella ricognizione nella cultura del vino della Grecia antica, compiuta da Giorgio Ieranò per IL Magazine: www.ilsole24ore.com.

Fabio Rizzari, invece, sull’Accademia degli Alterati scrive del piacere di bere il vino giovane: luminoso, irruento, diretto come solo la gioventù può essere: www.accademiadeglialterati.com.

Dibattito accesissimo, com’era prevedibile, per la nascita ufficiale del “Prosecco spumante rosè millesimato”. Il 21 maggio, infatti, il Comitato nazionale Vini del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali ha approvato la modifica al disciplinare della DOC Prosecco per l’introduzione della tipologia rosè, che potrà contenere fino a un 15% di Pinot Nero (il restante 85% è composto da Glera). Su La Repubblica Sapori un’articolata ricostruzione delle diverse posizioni, fra apocalittici e integrati: www.repubblica.it.

Sul New York Times, Eric Asimov ha dedicato  agli orange wine un articolo (come sempre) molto accurato, che – andando al di là delle  mode – racconta il fascino polarizzante di questi vini: www.nytimes.com.

Ci spostiamo a Bordeaux e per una volta ci allontaniamo dal mondo del vino in senso stretto per scoprire – insieme a Winesurf – la storia del Lillet, il tradizionale aperitivo bordolese nato nel 1872 nella distilleria di Raymond e Paul Lillet: www.winesurf.it

Inevitabile e doveroso tornare a parlare dell’emergenza Covid-19, in modo particolare dei primi tentativi di disegnare un post-emergenza per il settore vitivinicolo. A metà maggio, per esempio, il Governo francese ha annunciato un primo pacchetto di misure per contrastare la crisi. Le riporta in sintesi The Drink Business: www.thedrinksbusiness.com.

Dal canto suo, Antonino Laspina, direttore dell’Istituto Nazionale per il Commercio Estero a New York,  si dice – in una lunga intervista rilasciata al Gambero Rosso – ottimista sul futuro del vino italiano negli Stati Uniti. I nostri fondamentali sono solidi e il made in Italy è sempre molto amato: www.gamberorosso.it.

Infine, uno sguardo al mondo degli eventi di settore: indispensabile ripensarli, coniugando in modi, fino a qualche mese fa inaspettati, fisico e digitale. In questo senso, potrebbe essere interessante la soluzione proposta dalla fiera virtuale Hopwine (www.hopwine.com): dal 18 al 25 maggio gli addetti ai lavori hanno avuto la possibilità  di “visitare” – sul sito della manifestazione – gli stand virtuali di diverse cantine, chattando con i produttori e scegliendo quali vini assaggiare. Hopwine si fa, successivamente, carico di predisporre e inviare, a chi ne ha fatto richiesta, assaggi in mini-bottiglie da 2 cl dei vini dei produttori. Le vinottes, questo il nome dei campioni, sono certificate, semplici da spedire e da riciclare, perché realizzate in PET e chiuse con il tappo a vite. Fra le cantine presenti anche quelle del Consorzio del Chianti Classico. Staremo a vedere se la formula funziona.

– Redazione 26.05.2020

Verdure protagoniste, la sfida dell’abbinamento

Sani, buonissimi, non per forza relegati al ruolo di “contorno”. Le verdure e gli altri prodotti del mondo vegetale – che possono includere, ad esempio, tuberi e radici – sono ingredienti importanti di tanti piatti deliziosi e molto amati, da quelli più freschi e leggeri a quelli più sostanziosi e golosi. Oltre ad essere in molti casi ideali per chi sceglie un regime privo di proteine animali o comunque di carne e pesce, sono perfetti da portare in tavola in ogni occasione. Unica accortezza: seguirne la stagionalità per essere certi di avere prodotti salutari, freschi e nel pieno del loro profilo gustativo e nutrizionale.

Come procedere, però, con gli abbinamenti nel bicchiere? Molti ortaggi, per le loro caratteristiche e per alcune note particolari che emergono nel retrogusto, sono infatti particolarmente complessi da accompagnare al vino. Pensiamo ai carciofi, che sono insieme dolci (al cuore e nel gambo), tannici (dunque amarostici e astringenti) e vegetali. O ai finocchi, che con il loro gusto caratteristico tendono spesso a coprire altre sensazioni incluse quelle del vino scadente o inacidito, da cui il termine “infinocchiare”. Eppure le infinite sfumature frutto di terroir, vitigni e lavoro in vigna e cantina permetto senz’altro di trovare con cosa abbinare anche i piatti a base di verdure.

Cominciamo con la regina delle tavole estive, nata al Sud – dove conosce diverse varianti in base alla regione o alla specifica località – ma ormai amatissima in tutta Italia e oltre: la parmigiana di melanzane. Piatto poderoso, dai sapori forti e decisamente ricco (parliamo naturalmente della versione tradizionale, con le melanzane fritte e abbondante presenza di fiordilatte e formaggio grattugiato) avrà bisogno di trovare nel bicchiere un vino altrettanto strutturato e “muscolare”. Ad esempio il Taurasi Riserva Vigna Grande Cerzito di Quintodecimo, col suo naso speziato in cui le note di ciliege, prugne e cioccolata, si fondono insieme a quelle ferrose date dal suolo irpino e che in bocca risulta estremamente ricco, con tannini setosi e avvolgenti.

Sempre al mondo vegetale, se pure in senso lato (ne sono parassiti e formano un regno a sé stante) e con note e sapori decisamente diversi che portano alla mente bosco e sottobosco, rimandano i funghi. Tantissime le varietà esistenti ma i “principi” sono naturalmente i porcini: buonissimi fritti, arrostiti o crudi in insalata, si prestano anche a diventare ingredienti di piatti appena più complessi come un tortino di porcini e patate con una fonduta di Spress (o Spressa delle Giudicarie), gustoso formaggio Dop del Trentino Alto Adige. In questo caso la scelta più indicata cade su un grande bianco di territorio come lo Chardonnay Troy di Cantina Tramin: un vino che gioca su morbidezza e freschezza con toni di agrume, fiori delicati e frutta secca al naso, mentre in bocca si apre su note di frutta tropicale e un accenno di nocciola, il tutto ben sostenuto da una lunghissima mineralità salina.

Se ci spostiamo invece al mare, e di nuovo alle belle giornate di primavera ed estate, ecco che le zucchine – da molti considerate un ortaggio un po’ scialbo – diventano l’ingrediente principale di uno dei primi piatti più gustosi, per altro adatto anche a chi segue un’alimentazione ovo-latto-vegetariana: gli spaghetti alla Nerano. Nati proprio in un ristorante dell’incantevole baia della Costiera Amalfitana, vedono la dolcezza delle zucchine (fritte ma morbide e non bruciate) ben controbilanciata dalla sapidità dell’intenso Provolone del Monaco, dalla freschezza del basilico e dagli aromi di aglio e pepe nero, che mantecati insieme alla pasta formano una sorta di crema ricca di sapore ma non pesante. Cosa versare nel bicchiere? Facendo un salto da costa a costa, potremmo aprire il Gorgona Bianco di Frescobaldi, nato dalla collaborazione tra la prestigiosa cantina toscana e l’unica isola-penitenziario in Europa, le cui vigne sono lavorate dai detenuti. Uvaggio di vermentino e ansonica, è un vino insieme  fresco e intenso dai sentori tipici della macchia mediterranea (rosmarino salvia, ginepro). In bocca si percepisce una spiccata sapidità, tipica di un vino “isolano”, con accenni di frutta matura e in chiusura lievi note di agrume.

Chiudiamo in bellezza con la frittura, guardando in questo caso all’Oriente e alla tradizione giapponese della tempura, con la tipica pastella a base di farina di riso leggerissima e croccante: zucchine, carote, peperoni e melanzane si prestano particolarmente a questa preparazione (perfetta anche per gamberi e altri crostacei). Quanto all’abbinamento, si può restare sul classico con un’eccellente bolla italiana come il Dequinque di Uberti, Franciacorta DOCG frutto di una cuvée di dieci annate (2002-2011), prodotta esclusivamente in formato magnum: speziato, con un perlage finissimo, si schiude su note agrumate e ha una persistente mineralità iodata che accompagna alla perfezione la vivacità del fritto.
Se invece si preferiscono i carciofi fritti di tradizione italiana, anche in questo caso le bollicine vengono in aiuto offrendo un perfetto abbinamento a quest’ortaggio non facilissimo, come dicevamo. In questo caso, per bilanciarne le note ferrose, potremo scegliere una bolla più morbida come il Bellavista Meraviglioso. Altro Franciacorta DOCG, è una cuvée composta per l’80% di chardonnay e per il 20% di pinot bianco provenienti da sei annate che attraversano oltre trent’anni d’invecchiamento, per poi fondersi e riposare insieme per ulteriori diciotto anni sui lieviti. Al naso si avvertono toni di frutta appena matura, cenni di erbe aromatiche tra cui l’alloro; in bocca è avvolgente e setoso. La sua cremosità ed eleganza sono il frutto di questa lunghissima attesa che rende ogni sorso un viaggio nel tempo. 

– Luciana Squadrilli 19.05.2020

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

La biodiversità: una risorsa nella lotta ai cambiamenti climatici

Già da tempo l’agricoltura si misura con uno scenario climatico differente dal passato: inverni più miti e brevi, estati sempre più calde e siccitose e, nel mezzo, eventi violenti e inaspettati, come gelate primaverili, forti grandinate e alluvioni sempre più frequenti.  Fenomeni che, nel loro insieme, stanno già influenzando qualità e quantità delle nostre produzioni agricole.

In questo contesto, poiché la vite è particolarmente sensibile alle variazioni climatiche, la viticoltura e, con essa, la produzione di vino, rischiano di subire pesanti trasformazioni a causa dell’aumento delle temperature. A dir poco preoccupanti sono le stime di uno studio condotto da un gruppo internazionale di ricercatori, che include studiosi dell’Institut National de la Recherche Agronomiquen (INRA) e del Bordeaux Sciences Agro Institute e i cui risultati sono stati pubblicati a gennaio sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences.

Analizzando l’impatto dei cambiamenti climatici su 11 varietà di vitigni – fra le quali Cabernet Sauvignon, Chardonnay e Pinot Noir – che rappresentano il 35% della superficie coltivata mondiale e più del 64% di quella coltivata in paesi a vocazione vitivinicola come Australia, Cile e Francia, lo studio afferma che – con un aumento atteso della temperatura di 2 °C – entro il 2050 il 56% delle aree vitivinicole del mondo potrebbe scomparire. I paesi più colpiti sarebbero quelli mediterranei come Italia e Spagna, che rischierebbero di perdere, secondo lo studio, circa il 65% dei loro vitigni, “a favore” di paesi come la Nuova Zelanda o gli stati del nord degli USA che, viceversa, potrebbero destinare più terra alla viticoltura.

Lo studio, per fortuna, non si limita a fornire uno scenario futuro piuttosto fosco (almeno per alcuni paesi) ma propone anche una soluzione, che fa affidamento sulla natura stessa e sulla sua resilienza. Nel mappare il comportamento delle 11 varietà in esame, infatti, i ricercatori, hanno sviluppato un modello che analizza e valuta lo sviluppo di ognuna di esse in tre differenti stadi – il germogliamento, la fioritura e l’invaiatura – applicando poi questo modello alle diverse regioni vitivinicole e simulando l’ipotetico aumento della temperatura di 2 °C, con l’obiettivo di capire quali varietà rispondono meglio a questo incremento. Facendo un esempio molto semplice, il Grenache, che matura molto tardi, si comporta molto bene anche in uno scenario climatico molto più caldo di quello attuale, mentre Pinot Noir e Chardonnay, che germogliano presto e hanno l’esigenza di un clima più freddo, potranno in futuro essere coltivati in zone fino a questo momento escluse dalla mappa mondiale del vino. Un fenomeno questo già in corso in parte, se si pensa allo sviluppo recente degli spumanti inglesi e alla scelta lungimirante di Taittinger di acquistare 69 ettari nel Kent, per spostarvi parte della sua produzione di Champagne, investendo sul fatto che, a breve, il sud della Gran Bretagna avrà un clima come quello della Francia settentrionale, con un suolo da sempre molto simile a quello della regione francese.

Lo studio mira a conoscere approfonditamente le capacità adattive delle diverse varietà a un contesto climatico differente da quello attuale, per aiutare il settore vitivinicolo a prepararsi meglio al cambiamento e a ridurre i danni che sicuramente – questo ormai è evidente – esso porterà con sé. Per il futuro, i ricercatori si propongono di studiare anche altre varietà meno diffuse per arrivare a una mappatura più completa.

Mettendo per un istante da parte i dati e le misurazioni scientifiche, l’elemento fondamentale che questo studio mette in evidenza è l’importanza della biodiversità. Sono circa 1.100, infatti, le varietà di vite coltivate attualmente note, un vero patrimonio che rappresenta una risorsa fondamentale nel contrasto al cambiamento climatico, perché può consentire ai viticoltori di diversificare i propri vitigni, guardando soprattutto a quelli autoctoni e alla loro spontanea adattabilità al contesto d’origine, per creare un ecosistema più sano e resistente capace, per questo, di rispondere meglio alle trasformazioni in corso.

Il francese INRA, inoltre, è fautore di un altro importante progetto a supporto della viticoltura del futuro. Si tratta di LACCAVE, lanciato nel 2012 con la collaborazione del Centre National de la Recherche Scientifique e di diverse università francesi con l’obiettivo specifico di fornire strumenti e conoscenze ai viticoltori francesi per fronteggiare il cambiamento climatico. Con un orizzonte temporale piuttosto ampio – fino al 2050 – LACCAVE promuove studi, ricerche e analisi interdisciplinari, che coinvolgono non solo l’enologia e l’agronomia ma anche la climatologia, la genetica, l’ecofisiologia e la matematica.

Infine, per citare un esempio italiano, molto interessante è come si sta muovendo il gruppo Gaja, con la scelta di tenute che si trovano a un’altitudine maggiore (ne sono state acquistate di recente una sull’Etna e una su una zona collinare piemontese) e la selezione di vitigni a bacca bianca del Sud Italia, geneticamente selezionati per convivere con le alte temperature, c’è un test in atto, ad esempio, sulla resa del Fiano nella zona di Bolgheri. Senza dimenticare gli interventi biologici, volti a selezionare flora e fauna che meglio combattono il perdurare delle malattie, come l’innesto del cipresso insieme a una particolare categoria di uccelli per tutelare la salute dei vitigni. Come, infatti, ha sottolineato Gaia Gaja a Wine2Wine 2019, l’aspetto più preoccupante dei cambiamenti climatici riguarda, soprattutto, le malattie della vite e in particolare la loro resistenza ai trattamenti, che sembra essere supportata dalle alte temperature. Mentre il calore non compromette direttamente la qualità del vino (anzi gli può dare struttura) rendendo necessario, al massimo, qualche mirato intervento in cantina a supporto della bevibilità. Un sospiro di sollievo per tutti!

Signature Dishes That Matter

La storia della gastronomia in 240 piatti iconici

Considerato dal Times come il miglior food book del 2019, Signature Dishes That Matter ripercorre la  gastronomia internazionale attraverso le storie di 240 piatti e delle persone che li hanno ideati.

Il fascino di questa raccolta sta nella scelta di mescolare alta cucina e ricette popolari, sperimentazione culinaria di alto rango e casual dining per raccontare pietanze entrate nell’immaginario collettivo e diventate simboli di epoche, trend culinari e stili di vita.

Si va dal mitico Pastrami Sandwich di Katz’s (New York) – diventato ancora più mitico, se è possibile, grazie a Harry ti presento Sally – al Carpaccio dell’Harry’s Bar di Arrigo Cipriani, dalla Pesca Melba, inventata dal leggendario Auguste Escoffier fino alle Olive Liquide di Ferran Adrià, che hanno segnato la nascita “ufficiale” della Cucina Molecolare. E ancora, il Club Sandwich del Saratoga Club House, la storica Pizza Margherita di Raffaele Esposito e il Ceviche di Pedro Solari.

La curatela del libro è di Christine Muhlke – editor-at-large di Bon Appétit – e di tanti altri food writer, fra i quali spicca anche il nome dell’italiano Andrea Petrini, ideatore di Gelinaz, la jam-session gastronomica che nell’edizione del 2019 ha coinvolto 38 paesi, 138 ristoranti, 148 chef per 700 ore di cucina e 2200 ricette in streaming.

Le illustrazioni sono di Adriano Rampazzo.

Susan Jung, Howie Kahn, Christine Muhlke, Pat Nourse, Andrea Petrini, Diego Salazar, and Richard Vines, Signature Dishes That Matter. Con le illustrazioni di Adriano Rampazzo – 2019, Phaidon

– Redazione 05.05.2020

Aprile, fra gestione dell’emergenza e desiderio di normalità

A marzo, nei giorni più duri dell’emergenza Covid-19, Angelo Peretti si chiedeva su The Internet Gourmet ( www.internetgourmet.it) se avesse senso scrivere di vino in circostanze così drammatiche. Molto probabilmente non esiste un’unica risposta a questa domanda ed è giusto che sia così. Noi, come sempre, abbiamo raccolto alcune delle notizie più interessanti lette nelle ultime settimane, fra gestione dell’emergenza e desiderio di normalità. www.internetgourmet.it

Iniziamo, allora, da una piccola indagine condotta dal magazine Planet of The Grapes, che ha chiesto a diversi wine-writer – dalla mitica Jancis Robinson all’editor di Pipette Rachel Seigner – di raccontare cosa rappresenta per loro il vino in un momento così strano come quello che stiamo attraversando. C’è chi lo vive come un piccolo rituale gioioso da contrapporre alle difficoltà del quotidiano e chi, invece, sta bevendo meno del solito perché considera il vino inscindibilmente legato alla socialità e, dunque, alla presenza delle altre persone; c’è chi trova conforto nello champagne e chi in vini più semplici, nati del lavoro di vignaioli che si vogliono idealmente sostenere a distanza. Un collage di attitudini e sensibilità differenti, in cui tutti possiamo ritrovare qualcosa di nostro: www.medium.com

Il vino, è cosa nota, può essere pura poesia ma anche oggetto di consistenti investimenti economici. E su questo fronte arrivano buone notizie per l’Italia dei fine wine: nella prima settimana di aprile, su Liv-ex la share di vini italiani scambiati sul mercato secondario è stata pari al 24,7% a valore. Un risultato importante – come racconta Wine News – che consolida la posizione delle nostre etichette di pregio in un panorama storicamente dominato dai grandi Bordeaux: www.winenews.it.

E sempre a proposito di grandi Bordeaux, Neal Martin ha raccontato su Vinous le sue impressioni a margine della complessa degustazione dei Vintage 2010: www.vinous.com.

Rimaniamo in Francia con l’annuncio dell’avvio della negoziazione esclusiva per l’acquisizione da parte di Campari di una partecipazione dell’80% – e successivamente dell’intero capitale azionario – di Sarl Champagne Lallier. Ne parla, fra gli altri, anche La Repubblica: www.ilsole24ore.com.

Distillazione volontaria, vendemmia verde e una serie di misure di sostegno economico per tutto il settore vitivinicolo: sono alcune delle proposte formulate da Assoenologi nei giorni scorsi per fronteggiare la crisi. Ne dà conto Identità Golose: www.identitagolose.it

E sempre a proposito di Covid-19, Wine Spectator ha dedicato un’intera sezione del suo sito all’emergenza, per documentarne l’impatto sul settore food&wine: www.winespectator.com

Chiudiamo con un profilo del leggendario wine-writer e degustatore Michael Broadbent, firmato da Eric Asimov sul New York Times. Scomparso lo scorso 18 marzo a  92 anni, Broadbent è stato un grande conoscitore dei fine wine e, soprattutto, colui che negli anni Sessanta ha plasmato il settore delle aste dei vini, intuendo che questi potevano essere trattati esattamente come le opere d’arte: www.nytimes.com

Arrosti&co, non solo rossi di struttura

Cotture lente, sapori decisi, texture succulente. Con le carni arrosto solitamente ci si aspetta di bere “in rosso”, scegliendo vini strutturati e con qualche anno alle spalle e magari approfittando dell’occasione per aprire qualche bottiglia veramente importante (o viceversa, accompagnando con una preparazione all’altezza l’etichetta prescelta).

Non è, però, sempre e per forza così. A seconda della tipologia di carne e del metodo di cottura, anche dei bianchi ben strutturati o dei rossi più leggeri possono accompagnare alla perfezione i piatti a base di carne.

Partiamo dalle carni bianche ad esempio, e dal protagonista per eccellenza dei pranzi casalinghi non troppo impegnativi, con la famiglia riunita attorno al tavolo: il pollo al forno con le patate. Una preparazione che sembra facile e scontata ma non lo è per nulla, visto che ci vogliono occhio ed esperienza per avere la cottura perfetta, che lascia l’interno umido ma ben cotto, la pelle croccante che rilascia il suo grasso, le patate appena brunite. In questo caso, si può scegliere un vino bianco come la Falanghina Irpinia Doc Via del Campo di Quintodecimo: fruttato e avvolgente, più ricco rispetto allo standard di questa tipologia di vini anche grazie a un breve passaggio in piccole botti di rovere, ha una componente minerale spiccata e profumi di erbe aromatiche. Se invece volete osare un abbinamento insolito ma davvero interessante, potrebbe valere la pena stappare la Ribolla 2011 di Gravner: macerato a lungo sulle bucce, fermentato in anfora e maturato in botte grande, è un vino ambrato estremamente ampio e ricco, con intriganti spunti aromatici e balsamici. Struttura e tannini dati dalla macerazione, insieme alle insolite note quasi ferrose e officinali, lo rendono unico a ogni sorso.

Altro grande classico, buonissimo in tutte le stagioni e in tutte le occasioni, è il roastbeef.
Ben rosato al centro, servito per lo più freddo e poco condito – ma magari accompagnato da patate, insalata o altri contorni – potrà sposarsi tanto con un bianco dalle note appena più morbide (ma non stucchevoli) ma con una buona acidità, quanto con un rosso dalla grande beva. Per esempio, nel primo caso, con il Gewürztraminer Konrad Oberhofer Vigna Pirchschrait di Hofstatter, frutto di una maturazione di 10 anni sui lieviti fini che unisce intensità e freschezza, con spiccati profumi di miele, frutta secca e vaniglia, a una struttura importante sorretta da una buona acidità. Oppure, il Gattinara base di Nervi-Conterno, asciutto e leggermente tannico con un bel finale lievemente ammandorlato e note di frutti rossi, sottobosco ed erbe officinali: un Nebbiolo di razza e un’etichetta storica che, nella sua semplicità, garantisce sempre grandi bevute.

Salendo di struttura e intensità dei piatti, passiamo anche a vini più “impegnativi”. Tra le ricette a base di carne non può mancare il brasato di manzo che, nella classica versione piemontese, viene tradizionalmente preparato con il vino rosso e in particolare con il Barolo. Inutile dire, dunque, che questo grande vino è anche l’abbinamento per eccellenza per un piatto così poderoso. Se volete bere alla grande ma restando con i piedi per terra, il suggerimento potrebbe andare sul Barolo Riserva Vigna Rionda di Oddero: una grande etichetta, da uno dei vigneti più rinomati delle Langhe. Per un’occasione speciale si potrà altrimenti chiamare in causa il “signor Voerzio” – altro nome mitologico dell’enologia langarola – con il suo Barolo Riserva 10 anni: perfettamente pronto da stappare, è un grande vino da meditazione ma è altresì perfetto per accompagnare un piatto come il brasato.

Passiamo alle carni ovine, con i dovuti distinguo. Ad esempio, il sapore intenso e la grassezza marcata dell’agnello (pur se dal buon profilo nutrizionale, se parliamo di animali allevati in condizioni ottimali) richiedono maggior struttura nel bicchiere, facendo propendere per qualcosa di altrettanto “rustico” e corposo – per esempio, guardando all’abbinamento territoriale, un Montepulciano d’Abruzzo; se però non si vuole rinunciare all’eleganza, la scelta si può orientare su un taglio bordolese capace di unire struttura e finezza, riuscendo a “reggere” piatti robusti come quelli a base di agnello, al forno o in umido. E cosa potrebbe esserci di meglio, a tal proposito, di una bottiglia di Sassicaia della Tenuta San Guido?

Il capretto invece, più magro e tenero, si sposa meglio a qualcosa di appena più esile ma non meno soddisfacente. Per esempio, il Chianti Classico San Lorenzo di Castello di Ama, Gran Selezione DOCG ottenuto dalle uve dei vigneti dell’omonima vallata, con un’età media di almeno 25 anni. Frutto dell’assemblaggio delle diverse varietà (sangiovese, merlot e malvasia nera) dopo la malolattica e di una successiva maturazione in barrique di rovere, è un vino morbido e fresco, potente ma molto armonico, perfetto per accompagnare questa tipologia di carni.

Le cose cambiano, però, se si sceglie la cottura alla brace.
La regola generale sconsiglia infatti di accompagnare le preparazioni di questo tipo con vini barricati, i cui sentori finirebbero per amplificare in maniera eccessiva le sensazioni di legno e di tostato. In questo caso, dunque, meglio preferire vini di struttura ma che facciano solo acciaio o botte grande: la scelta può andare da molte etichette di Barolo di scuola “tradizionalista” – che rifiuta categoricamente l’uso di barrique, appunto – fino a quella inaspettata, ma molto valida per gli amanti del genere, dell’Amarone della Valpolicella Classico DOC Riserva di De Buris. Dalla bevibilità atipica per questa tipologia di vino, ha un carattere unico in cui le note dolci dell’appassimento lasciano spazio a inedite sfumature sapide e minerali e all’equilibrio notevole tra la potenza dei tannini, la polposità del frutto e la freschezza complessiva.

Chiudiamo con una preparazione che non appartiene alla tradizione italiana ma che negli ultimi anni, con il diffondersi della passione per il grilling, riscuote molto successo anche da noi: il brisket, la punta di petto di manzo cotta lentamente protagonista del classico BBQ texano. Ben speziato, morbidissimo e succulento – tanto da non richiedere quasi masticazione – e lievemente affumicato, cerca struttura e potenza nel bicchiere senza rinunciare all’eleganza. Andate sul classico con un bel Brunello di Montalcino come quello di Castiglion del Bosco, con i suoi tannini vellutati e le note di sottobosco.

Se invece volete spiazzare i vostri ospiti e regalare a loro e a voi una bevuta indimenticabile, vi proponiamo un abbinamento quasi eretico, un po’ da “la bella e la bestia” ma che non potrà che conquistare tutti: quello con il leggendario Château Haut-Brion, grande vino di Bordeaux Premier Grand Cru Classé, uvaggio di cabernet sauvignon, merlot e cabernet franc che conquista per la sua eleganza e le sue note di tabacco, liquirizia e spezie.

Luciana Squadrilli è giornalista professionista specializzata nell’enogastronomia, collabora con guide e testate italiane e straniere raccontando il lato più buono dell’Italia (e non solo). Editor di Food&Wine Italia e food editor di Lonely Planet Magazine Italia, si occupa con particolare attenzione di pizza e olio, adora lo Champagne ed è autrice di diversi titoli tra cui La Buona Pizza (Giunti) e Pizza e Bolle (Edizioni Estemporanee).

Meditazioni nobili: i vini muffati

Gustare il vino centrando l’abbinamento migliore con il cibo moltiplica l’appagamento e rende l’esperienza della degustazione più ricca e completa, non c’è dubbio. Tuttavia, ci sono casi in cui la bevuta si esprime al massimo senza nessun accostamento. È il caso dei cosiddetti “vini da meditazione”. La definizione abbraccia un insieme di vini dalla grande complessità, che può derivare da motivazioni differenti. Un grado alcolico importante, ad esempio, dovuto magari alla lavorazione di uve surmature, oppure l’aggiunta di alcol, come nel caso dei vini fortificati. È questa complessità a suggerire una bevuta “solitaria”, proprio perché il ventaglio di sentori è così ampio da richiedere tutta la concentrazione per la bevuta, e così intenso da “sorreggere” l’esperienza gustativa per tutta la durata.

In genere quando si parla di vini da meditazione il primo pensiero va ai passiti. Così intensi, strutturati e importanti dal punto di vista del tenore alcolico da rappresentare l’esempio perfetto. Il cerchio però è molto più ampio. A me piace considerare “da meditazione” anche i vini da lungo invecchiamento, come ad esempio un classico Brunello con qualche lustro sulle spalle, oppure alcuni vini macerativi particolarmente importanti. Sono bianchi, questi ultimi, lavorati utilizzando le bucce come si fa con i rossi. La tecnica determina una certa masticabilità del vino, una polpa più sostanziosa, e una trama tannica capace di traghettare l’evoluzione parecchio in là, incrementando così la complessità finale di quelli che vengono chiamati “orange wine”. 

Una tipologia di vini da meditazione di cui sono particolarmente innamorato sono gli specialissimi muffati. Si tratta di vini che nascono da acini attaccati da una malattia chiamata Botrytis Cinerea. Il fungo che causa questo problema, in condizioni climatiche molto particolari, si sviluppa sulla buccia, formando un feltro che provoca un appassimento per evaporazione e di conseguenza la concentrazione di diverse sostanze. In più, la muffa produce glicerina e conferisce particolarissimi profumi. È la muffa grigia che si esprime nella rara variante della muffa nobile, e quello che in genere rappresenta un grosso problema si trasforma in un plusvalore unico per il vino. Le condizioni in cui questo si verifica sono davvero speciali. Un clima caldo e secco, a cui si alternano situazioni di umidità che favoriscono una proliferazione limitata del fungo. È il caso innanzitutto della zona delle Graves, a sud di Bordeaux, dove nasce il più famoso tra i muffati, il Sauternes. Altri esempi di botritizzati noti sono i Trockenbeerenauslese tedeschi e austriaci e il Tokaji ungherese.

Esistono poi esempi di vini botritizzati provenienti da altre zone. In Italia, ad esempio, il lago di Bolsena presenta le condizioni climatiche ideali per la muffa nobile. E poi ce n’è uno davvero unico. Nasce nel Collio Goriziano, sul confine con la Slovenia, da uno dei più grandi produttori di sempre: Josko Gravner. Il suo muffato si chiama 8’9’10 e nasce da acini di Ribolla botritizzati, provenienti da tre vendemmie differenti: 2008, 2009 e 2010. Viene fermentato in anfore interrate, con il mosto a contatto con bucce e raspi, e affinato in piccole botti per 48 mesi.

L’impatto sensoriale è così intenso da lasciare disorientati. Ha il colore dell’ambra e la sua capacità di riflettere la luce è qualcosa di immenso, quasi a volere illuminare la stanza dove viene degustato. Il naso è impetuoso e restituisce in successione sensazioni più ricche come quelle dell’albicocca disidratata, del miele, dei fichi, e altre più flebili come il fieno e il torrone. Poi c’è lo zafferano, il più tipico tra i sentori che nascono dai muffati. Arriva piano, si mescola agli altri e poi spicca con tutta la sua forza, prima di rituffarsi nel ventaglio di profumi di 8’9’10. In bocca il vino mette in scena una splendida tensione fra morbidezze e durezze. Da un lato la ricchezza glicerica e l’intensità della frutta disidratata, dall’altro la freschezza sorprendente e una sapidità fine, elegante, profonda. L’allungo è poderoso, la durata della persistenza in bocca si mescola a quella di permanenza nel cuore e nella memoria, rendendolo un vino infinito e senza tempo.

Le sue spalle larghe lo rendono adatto ai formaggi importanti così come ai cioccolati più nobili. Ma il mio consiglio è quello di ritagliarsi uno spazio e un tempo esclusivi dedicati solo a lui. Per abbinarlo al passare dei minuti, alla luce che cambia e allo scorrere dei propri pensieri. Perché sì, questo è un grande vino da meditazione.

 

Graziano Nani

Oltre 15 anni in comunicazione, oggi Graziano Nani è Branded Content Lead in Chora, dove si occupa di podcast. Sommelier AIS, scrive per Intravino e su Instagram cura @HellOfaWine. Insegna comunicazione del vino all’Università Cattolica. Si occupa dello stesso tema nel podcast “La Retroetichetta”, di cui è co-autore, e con speech a eventi dedicati.

Uberti, la forza dell’autenticità

“I nostri Franciacorta sono tutti diversi: ognuno ha una propria storia da raccontare, quella delle vigne da cui proviene” – Silvia Uberti

La solida impronta familiare, il rispetto per l’unicità di ogni vigneto, l’impegno – non sbandierato ma di sostanza – sul fronte di un’agricoltura biologica, senza dimenticare l’affascinante progetto che sta alla base di due etichette iconiche come Quinque e Dequinque: abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Silvia Uberti per tracciare il profilo di una delle cantine più interessanti della Franciacorta. Una vera eccellenza costruita con dedizione, rigore e passione dalla famiglia Uberti.

La prima cosa che si legge entrando nel vostro sito è “Dal 1793 viticoltori in Erbusco”, quanto conta nel definire la vostra identità di vignaioli la dimensione familiare, fatta di generazioni che da secoli si avvicendano nella cura dell’azienda agricola?

In questa domanda c’è una parola che fornisce già la risposta: “cura”. Le generazioni di Uberti, che si sono avvicendate nel tempo fino ai giorni nostri, si sono “prese cura”, come solo può fare una famiglia, del nostro patrimonio vitivinicolo. Oggi siamo noi a portarlo avanti con grande orgoglio.

Se dovesse provare a descrivere la vostra cantina con tre parole, quali userebbe?

Sensibilità, autenticità e costanza.

In cosa risiede la cifra identitaria dei vostri Franciacorta?

I nostri Franciacorta si identificano nella semplice espressione di ogni singola vigna, la vinificazione parcellare permette di far esprimere le caratteristiche e le peculiarità di ogni vigneto. Per questo motivo, in un certo senso, i nostri Franciacorta sono tutti diversi: ognuno ha una propria storia da raccontare, quella delle singole vigne o delle piccole parcelle da cui proviene.

All’interno di questa visione come si colloca la scelta di utilizzare esclusivamente lo Chardonnay per la maggior parte dei vostri di punta?

È una scelta di lunga data. Il nostro modo di fare Franciacorta è rimasto sempre lo stesso, fin dalle prime vendemmie. È un modo fatto di poche strategie e di molto rispetto per le peculiarità di ogni uvaggio. In questo senso, le caratteristiche dello Chardonnay ci permettono di realizzare dei Franciacorta identitari e capaci di essere longevi.

E rispetto al futuro, avete intenzione di ampliare la vostra gamma? Sperimentare qualcosa di nuovo?

Non mettiamo mai limiti alle novità, l’importante è che siano sempre coerenti con la nostra filosofia aziendale, Come dicevo prima, la costanza è uno dei nostri valori di riferimento. Finora tutte le novità messe in commercio sono andate bene… speriamo di continuare così!

Un grosso cambiamento per voi è avvenuto sul finire degli anni Settanta, quando i suoi genitori (Agostino e Eleonora) hanno iniziato a guidare l’azienda. Come è cresciuta in questi decenni la vostra cantina?

La prima grande iniezione di energia è stata data da Agostino e Eleonora, che hanno dato alla luce le prime bottiglie di Franciacorta nel 1978. Negli anni Duemila abbiamo fatto il nostro ingresso in azienda io – per quanto riguarda la parte agronomica ed enologica – e mia sorella Francesca per quanto riguarda la gestione commerciale. Non si è trattato di un avvicendamento perché i nostri genitori hanno tuttora un ruolo fondamentale in azienda ma di dare ulteriore respiro alla visione aziendale e familiare, nel solco della continuità.

La nostra forza è stata ed è ancora quella di non aver mai cambiato il nostro modo di fare il Franciacorta, non abbiamo mai seguito le mode o i cambiamenti di stile e di gusto. Siamo così da sempre e finora ha funzionato.

Da tempi non sospetti avete un approccio poco interventista sia in vigna sia in cantina. Ce ne vuole parlare?

È un’altra costante del nostro lavoro: abbiamo sempre coltivato le nostre vigne con un grande rispetto verso la sostenibilità ambientale e con un forte impegno per preservare la biodiversità di ogni singolo ambiente in cui dimorano le viti. È l’unico modo, a nostro avviso, per produrre vini autentici. L’autenticità e il carattere dei nostri Franciacorta sono il frutto anche di questa scelta. A completare il lavoro di tutti questi anni, nel 2016, è arrivata anche la certificazione biologica.

Rimanendo sempre su questo argomento, l’agricoltura biologica può essere un alleato rispetto alla questione dei cambiamenti climatici e all’impatto di questi ultimi sulle terra e sulla produzione agricola in generale?

Certamente sì ed è inevitabile considerare le evoluzioni ambientali in corso. L’importante è che l’adozione del biologico sia una scelta fatta in maniera seria, costante e coerente. Dal nostro punto di vista è fondamentale mantenere un approccio sempre più preciso, attento e di continua ricerca nelle scelte agronomiche e nella cura dei vigneti. Dobbiamo garantire una salubrità costante delle viti (e del loro ambiente) e un’alta qualità delle uve.

La Franciacorta rappresenta un unicum nel panorama delle bollicine italiane e sicuramente il Consorzio negli anni ha varato diverse iniziative a supporto territorio e della sua enogastronomia. Secondo voi, cosa manca (se manca) per valorizzare pienamente il “brand Franciacorta”?

I miei genitori sono stati tra i fondatori del Consorzio e da allora l’attività di promozione e tutela è sempre stata in crescendo. C’è solo una strada da percorrere sempre con costanza e tenacia: l’alta qualità dei Franciacorta e la tutela del nostro territorio.

In tutta la vostra produzione c’è un vino al quale tenete particolarmente, che ha per voi un valore affettivo, diciamo così?

Sicuramente Dequinque, una cuvée di dieci vendemmie, frutto della riserva perpetua che abbiamo iniziato a creare e alimentare nel 2002, quindi la cuvée del nostro miglior Chardonnay, assemblata anno dopo anno all’interno di un unico tino. Il primo passaggio è stato Quinque (2002 – 2006), cuvée di cinque vendemmie, poi è stata la volta di Dequinque (2002 – 2011) ma il percorso non si fermerà qui.

Un progetto unico nella Franciacorta, a cui teniamo molto perché rappresenta il nostro patrimonio identitario e il racconto della nostra storia.

Sono tante le grandi cantine italiane, ce n’è a cui  guardate con particolare stima?

Senza dubbio Giuseppe Rinaldi, uno dei grandi nomi del Barolo, a cui siamo legati da rapporti di stima e conoscenza di lunga data. Sentiamo una grande affinità di valori e di visione.

Una domanda inevitabile, purtroppo, considerati i tempi: sul settore vino nel suo insieme che impatto potrà avere la vicenda Covid-19? Al di là della dimensione produttiva e di vendita, la necessità di praticare il “social distancing” pensate che potranno modificare le modalità di interazione B2B ma anche B2C?

Oggi è ancora presto ipotizzare gli sviluppi e l’impatto sul mondo del vino da parte del Covid-19, di certo l’agricoltura e l’agroalimentare italiano, vino compreso, saranno tra i settori che potranno fin da subito dare risposte e nuovo sviluppo a questo straordinario paese.

Per quanto riguarda gli aspetti legati  alla comunicazione, a prescindere dal momento attuale, il mondo del vino è soggetto a continui cambiamenti (anche nel sistema fieristico), è  importante avere sempre chiara la direzione da seguire: fare una comunicazione seria, di qualità e soprattutto trasmettere le giuste informazioni a tutti gli stakeholder.

Redazione 14.04.2020

Mecenatismo tra le vigne

Vino e arte come espressione della creatività e dell’intelletto umani: una visione genuinamente umanistica che ha portato diverse cantine italiane a farsi promotrici di progetti artistici di ampio respiro e di grande valore culturale. Inscindibilmente legati ai luoghi che li hanno generati, questi progetti nascono per essere condivisi con il pubblico, perché proprio come la fruizione del vino anche quella dell’arte trova nella socialità e nelle relazioni la sua dimensione più vera e profonda.

Castello di Ama — Daniel Buren

Nel 1999, con grande lungimiranza, Lorenza Sebasti e Marco Pallanti hanno scelto di aprire il loro Castello di Ama all’arte contemporanea, creando – anno dopo anno – una collezione permanente che dialoga con lo spirito e le suggestioni dell’ambiente naturale e architettonico della tenuta. Ogni anno, infatti, seguendo il ritmo delle vendemmie, un grande artista viene invitato a concepire e a realizzare un’opera o installazione ispirata al Genius Loci. Nel tempo si sono susseguiti Michelangelo Pistoletto, Daniel Buren, Anish Kapoor, Cristina Iglesias, Louise Bourgeois, Miroslav Balka e altri ancora che hanno reso questo luogo – rimasto intatto per secoli – ancora più magico.

[Castello di Ama — Daniel Buren

Sempre in Toscana, nel 2012, Tiziana Frescobaldi ha dato nuovo slancio allo storico mecenatismo di famiglia con Artisti per Frescobaldi, un premio biennale d’arte contemporanea che, a ogni edizione, invita tre artisti a interpretare la Tenuta di CastelGiocondo. Il premio, che ha l’obiettivo di sostenere e dare spazio a giovani artisti non ancora affermati, è curato da Ludovico Pratesi, mentre la giuria, che assegna il premio, cambia ad ogni edizione ed è sempre formata da tre direttori di musei d’arte contemporanea. Nel 2017, Tiziana Frescobaldi ha voluto far confluire le opere di Artisti per Frescobaldi in una collezione permanente aperta al pubblico e allestita all’interno della tenuta di CastelGiocondo.

Tiziana Frescobaldi e Ludovico Pratesi

Nel 2018 il premio è stato vinto dall’artista svizzera Sonia Kacem con l’opera Les Grandes. Mentre a gennaio di quest’anno sono stati comunicati i nomi dei tre artisti selezionati per il 2020: il canadese Andrew Dadson, l’americana Erica Mahinay e l’italiano Gian Maria Tosatti. La premiazione avverrà a Milano il prossimo settembre.

Artisti per Frescobaldi supporta, infine, iniziative dedicate all’arte contemporanea italiana attraverso il ricavato delle edizioni limitate e numerate delle bottiglie di CastelGiocondo Brunello di Montalcino. Queste bottiglie per collezionisti sono rese uniche dalle etichette disegnate dai tre artisti protagonisti di ogni edizione del premio.

Artisti per Frescobaldi 2018 – Magnum di CastelGiocondo Brunello di Montalcino (annata 2013)

Dal 2009, Ornellaia festeggia la presentazione di ogni sua nuova annata con Vendemmia d’artista. Il progetto si articola in due parti: la prima vede la commissione a un grande artista di un’opera destinata alla tenuta di Bolgheri e ispirata al carattere dell’annata; la seconda prevede che in ogni cassa di Ornellaia sia presente una bottiglia con un’etichetta disegnata dallo stesso artista e che venga realizzata un’edizione limitata di 111 bottiglie di grande formato, da lui numerate e firmate. Queste 111 bottiglie vengono in seguito battute all’asta e il ricavato viene devoluto a un progetto di arte contemporanea.

Nel 2019 (annata 2016), Ornellaia ha affidato Vendemmia d’artista a Shirin Neshat, il ricavato della vendita all’asta delle bottiglie firmate dall’artista e attivista iraniana è stato destinato a Mind’s Eye, il progetto della Guggenheim Foundation che aiuta le persone con disabilità visive ad avvicinarsi all’arte grazie l’uso di tutti i sensi. Nel 2020 (annata 2017) tocca a Tomàs Saraceno.

Antinori è un’altra grande famiglia del vino italiano da sempre legata al mondo dell’arte, come testimonia il suo stemma realizzato agli inizi del Cinquecento dalla bottega dello scultore e ceramista fiorentino Giovanni della Robbia. Nel 2012, con l’inaugurazione della nuova cantina nel cuore del Chianti Classico, la famiglia ha scelto di spostare qui e mettere a disposizione dei visitatori parte della sua secolare collezione di dipinti, ceramiche, manoscritti e altri manufatti artistici. Con uno sguardo al presente, inoltre, è stato contestualmente avviato l’Antinori Art Project, una piattaforma di commissioni biennali a giovani ma già affermati artisti. Dal 2014 la direzione del progetto è affidata a Ilaria Bonacossa.

Impossibile, infine, non ricordare la passione di Maurizio Zanella – fondatore e presidente di Ca’ del Bosco – per la scultura contemporanea e il suo desiderio di creare, nei luoghi dell’azienda, un continuum emozionale e sensoriale, capace di fondere vino, arte e ambiente naturale. 

Nel corso del tempo, ha così preso vita negli spazi (esterni e interni) della cantina un vero e proprio percorso immersivo, che inizia fin dall’ingresso, con il Cancello solare in bronzo dorato di Arnaldo Pomodoro, per proseguire – senza soluzione di continuità – con opere di Igor Mitoraj, Stefano Bombardieri, Mimmo Paladino e tanti altri.