The winefully Magazine
Elena Fucci e l’essenza dell’Aglianico del Vulture
Una lunga, brillantissima chiacchierata con Elena Fucci, donna del vino di grande temperamento e passione, che, con la sua cantina fondata nel 2000 a Barile, ha ridisegnato l’orizzonte dell’Aglianico del Vulture, fra ritorno alle origini e desiderio di sperimentare.
La storia della tua cantina sembra il soggetto perfetto per un romanzo. Ci vuoi raccontare come è andata?
Oggi sembra quasi facile parlarne perché sono molti, negli ultimi anni, i ragazzi che hanno scelto di tornare alla terra ma il mio percorso 20 anni fa era abbastanza insolito. Considera che io non vengo da una famiglia che si è sempre occupata di vino. Il bisnonno e il nonno avevano i vigneti ma vendevano le uve, mentre i miei genitori sono tutti e due insegnanti, mia madre di matematica e mio padre (in pensione da poco) di fisica meccanica.
Quando mi sono laureata nell’estate del 2000, stavamo pensando di vendere le vigne e io avevo tutt’altro in testa: studiare ingegneria genetica, lasciare il mio paese, fare esperienze fuori e probabilmente non tornare. Quello che per me ha cambiato tutto è stato realizzare che, insieme ai vigneti, avremmo dovuto vendere anche la casa in cui ero nata e cresciuta. Non mi sembrava possibile. Da lì si è messo in moto tutto.
Quindi è stato uno slancio affettivo prima di tutto?
Sì, per prima cosa sì. Perché, come ti dicevo, non ho una tradizione di famiglia in questo senso. A pensarci adesso, mi rendo conto anche di quanto sono stata impulsiva, quasi incosciente, quello che ho detto ai miei genitori è stato «Proviamo a fare noi quello che farebbero altri sui nostri terreni. Se poi vale male ci pensiamo». E ovviamente non è così facile, perché una volta che scegli una strada così e investi tutti i tuoi risparmi lì, non si tratta di provare, è quasi un obbligo riuscire a fare bene. Ora retrospettivamente, ti dico che è stata la scelta giusta ma lo dico, forte del fatto che è andata bene. Con la stessa onestà, ti dico che all’epoca non sapevo esattamente a cosa stavo andando incontro!
I tuoi genitori ti hanno supportata subito, senza esitazioni?
Sì. E sono convinta che, su questo, abbia influito molto la loro formazione di insegnanti. Sono abituati da sempre a stare con i ragazzi, ad accompagnarli a trovare la loro strada e, quindi, al di là di tutte le incognite, hanno fatto la stessa cosa anche con me. Insistendo molto sull’aspetto della preparazione, mi hanno appoggiata ma mi hanno anche spinta ad avvicinarmi al vino senza improvvisazioni, passando dallo studio. E così a settembre del 2000 mi sono iscritta alla facoltà di Viticoltura, Enologia e Scienze Agrarie di Pisa.
Il progetto della cantina come ha preso corpo?
La mia prima vendemmia è stata già quella del 2000 con 1200 bottiglie prodotte, il resto lo abbiamo venduto. L’obiettivo era quello di arrivare progressivamente a non vendere nulla ma nemmeno a comprare. E, infatti, già da tempo vinifichiamo solo quello che producono i nostri vigneti. Sono tutti di Aglianico del Vulture, attorno alla nostra casa di Barile, quella che non volevo vendere e a fianco della quale si trova la cantina. Oggi produciamo circa 25.000 – 30.000 bottiglie all’anno di una sola etichetta, Titolo. È stata una scelta che abbiamo preso subito. Sei ettari, tutti con la stessa esposizione, tutti alla stessa altitudine: ci è sembrato naturale puntare tutto su una sola referenza e farla molto bene. È stato tutto molto semplice, volevamo fare il meglio con quello che avevamo. Senza studi di marketing o business plan.
Parliamo del tuo Aglianico allora. Il suo carattere come lo descriveresti?
La cosa che ripeto spesso è che la mia è una visione moderna ma non modernista e questo si traduce nel lavoro che faccio, in vigna e in cantina, per esaltare acidità, mineralità e tannicità di quest’uva. Il vero carattere dell’Aglianico è questo: acido per via delle altitudine, minerale grazie al suolo vulcanico, con una componente tannica genetica tenuta, però, sotto controllo. Purtroppo in passato è stato un vitigno un po’ bistrattato: negli anni Sessanta e Settanta si pensava che non fosse adatto a essere vinificato in purezza e veniva usato come uva da taglio. Poi negli anni Ottanta e Novanta, è stata la volta del tentativo di farlo assomigliare allo stereotipo del Sud dei “vinoni” tutti estrazione. Ma in realtà l’Aglianico del Vulture non è così, perché è un vitigno quasi di montagna. Qui siamo nell’entroterra, a 600 metri circa di altitudine, con grandi escursioni d’estate e la neve d’inverno.
Quindi il tuo lavoro è quasi un ritorno all’origine, all’essenza dell’Aglianico.
Sì ma ti devo dire anche che per mia inclinazione personale, sono sempre stata lontana dal modello del Sud dei vini tutto frutto, super-piacioni, anche quando il gusto andava maggiormente in quella direzione. Ma non era il mio di gusto e non avrei mai potuto produrre un vino che non rispecchiasse questo fatto. Per esempio, lavoro da sempre con l’acino intero e con macerazioni brevi, perché sono scelte che preservano le caratteristiche che ti dicevo.
Nel mio percorso, penso di essere stata aiutata dal fatto di non avere una tradizione familiare alle spalle con cui misurarmi. Sono partita da zero: non avevo punti di riferimento ma non aveva nemmeno il peso di un modello a condizionarmi. Diciamo che il mio vino è nato con me, con la mia impronta e sta crescendo con me. Questo significa anche commettere errori, soprattutto all’inizio è quasi inevitabile, ma mi ha anche dato una grande libertà.
Escludi a priori di cimentarti con altri vitigni in futuro?
In realtà no, anzi. Credo molto nella vinificazione dei cru e mi piacerebbe andare in questa direzione, quindi sviluppare altrove altri progetti nel rispetto di una certa specificità territoriale. Quello che non farei mai è replicare il progetto Titolo altrove, perché Titolo ha senso qui a Barile in relazione alla sua vigna.
Operate in biologico già da tempo e tutte le operazioni agronomiche sono condotte manualmente. Quindi sicuramente non siete interventisti. Rispetto al dibattitto vino naturale vs vino convenzionale come ti poni?
Non mi piace l’approccio passatista, l’idea nostalgica di fare il vino come una volta, perché negli anni di cose ne sono cambiate, sono cambiati i territori ma anche le nostre conoscenze, quindi mi chiedo perché non usarle per lavorare meglio.
Ti faccio un esempio semplice: col biologico possiamo intervenire sulla pianta con prodotti da contatto e non sistemici, ma per poterlo fare con la dovuta efficacia, dal mio punto di vista, è necessaria una stazione meteo che fornisce una serie di dati scientifici che consentono di fare le scelte corrette nel momento più giusto. Quindi perché basarsi sul dato empirico, quando la scienza ci aiuta ad avere più dati e più precisi? Una volta non avevano questa possibilità, noi sì, quindi sfruttiamola.
Credo che, di fondo, sia una questione di buon senso e conoscenza dei territori. Per me l’agricoltura del futuro dovrà essere un integrato ragionato perché la scienza e la tecnologia possono essere grandissime alleate del biologico, se usate nella giusta misura e con lo spirito giusto.
Una domanda “femminista”. Le donne del vino, da nord a sud sono tante in Italia, eppure nella percezione comune rimane un mondo molto maschile. Qual è la tua esperienza in proposito?
Sì è vero che siamo tante ma la maggior parte si occupa di marketing e comunicazione. Le enologhe sono poche ancora. Ma non credo che sia una scelta imposta dagli uomini o dall’ambiente. Mi sembra che c’entrino di più i percorsi personali e familiari.
Nella mia esperienza non ho nemmeno avuto difficoltà con un ambiente a predominanza maschile, né all’università né sul lavoro. Certo, penso che conti molto la personalità, ho un carattere molto forte e non sono una persona che subisce le situazioni. Forse altre ti racconterebbero altre cose.
La Basilicata è una terra splendida. Cosa si dovrebbe fare secondo te per farla conoscere di più, per far sapere (banalmente) alle persone quanto può offrire?
Premetto che negli ultimi 15 anni ho visto grandi cambiamenti: molti giovani che hanno studiato fuori ma poi sono tornati qui a lavorare, persone che hanno investito sul territorio e sul turismo. E noi i risultati di questo cambio di mentalità li vediamo. Matera è l’esempio più evidente. Credo che la percezione da fuori sia falsata perché veniamo paragonati ad altre regioni, più grandi e più popolate. La Basilicata è sì grande ma ha 480.000 abitanti, siamo pochissimi ed è una terra che per sua natura non potrà mai essere protagonista di un tipo di turismo intensivo. Ed è il suo bello, la sua unicità.
]Chiudo come ho iniziato, parlando di famiglia. Quanto influisce sul tuo lavoro questa impronta familiare così forte?
I miei genitori mi hanno insegnato l’importanza di essere onesti e trasparenti e anche quello che ti dicevo prima, il valore dello studio, del sapere, che è una cosa che mi porto dietro: io non smetto mai di studiare. Tutto questo è presente ogni giorno nel modo in cui lavoro, insieme a un senso di riconoscenza ma anche di responsabilità. La mia famiglia ha creduto in me, ha investito nel mio progetto e prima ancora queste erano le vigne che mio nonno aveva rilevato e che suo padre coltivava come mezzadro. Quindi, sento sempre la responsabilità di fare bene anche per tutti loro, per rispetto e amore nei loro confronti.
Il nonno cosa ne pensa del tuo progetto?
Lui ha 94 anni adesso ed è molto orgoglioso della cantina – che è tutta in bioedilizia e a ciclo chiuso dal punto di vista energetico – e soprattutto dei vigneti. Però mi ha sempre aiutata a tenere i piedi per terra.
Ti racconto questo episodio di qualche anno fa che ancora continua a farmi ridere tantissimo: gli mostro i primi riconoscimenti della critica – dai Tre Bicchieri a Parker – e lui a un certo punto mi guarda e in dialetto mi dice: «Elena, alla fine sempre vino è!». In un attimo mi ha riportata alla dimensione concreta di quello che faccio, senza fronzoli. E per me è una cosa preziosissima.
– Redazione 03.11.2020