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Tenuta Guado al Tasso: come nasce un’eccellenza

Guado al Tasso è tenuta dalla storia antica che si è profondamente reinventata a partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, diventando una delle realtà più preziose e stimate della prestigiosa DOC di Bolgheri. I suoi vini sono sinonimo di pura eccellenza, amatissimi in Italia e all’estero. Abbiamo chiesto a Marco Ferrarese, che della tenuta è direttore ed enologo, di guidarci alla scoperta della sua storia e della genesi delle sue etichette.

Partirei dal contesto ambientale di Guado al Tasso che, oltre ad essere di una bellezza speciale, è anche estremamente peculiare per quanto riguarda la composizione del terreno e l’esposizione delle vigne. Ce lo può raccontare e ci può spiegare che impronta conferisce ai vini della tenuta?

Tenuta Guado al Tasso ha la peculiarità di abbracciare tutta la variabilità di suoli che questo territorio presenta e che di fatto costituisce una delle sue caratteristiche più importanti. I vigneti si compongono di tre corpi principali: il più importante è quello che si estende a partire dalle pendici delle colline e che si trova in posizione centrale rispetto all’Anfiteatro Bolgherese (così viene chiamata la splendida piana circondata da colline), a metà distanza tra Bolgheri e Castagneto Carducci. È inoltre il luogo dove si trovano gli uffici amministrativi e le cantine. Abbiamo poi alcuni vigneti a nord della DOC vicino al paese di Bolgheri e a sud, sotto la Torre di Donoratico presso Castagneto Carducci.

I nostri ettari vitati sono costituiti da un mosaico di tante parcelle di vigneto diverse, ognuna delle quali suddivisa in base alla destinazione enologica, la quale è strettamente legata alle caratteristiche del suolo, all’omogeneità dello stesso, all’esposizione, all’età delle piante e infine all’esperienza maturata negli anni di vinificazione di quelle uve, che è forse la cosa più rilevante. Ciò fa sì che in ogni parcella di vigneto sia coltivata quella che secondo la nostra esperienza è la varietà che, in quella determinata parcella, è in grado di esprimersi al meglio.

Tutto questo ci aiuta a donare a ciascuno dei nostri vini un proprio stile e una personalità che si ripete negli anni, con le dovute sfumature legate all’annata, e che li rende in qualche modo riconoscibili.

Antinori rappresenta qualcosa di unico nel contesto italiano del vino, sia per la lunga storia che ha alle spalle, sia per il patrimonio enologico rappresentato dalle sue tenute.
 Cosa significa fare parte di una realtà di questo tipo, dove c’è una forte e coerente visione imprenditoriale d’insieme ma allo stesso tempo ogni tenuta ha una chiara e indiscutibile identità? Come si coniuga la singolarità di un progetto con la cornice d’insieme?

Marchesi Antinori è una realtà senza dubbio unica, dove ogni tecnico, pur dedicandosi alla propria tenuta di riferimento, ha l’opportunità di confrontarsi costantemente con tutti gli altri. Così come nelle tenute storiche, di cui fa parte Tenuta Guado al Tasso, anche nelle realtà più giovani si lavora per produrre vini di eccellenza che siano la massima espressione di un’uva coltivata in un determinato territorio. In alcune di queste realtà sono già venuti alla luce dei progetti, mentre in altre c’è chi ci sta ancora lavorando. Questo sprona ognuno di noi al costante miglioramento, che in primis è legato alla qualità dei vini. Ma nel seguire un’azienda agricola sono tanti gli aspetti da considerare per essere ritenuti “bravi tecnici”, e in questo l’avere dei confronti interni diretti e chiari non è cosa da poco per la crescita sia personale che dell’azienda alla quale si fa riferimento. La particolarità di ogni nuovo progetto, secondo me, viene fuori in maniera si può dire naturale, perché ogni tecnico ci mette del suo e soprattutto perché ogni territorio ha le sue peculiarità. Una cabina di regia ovviamente esiste ed è rappresentata dalla famiglia Antinori e da Renzo Cotarella che, oltre a essere l’Amministratore Delegato dell’azienda, è anche a capo dell’enologia. E questo serve in primo luogo a garantire che lo stile di ogni vino, dai nuovi agli storici, sia quello desiderato dalla famiglia.

Una cosa che in qualche modo mi sorprende di quest’azienda è che, pur avendo come dice lei una lunga storia, conserva un approccio al lavoro che per certi aspetti è simile a una start-up, e questa è una cosa che mi entusiasma.

Parlando dell’identità di Guado al Tasso: la sua storia è antica, legata alla famiglia Della Gherardesca e non solo a quella degli Antinori, ma la tenuta così come la conosciamo oggi deve la sua fama e il suo prestigio ai vini che avete iniziato a produrre a partire dagli anni Novanta. Cosa è successo in quegli anni e cosa è cambiato a livello produttivo e di filosofia aziendale per portare a vini come l’omonimo Guado al Tasso, Il Bruciato, il Matarocchio?


Quello che cambiò tutto alla fine degli anni ’80 fu la decisone del Marchese Piero di produrre il “suo” vino rosso a Bolgheri. Fino a quel momento infatti Antinori commercializzava il Sassicaia che, anche se fatto dal suo enologo Giacomo Tachis, era di proprietà dello zio Mario Incisa Della Rocchetta. Le strade si separarono nel 1989 e nel 1990 nasce la prima annata di Guado al Tasso. All’epoca l’azienda aveva poco più di 60 ettari vitati, in parte destinati al già esistente rosato Scalabrone. Dal 1995 al 2001 furono destinate risorse importanti volte alla realizzazione di nuovi vigneti arrivando a una superficie vitata di 300 ettari. Da ricordare che sono gli anni in cui vengono inserite le tipologie Rosso, Rosso Superiore e Sassicaia nel Disciplinare della DOC (1994) che prima menzionava solamente le tipologie bianco e rosato, mentre nel 1995 viene costituito il Consorzio di Tutela della DOC. La filosofia aziendale cambia, così come cambia anche quella del territorio che incomincia a crearsi una propria identità.

È per questo che, secondo il Marchese Piero, si sentiva la mancanza un vino all’epoca che potesse far conoscere il territorio di Bolgheri a un più ampio numero di consumatori, mantenendo una qualità importante e allo stesso tempo un prezzo più accessibile. Così nel 2002 nasce Il Bruciato, dalla volontà di raccontare e far conoscere secondo uno stile moderno il terroir unico di Bolgheri. Un vino molto apprezzato fin da subito, che ha avuto un grande successo di pubblico e che rappresenta ancora oggi una porta d’accesso per conoscere Tenuta Guado al Tasso e il territorio che rappresenta. La voglia di sperimentare è nel DNA dell’azienda e c’era da soddisfare un desiderio che il Marchese aveva da tempo; quello di produrre un vino ambizioso, estremamente elegante e di carattere, che fosse la massima espressione di un singolo vigneto e di una singola varietà. Ecco che da un vigneto piantato a Cabernet Franc, in un area a noi già ben nota per la vocazione al Cabernet Sauvignon, si ottiene un vino che ci entusiasma per la sua straordinaria complessità aromatica, energico e allo stesso tempo dotato di una grazia, eleganza e finezza uniche. Nel 2007 questo eccezionale Cabernet Franc sostituisce il Syrah nell’uvaggio del Guado al Tasso, determinandone l’inizio di un nuovo stile, e in parte viene imbottigliato in purezza per verificarne l’evoluzione in bottiglia. Beh, dopo 2 anni in cantina, quelle bottiglie diventarono la prima annata di Matarocchio, un vino che ancora oggi esce solamente nelle annate eccezionali e sempre in una quantità limitata di bottiglie, tutte numerate.

Per il Guado al Tasso e il Matarocchio, lavorate in maniera parcellizzata, vinificando e in parte affinando separatamente ogni singola parcella. Solo in una fase successiva viene definito quello che voi chiamate “masterblend”, ci può spiegare in cosa consiste, il perché di questa scelta e cosa comporta dal punto di vista delle pratiche in cantina?

Partiamo da un presupposto basilare: in natura non ci sono certezze assolute per cui se ripeti le stesse cose ogni anno hai lo stesso risultato. Ci piacerebbe ma non è così purtroppo! Quindi è per questo che in ogni parcella di vigneto per Guado al Tasso e Matarocchio, pur facendo le cose nel migliore dei modi, con un approccio artigianale volto alla massima qualità e attento al minimo dettaglio, abbiamo bisogno di un po’ di tempo per valutare il risultato. Questo significa mantenere separati i singoli vini, lasciandoli ad affinare in barriques per almeno 3-4 mesi.

Solamente dopo questo periodo abbiamo le condizioni ideali per poter selezionare i lotti da utilizzare nel “masterblend”. Non è sempre stato fatto così; per molti anni abbiamo effettuato l’assemblaggio solamente alla fine dell’affinamento poiché avevamo necessità di conoscere fino in fondo le potenzialità di ogni parcella. Adesso che il know how in tenuta è maggiore, possiamo anticipare l’assemblaggio e lavorare più nel dettaglio con un altro determinante fattore che va ad incidere sullo stile ed evoluzione dei nostri vini ovvero la scelta delle giuste barriques. Scelta che è strettamente influenzata dalle caratteristiche dell’annata, la quale ci condiziona nella scelta del livello di tostatura, della stagionatura delle doghe, della grana, dello spessore, ecc.

Il Matarocchio è un Cabernet Franc in purezza. Leggevo sulla cartella stampa che, all’epoca dei primi esperimenti, è stata per certi versi una sorpresa vedere quanto bene questo vitigno riuscisse a esprimersi sui vostri terreni. Dunque, che carattere ha questo Carbernet Franc, cosa lo contraddistingue?

Si è vero, il Cabernet Franc del Matarocchio è stata una sorpresa perché, pur sapendo che quello era un ottimo terreno per il Cabernet Sauvignon, non immaginavamo che anche il Franc vi si sarebbe adattato così bene. Quello che caratterizza Il Matarocchio, è la spiccata dote naturale che ha il Cabernet Franc di produrre tannini setosi e dolci, abbinati però a un’energia e consistenza insoliti, che ne fanno un vino capace di evolvere splendidamente negli anni mantenendo, proprio perché in purezza, un forte carattere identitario legato sia alla componente aromatica varietale (più o meno enfatizzata a seconda dell’annata) che alla natura del territorio dove nasce con la sua forte componente di solarità, esuberanza e fascino, unici.

L’inizio della trasformazione di Bolgheri in territorio altamente vocato si deve sicuramente alle intuizioni degli anni Quaranta di Niccolò Antinori e Mario Incisa della Rocchetta e alla loro collaborazione. Il sugello a questo lavoro è arrivato nel ’94 con il disciplinare per i rossi e nel ’95 con la nascita del Consorzio per la tutela della DOC. Quanto è stato importante questo passaggio formale/istituzionale per il consolidamento di Bolgheri?

È stato un atto fondamentale perché ha reso possibile l’identificazione di un nuovo territorio in Toscana, andando pian piano a sostituire per i nostri vini la definizione “Super Tuscan” con la quale, in particolar modo all’estero, venivano catalogati i già importanti vini all’epoca prodotti nella zona, senza che però vi fosse, da parte dei consumatori, la cognizione del luogo esatto di produzione.

Dal Trentino alla Sicilia, dai tradizionalisti “solo acciaio e botte grande” ai più innovatori “barriccai”, è incredibile quanto stia prendendo piede l’uso dell’anfora. Indipendentemente dal vitigno e dalla filosofia di cantina, insomma, quest’oggetto misterioso sta comparendo in tutte le cantine… cos’ha di tanto speciale secondo lei? Prevede di integrarne?

Di speciale ha sicuramente il fatto di essere un oggetto antico e quindi questo crea fascino, curiosità e accende l’entusiasmo e la voglia di sperimentare soprattutto a chi desidera distinguersi in qualche modo.
Noi al momento non prevediamo di integrare anfore nel processo produttivo in quanto crediamo che sui nostri vini tecnicamente il migliore materiale per la fermentazione sia l’acciaio inox, e per i rossi l’affinamento per un certo periodo in barriques, scelte con cura e attenzione.

Redazione 16.04.2021