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Roberto Anesi: fisonomia di un sommelier

Sommelier, oste (suo il ristorante El Pael di Canazei), relatore per l’Associazione Italiana Sommelier e orgogliosamente trentino, Roberto Anesi – miglior sommelier d’Italia nel 2017 – ci racconta il suo percorso e le sue passioni.

Ci racconti come sei arrivato a essere sommelier?

Abbiamo aperto El Pael nel 1994, all’epoca ero un ragazzo da sempre abituato a lavorare nell’accoglienza – i miei genitori avevano un albergo nel centro di Canazei – ma sentivo il bisogno avere una preparazione adeguata. Ho seguito tanti corsi e uno di questi è stato quello per sommelier (nel 1997). All’inizio non volevo diventare sommelier ma semplicemente avere una formazione a tutto tondo, il corso e l’esperienza quotidiana in sala hanno fatto scattare la scintilla. Nel 2008 ho iniziato a fare i concorsi e ho ricevuto anche l’abilitazione per insegnare, ecco, credo che questo momento sia stato un po’ il momento della mia svolta professionale.

Fotografo: Pierluigi Orler

Continui a fare formazione?

Sì, certo! Sono relatore l’Associazione Italiana Sommelier, sia in Italia sia all’estero.

Posso chiederti qual è il profilo dei tuoi studenti all’estero?

Negli altri paesi la percezione del sistema vino italiano è molto buona e il livello degli iscritti ai nostri corsi è mediamente molto alto: generalmente addetti ai lavori che vogliono capire meglio il vino italiano, conoscerlo da una prospettiva interna come può essere quella dell’AIS. Ricordo con molto piacere un corso tenuto per un club della Banca Centrale Europea, con una sessantina di partecipanti da tutte le parti del mondo, davvero bello.

Dal 2017, quando hai vinto il titolo di miglior sommelier d’Italia, sei ambassador di Trentodoc. Dal tuo punto di vista privilegiato, quale pensi sia la forza dell’Istituto?

Credo che Trentodoc abbia fatto una cosa semplice ma importantissima: ha lavorato sulla consapevolezza della centralità del territorio. Questo ha contribuito a consolidare una sorta di filosofia comune a tutti i produttori che, pur nella diversità dei percorsi, cercano di fare vini quanto più possibile identitari, che “sappiano” di Trentino e di montagna. Diciamo che c’è, ormai, uno stile della DOC che è sinonimo di eleganza, essenzialità ed equilibrio.

È stato fatto molto e bene anche sul fronte del marketing territoriale con iniziative pensate per accrescere la conoscenza della bollicina di montagna, partendo in questa opera di educazione – chiamiamola così – prima di tutto da casa nostra, cioè dal Trentino stesso per poi guardare fuori, al resto d’Italia e non solo. E oggi si può dire che Trentodoc è un punto di riferimento per tutto il metodo classico italiano di qualità.

Qual è, se esiste, secondo te la carta dei vini ideale?

Una considerazione per me preliminare è che una buona carta è quella che consente alle persone di scegliere senza sentirsi in difficoltà ma con il piacere prima della scoperta e poi della scelta vera e propria.

Detto questo, al centro di tutto c’è sempre il territorio, che deve essere valorizzato, senza naturalmente escludere i vini che provengono da altri luoghi. Ma diciamo che il territorio è un po’ il cuore della carta.

Mi piace pensare a una carta costruita in maniera sartoriale, che sia – cioè – cucita su misura per il ristorante e che, per questo, tenga conto di diversi elementi: il luogo, la cucina, le persone e tutto ciò che compone l’atmosfera d’insieme. Per questo sono sempre molto scettico nei confronti dei distributori che propongono anche di costruire e gestire la carta. In questo modo si perde la specificità e il calore di un locale.

Com’è cambiata, negli anni, la carta del tuo ristorante?

È cambiata con me, ha seguito le mie evoluzioni, frutto dei miei viaggi e delle mie esperienze di degustazione, che mi hanno fatto conoscere in maniera più approfondita certe varietà a tal punto da volerle anche nel mio locale. Sicuramente non è cambiata l’attenzione al territorio, per esempio dal 1998 ho scelto di servire come unica bollicina italiana quella trentina. Non manca certamente lo champagne, ma guardando all’Italia ho voluto esplicitare il rapporto con luogo in cui il mio locale si trova.

Spostandoci per un attimo all’estero, esiste un territorio per te d’elezione?

Forse perché sono uomo di montagna ma sono molto attratto dai vini del Nord. Amo Austria e Germania e per questo, negli ultimi anni, hanno occupato molto spazio nelle mie degustazioni. A maggio avevo in programma un soggiorno nel Baden-Württemberg per approfondire ulteriormente la nouvelle vague dei Pinot Noir tedeschi, per ovvi motivi ho dovuto rimandare ma spero di poter recuperare presto!

Torniamo al tuo ristorante, che rapporto hai instaurato con i clienti?

Mi fa molto piacere vedere che tante persone vengono da noi per la nostra carta o per provare quello che io posso consigliare. E che questa è un’esperienza che ricordano: diversi clienti mi dicono che hanno scoperto dei vini nel mio locale e che da allora non hanno più smesso di berli. Oppure ci sono i clienti-amici che mi scrivono per chiedermi un consiglio o per farmi sapere cosa hanno assaggiato in altri ristoranti o cosa hanno acquistato per sé. Ho lavorato molto per creare con le persone un rapporto che andasse un po’ oltre quello statico ristoratore-cliente.

Per questo ami definirti un oste?

Sì, perché credo che sia importante costruire un rapporto empatico con i clienti, guadagnarsi – boccone dopo boccone, bicchiere dopo bicchiere – la loro fiducia, cercare di sintonizzarsi su chi si ha davanti, per capire, sì i suoi gusti, ma anche che cosa si aspetta in quel preciso momento da noi. Questo significa sapere essere presenti nel modo giusto: a volte per una chiacchierata rilassata e coinvolta, a volte in maniera più discreta, semplicemente con un sorriso.

Mettendo per quanto è possibile tra parentesi l’aspetto professionale, quale è il tuo rapporto “personale” col vino?

Anche io come tutti ho vissuto fasi diverse, guidato dalla curiosità e dalla voglia di sperimentare. Sono partito alla fine degli anni Novanta con i vini di quegli anni, plasmati nel legno – rossi potenti, concentrati e bianchi sovraccarichi quasi per via di questo tipo di affinamento – per arrivare a oggi, dove quello che cerco è sempre una sorta di eleganza priva di sovrastrutture, perché nei vini apprezzo sempre di più l’essenzialità. E quindi ecco l’amore per il Pinot Noir, ma anche per un certo tipo di bollicina o per il Riesling.

Un paio di consigli, guardando ai due estremi: vino da tutti i giorni vs vino per le occasioni importanti. Cosa ci dici?

Faccio una premessa: mi piacciono molto i vini da tutti i giorni, perché portano con sé spensieratezza, semplicità e una piacevolezza di beva immediata, perché bere un buon bicchiere di vino non deve essere sempre e per forza un momento di riflessione o analisi di quello che hai nel bicchiere. Mi piace anche il loro essere discreti: sanno non farsi notare, sia perché non hanno una personalità troppo ingombrante, sia perché non sono sgradevoli (spesso notiamo un vino perché non ci piace). Sono vini che accompagnano con garbo e con leggerezza una cena o una chiacchierata fra amici.  Da questo punto di vista, sono un grande estimatore dei rosati, trovo che molto spesso a tavola si rivelino eccezionali, perché sono versatili, facili ma non banali. E spesso hanno anche poco alcol.

Se devo guardare a un momento importante, torno al mio DNA e quindi ti rispondo che un grande metodo classico è sempre il compagno perfetto.

Come hai visto cambiare la figura del sommelier, da quando hai iniziato a oggi?

È una figura che ha subito una grandissima trasformazione negli ultimi dieci, quindici anni, per tanti motivi: è cambiata la ristorazione, è cambiato l’approccio al vino, sono cambiati naturalmente i consumatori e soprattutto, rispetto a un tempo, la reperibilità del vino è enormemente aumentata. Tutti possono trovare tutto ora. Dico spesso che prima chi si occupava del vino era “il cameriere del vino”, adesso il sommelier è la somma di tante competenze diverse: sa di vino ma anche di territorio e gastronomia, conosce la storia e la cultura che i diversi vini si portano dietro. Allo stesso tempo, è stata archiviata la figura del sommelier un po’ rigida e polverosa dell’alta ristorazione, che nel contesto contemporaneo non avrebbe davvero più senso.

Tutto questo è stato accelerato e facilitato dal web e dai social. Sicuramente perché ci avvicinano alle persone e anche perché ci permettono di raccontare le nostre esperienze in modo diretto, quasi quotidiano.

Webinar e presentazioni a distanza: come ti stai trovando a lavorare in questo modo?

In questo periodo webinar e incontri digitali sono stati una risorsa utilissima perché ci hanno consentito di fare presentazioni e degustazioni nonostante tutto. Naturalmente, si perde così la parte più emozionale dello stare insieme con un bicchiere in mano e si perde moltissimo il contesto di fruizione, che per il vino è importante. Credo, però, che non si tornerà indietro, rimarranno queste formule, non tanto come alternativa agli eventi e gli incontri veri e propri ma per integrarli, per arricchire di uno strumento agile, facile da fruire e immediato le attività di comunicazione di produttori e consorzi.